Libri > Twilight
Segui la storia  |       
Autore: FCq    08/10/2015    3 recensioni
“Tu sei...”, urlai contro Edward, seduto sul bordo del letto, lo sguardo chino a terra e le mani dietro la nuca.
Mi fissò.
“Tu sei... un idiota. Tu sei incomprensibile e lunatico...
______________
“Perché non capisci”, sussurrò.
“Cosa? Cosa dovrei capire?”.
“Che ho sbagliato. Ho sbagliato tutto”.
“Cosa vuoi da me Edward?”, gli chiesi, .
“Io non voglio niente da te...”, mi rispose. L'intensità nella sua voce solleticò ogni nervo del mio corpo. Con lo stesso vigore mi strinse il viso fra le mani.
“Io non voglio niente da te”, ripeté, “io voglio te”.
Allora si avventò sulle mie labbra.
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: New Moon
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Buonasera!! Vorrei iniziare chiedendovi scusa per il ritardo enorme di questo post ma ho avuto molto da fare... potrebbe sembrare una scusa banale ma è la verità : ( però ho scritto, lentamente ma ho scritto... se qualcuno vorrà ancora leggere io sono qui... secondo ringrazio infinitamente hakuna89 per aver segnalato la mia storia per le scelte e ringrazio tutti coloro che hanno  letto e lasciato una recensione... siete preziosissimi. Spero che il capitolo valga l'attesa. Buona lettura : )



Ecco dove eravamo rimasti:

“Capisci quello che mi chiedi? Capisci a cosa andrai incontro? E non mi riferisco soltanto al dolore della trasformazione. Non conosciamo le conseguenze che la trasformazione avrà su di te, data la tua natura e il tuo dono. E la mutazione sarà...”.

“Molto più dolorosa e difficile. Lo so, amore mio. Ma se anche io sopravvivessi alla mutazione, morirò ugualmente. E io non posso, non voglio morire. Perché tutto questo non può avere una fine, non può avere una scadenza. Io riuscirò ad ingannare il tempo e riuscirò a sconfiggere la mia natura. E lo farò...”.

“Se vuoi farlo perché credi che ciò che sostiene Ian possa verificarsi...”.

“No. Voglio farlo perché ti amo. Voglio farlo per te. Se anche Ian dovesse avere ragione e il nostro legame dovesse essere in qualche modo scritto nelle stelle, io sono pronta a sfidarle, le stelle, il destino o chi per lui. Iniziando da qui”, conclusi, indicando un punto esatto del mio collo, tra la carotide e la succlavia.

Edward mi fissò a lungo, prima di decidere se agire o meno.

L'ultima cosa che ricordo di quella notte unica, in quell'unico luogo, sono le sue mani sulla mia schiena che dolcemente mi accostano al suo torace ampio, il mio seno caldo che sfiora la sua pelle, le sue labbra tentatrici sul mio collo, i suoi denti perfetti che, come coltelli dalla lama affilata, affondano nella mia carne con amore. Poi, ci fu soltanto il dolore.

 

15) Ribelle

 

Non dirò: “Non piangete”,

perché non tutte le lacrime sono un male.

J.R.R. