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Autore: Dido88    15/02/2009    8 recensioni
Quando Dylan Key scrisse il suo nome su Wikipedia, non avrebbe mai immaginato di trovarci un'intera pagina dedicata alla sua vita. Ma sopratutto non avrebbe mai immaginato che terminasse con la sua morte : data prevista... il mese prossimo...
Genere: Horror, Mistero, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Ragazzi perché vi adoro

Ragazzi perché vi adoro? Perché ogni vostro commento mi riempie di gioia? Perché ostino a dirvelo? Perché è la sacrosanta verità.

Quindi passiamo al sodo : il PDV di questo capitolo è completamente diverso dagli altri : John sta per prendere le redini degli eventi che seguiranno.

Un intuizione geniale (forse si rivelerà banale in seguito) mi ha spronato per un finale misto e non preciso. Lo so, non sono di aiuto e soprattutto quanto v fregherà quello che ho scritto?

Non so, quindi vi auguro (sperando vi piaccia) una buona lettura.

Un saluto. Dido; i ringraziamenti, come al solito, sono alla fine del capitolo.

 

P.S. Perdonate John per il suo “colto” vocabolario.

 

 

«Dalla non è un cantante, ma un consiglio» Lessi sul muro di mattonelle verdi. Da Frank faceva tutto schifo: la taverna (Una grotta per sociopatici), la birra (Non so come si pronunci il nome di quella marca scrausa), i videogiochi (Qualcuno gli vuole dire che siamo arrivati al quinto capitolo di Street fighter e non al secondo?!) e perfino il cesso; era fatto da quattro bare col buco (Frank osava chiamarle cabine), una di fianco all’altra, che affacciavano su un lavandino in marmo verde (Come le mattonelle d’altronde – il richiamo del vomito era nelle vene di quell’ubriacone) lercio e mezzo sgangherato. Pendeva verso sinistra, facendo schizzare il getto d’acqua nel cestino dell’immondizia in metallo. Cazzo, neanche un vetro dove specchiarsi o un po’ di sapone per pulirsi.

E pensare che non entravo mai in uno di quei cessi (Bare) senza un pacchetto di fazzoletti: la carta igienica in quel posto non era stata ancora inventata.

 

Scaricai lo sciacquone ed uscii senza lavarmi le mani. Andavo di fretta: dovevo fare una strage ad House Of Dead! Attraversai la striscia di macchinette arcade fino a raggiungere quella che cercavo.

Mi appoggiai sullo sgabello (Verde anche quello, cazzo!) e mi armai con entrambe le pistole laser (Indovinate di che colore erano).

Feci inghiottire alla mangia soldi due monetine e passai allo sterminio digitale.

Fanculo le buone maniere o il bon ton. Tanto mio padre non mi prenderà mai nella sua scuola privata per gentlemen; mi odia.

 

Posai le pistole nelle loro fondine di plastica, strofinandomi le mani per togliere il sudore appiccicaticcio che si era formato in quelle 3 ore di gioco. Superai la filadi macchinette video ludiche mangia soldi e mi buttai su una delle sedie del bancone.

«Frank» sospirai «Dammi una stufen splughen!»

Il barista cicciottello dalla folta chioma rossa increspò il viso infastidito.

«Stafenin Sprukenin si dice, pezzo d’asino!» Rombò Frank mentre allungava le mani nella cella frigorifera per bibite che teneva sotto il bancone.

«È la stessa cosa Frank. Vedi di non rompere, cazzo!»

Mi lanciò una birra. Che schifo, era tutta appiccicaticcia.

«Come cazzo fai ad avere sempre le mani sudate, eh Frank?» Dissi facendo  schioccare la linguetta della lattina; della schiuma amara traboccò dal barattolo. «Io almeno ho sparato per 3 ore di fila ad orde e orde di morti viventi!»

Frank non lo avevo mai capito. Un uomo libero, che guadagnava bene grazie ad un’attività di propria gestione, che beve senza pagare e che non fa un cazzo dalla mattina alla sera… perché un uomo così sta sempre incazzato nero? Gli mancava la compagnia del gentil sesso? Mah, non credo: uno come lui va con le lolite di notte. Ne  ero sicuro.

Diedi un sorso alla birra.

«Sa di piscio Frank! La prossima volta non te la pago»

Mi squadrò col suo sguardo burbero. Sapeva che bluffavo, ma si incazzava comunque (Tanto per cambiare).

«Pezzo d’asino ma tu non stavi migliorando a parlare?»

«Si Frank, ci provo… ma cazzo il mio vecchio non mi sopporta., quindi che spreco a fare il mio tempo, eh?!»

«Quindi getti la spugna?» Disse, passandosi una mano unta fra i capelli.

«Esatto» Sillabai mentre presi un altro sorso di piscio.

«Se vuoi provaci tu a migliorare il tuo lessico.» risi sotto i baffi. «Ne avresti bisogno»

Mi colpì con lo strofinaccio giallo con cui ripuliva il vomito dai pavimenti.

«Che schifo…»

«Dov’è oggi il tuo amichetto del cuore?» Riprese a parlare come se non mi avesse trasmesso chi sa quanti microbi e batteri grazie a quello schiocco di panno al rigurgito.

«Mah, era andato dal fratello in palestra…» Cazzo, ma che fine aveva fatto Dylan. «Fammelo chiamare che è meglio.»

Posai la lattina sul bancone di legno e presi il cellulare; una rapida sfogliata alla rubrica digitale e già stavo chiamando Dylan per cazziarlo come meritava.

 

Odiavo gli ospedali. Troppi brutti ricordi.

Quando chiamai Dylan, fu la madre a rispondere. Capii subito che era successo qualcosa di grave: Dylan non si staccava mai dal suo cellulare. Era troppo fissato; diceva che poteva tenersi in contatto con tutto il mondo con un semplice CLIK e di solito premeva la cornetta verde disegnata su un pulsante. Da quando poi Internet era compatibile con le funzionalità dei cellulari… diciamo che era entrato in brodo di giuggiole con quel suo aggeggio..

Io non ci tenevo molto a quei cosi, ma non so se perché non mi piacevano o perché il mio andava ancora con le suonerie monofoniche. Mio padre mi odia proprio

 

Raggiunsi in poco l’ospedale dove era ricoverato Dylan col fratello; era l’unico in tutto il paese e si trovava vicino la palestra Pinco Pallino. Avevo corso a piedi dalla sala giochi di Frank e quando arrivai nell’area di accettazione del San Gemini pensai di accasciarmi per una mezzoretta prima di entrarvi dentro, ma quel posto era inquietante.. L’ospedale più che donare uno stato di sicurezza e fiducia a chi vi entrava, emanava lugubri presagi di morte. Per un paziente doveva essere una tortura.

Appena superato il muretto d’entrata, come lapidi premonitrici, i necrologi di chi era ricoverato, erano incollati sulle pareti dell’edificio. Tutti i nomi e le date di decesso dei defunti, erano sistemate con ordine e precisione, quasi ci fosse un contabile vite in ospedale che ci tenesse a far sapere a tutti quanto fosse ligio al dovere. Questa mia fantasia era assurda: i necrologi erano appesi sulle pareti d’entrata  per avvertire (All’arrivo) sia il personale che la famiglia dei vari pazienti.

Via il dente, via il dolore

Prima di entrare mi fermai su una di quelle pareti tappezzate di vite infrante. Iniziai a fissarle una ad una, dispiacendomi per la loro fine prematura o meno.

Mi voltai per dirigermi verso l’entrata dell’ospedale, ma un tarlo iniziò a picchiettare nella mia mente. Io controllerei, diceva trapanandomi le orecchie. Io controllerei che non ci sia il nome del tuo amichetto…

Stupido tarlo, non poteva essere così. Non doveva!

Eppure hai sentito ciò che ti diceva la madre, sobillava mentre iniziava ad insinuarsi nel mio cervello, sia Luke che Dylan sono caduti dalla balconata del primo piano.

«Zitto» Gridai nel muto frastuono dell’ospedale «Sono entrambi vivi!»

Se lo dici tu… non ti va di controllare?

Il bastardo era insistente.

 

Mi appoggiai con la schiena contro il marmo ruvido della parete. Cazzo, era gelido.

«Va bene» Iniziai ad auto incitarmi per convincermi che tutto sarebbe andato liscio. «Una controllata rapida e vedrai che dei nomi di Dylan e Luke, non vi sarà traccia»

 

Iniziai a controllare tutti i manifesti mortuari :

Danny Loco – 67 anni

Ashley Ramadan – 71 anni

Joy Star – 75 anni

John Baud – 17 anni

Clarissa Sutherland – 89 anni

Lara Font – 94 anni

 

Per fortuna il loro nome non c’era.

 

Attraversai le porte automatiche in plastica dell’ospedale, fermandomi a chiedere informazioni alla reception sulle camere dei pazienti Key. L’infermiera digitò i loro nominativi sul PC  e mi disse di attendere.

L’atrio dell’ospedale era formato da un bancone azzurro al centro, dove c’erano le infermiere addette all’accoglienza dei pazienti; le pareti in panna erano ricamate da quadri raffiguranti varie zone anatomiche del corpo umano (Non ne riconoscevo nemmeno una) e delle panchine sparse lungo tutti i muri.

Mentre aspettavo che quella macchinetta elaborasse i dati, mi soffermai sul silenzio e sulla violenta pace che regnava in quella sala. Oltre a me e alle infermiere indaffarate (Nei loro camici rosa – molto succinti) non c’erano pazienti, visitatori o familiari in cerca dei propri cari.

«Entrambi sono ricoverati nella sala 23 al terzo piano» Disse l’infermiera ricercatrice spezzando la catena dei miei pensieri.

«Grazie» Sospirai «Scusi… come mai non c’è nessuno paziente o chi so io in ospedale oggi?»

La donna iniziò a guardarmi stralunata. Il sopracciglio sinistro le si era leggermente inarcato mostrando un piccolo neo peloso vicino la pupilla marrone dei suoi occhi,

«Cosa stai dicendo ragazzo? Siamo stracolmi di lavoro e tu ci prendi in giro?» Tuonò infastidita.

«Veramente…» Una spintonata mi interruppe: intorno a me uno sciame di sagome aveva saturato la stanza. Infermieri, malati e dottori si aggiravano affannosamente per la sala, alla ricerca di medicine o chi sa cosa.

«Scusi…» Biascicai, rosso come un pomodoro, prima di alzare i tacchi e prendere le scale che si trovavano sulla destra della reception.

 

Raggiunsi il terzo piano. Come per il resto della struttura, il bianco sterile regnava con prepotenza; iniziai a correre alla ricerca della stanza 23. Dovevo sapere come stava Dylan…

Mentre attraversavo il corridoio, sentii il tarlo iniziare a mangiucchiare pezzi della mia materia grigia. Forse non hanno ancora avuto il tempo di affiggerli i manifesti o forse appena entrerai nella loro stanza incontrerai un dottore che ti annuncerà la loro morte, disse il tarlo mentre zappava col becco nella mia mente, scavando sempre più nel profondo.

Accelerai il passo istintivamente, ma giunto alla fine del corridoio, prima dell’inizio delle scale che portavano al quarto piano, notai che della stanza numero 23 non vi era traccia. L’ultima stanza  era la 33. Iniziai a ripercorrere il corridoio, teoricamente la stanza 23 doveva essere la prima.

Correndo mi voltai distrattamente verso una delle finestre che affacciava sul giardino ospedaliero. Incespicai facendo urtare un piede con l’altro: dalla finestra, come dei fantasmi moribondi, le persone di cui avevo letto i necrologi si stavano accalcando. Erano in piena decomposizione; le loro teste erano prive di orbite, parti del corpo erano penzolanti e dei capelli era rimasta solo qualche piccola ciocca di ciuffi posticcia. Tutti erano insozzati di terreno, fango e vermi. Uno di loro ne aveva uno che attraversava una narice per uscirne dall’altra.

Iniziai a correre più in fretta che potevo, ma ogni volta che affiancavo una finestra, loro apparivano come se fossero un riflesso di un sole macabro. Un riflesso di morte.

Tra di loro ce n’era uno in particolare, integro…

Se ne stava in disparte, senza emettere rantoli o accalcarsi con gli altri sulla finestra. Non era nemmeno ricoperto di fango…

 

La stanza 23 era la prima. Appena la vidi, mi fiondai con entrambe le mani sulla maniglia della porta, abbassandola e spingendola internamente.

Sentii il rumore di una finestra che veniva fracassata, ma non mi voltai per controllare; chiusi la porta alle mie spalle.

 

Un dottore stava stringendo tra le braccia Luana quando entrai ella camera; Dylan e Luke invece erano stesi su delle lettighe, collegati ad alcuni macchinari per il controllo della salute. Lungo i loro bracci, un vortice di tubicini penetrava le loro vene, per trasportare il liquido di alcune flebo nei loro corpi immobili. Erano in coma.

 

Passarono 5 ore prima che mi cacciassero dalla camera 23 (Fine orario delle visite); quanto desideravo lo avessero fatto prima.

 

Quando la madre abbandonò la stanza, lasciandomi solo con i due fratelli in coma, una folata di vento penetrò la sterilità di quella camera.

L’unica finestra era bloccata, mentre la porta era chiusa. Il vento non sarebbe dovuto passare da nessuna parte.

Presi una delle sedie gialle del tavolino in plastica, e mi sedetti di fianco a Dylan. Con la sedia cozzai un vaso con una piantina, posto sul mobiletto di fianco la lettiga, che riuscii ad afferrare prima che si infrangesse in terra. Lo risistemai al suo posto e mi soffermai sul viso pallido del mio migliore amico.

I suoi lunghi capelli ramati erano stati coperti dalla garza e da alcuni punti di sutura che, come in un campo minato, riempivano la sua testa. Che si vedessero oppure no.

Ero tentato di allungare la mano e toccarne uno, ma la paura che si aprisse (Ed esplodesse) sputando fiotti di sangue e brandelli di cervello, mi fermò.

Puntai gli occhi sul freddo schermo del suo battito cardiaco, una specie di step elettronico che saliva e scendeva seguendo il suo battito cardiaco.

«Cazzo… Dylan… Luke… merda!» Digrignai i denti fino a scheggiarne qualcuno, non sapevo come reagire, così finii col pensare a tutte le cazzate fatte insieme nel corso degli anni. Ci eravamo conosciuti alle elementari e da allora avevamo frequentato gli stessi indirizzi, un po’ per fortuna un po’ perché volevamo. Nei momenti più bui della mia vita lui mi aveva sempre dato una mano. Ora che gliene serviva una, io non sapevo cosa fare. Forse non potevo fare nulla, ma non riuscivo ad accettare quest’assurda idea di dover attendere che il fato decidesse che valeva la pena di salvare la sua vita o no.

Mi alzai dalla sedia, raggiungendo la lettiga di Luke.

«Sei uno stronzo… ma ti ho sempre voluto bene» Dissi, nascondendomi il volto tra le mani.

«Non ti preoccupare per loro» Una voce infantile irruppe nella stanza insieme ad un’altra folata di vento. Iniziai ad ispezionare la stanza. Non riuscivo a capire da dove provenisse.

«Chi sei?» Gridai con tutto me stesso; speravo di svegliare i due comatosi facendo casino…

«Apri il pacchetto il giorno di San Valentino…» La sua voce era divenuta quasi un sospiro impercettibile.

Iniziai a mettere a soqquadro la stanza, buttando per terra il tavolo, le sedie ed il vaso che prima avevo salvato. Niente. Tranne me e i due fratelli, non c’era nessuno.

Una risata acuta come lo stridio di un violino echeggiò nella mia testa. Il tarlo, pensai istintivamente, prima di vedere un pacchetto rosso a forma di cuore sulle gambe immobili di Dylan.

Lo afferrai con la mano sinistra mentre con la destra sollevai di poco la parte superiore del pacchetto. Apri il pacchetto il giorno di San Valentino, aveva detto la vocina fanciullesca…

Nella mia mente si formò l’immagine nitida di un pagliaccio sorridente. I suoi dentini brillavano nell’oblio della mia mente con il loro marciume giallastro. Osservandoli bene, notai che dietro ogni fila di denti ce ne era un’altra, come le fauci degli squali.

Scacciai quell’immagine dalla mente e mi soffermai sul cuore che avevo tra le mani. Un improvviso fetore salì dal suo interno, un misto tra il rancido e la decomposizione. Vagamente mi ricordava la spazzatura rimasta esposta per troppo tempo al sole. Una parte di me avrebbe buttato da qualche parte quella scatoletta, ma l’altra voleva sapere cosa c’era.

Scoperchiai la scatola.

Poco dopo un infermiera entrò per dirmi che l’orario di visite era finito; riuscii a vedere i suoi occhi strabuzzare prima di riempirsi di lacrime… stava tremando.

 

Ed eccoci alla fine del 5° capitolo. Sono riuscito ad angosciarvi un pò? A farvi venire i brividi? Ultimamente non sto leggendo molto e quindi temo che la mia scrittura ne risenta… mah, spero solo (e sempre) che a voi piaccia tanto quanto sia piaciuto a me scriverla.

 

new_francysmile_live : eheheheh. Temevo di aver fatto un mezzo flop col gioco di luci. Mi fa piacere che ti abbia colpita,

Sarapastu : ahahahahah  mi fa piacere di averti confusa le idee.

shura 4 ever : Grazie, troppo buona. Poverini, deve far molto male cadere da una balconata…

Tiky W : mmm… non so che fine farà Luke, però c’è da dire che come personaggio è approssimativo, non l’ho approfondito molto… perché è uno dei tuoi preferiti?

Ego me stesso ed io : Mi fa piacere che il modo in cui descrivo le situazioni e gli eventi sia di tuo gradi mento e… NO! Non sono tanto normale (in senso buono ovviamente… credo!)

Ciabysan : Lo so, ma era inevitabile. Non ho ideato subito tutta la storia ed il suo evolversi (e so che è sbagliato), ma questo passaggio era obbligatorio. Comunque sempre lieto di riempire la sua lettura di tensione e terrore.

  
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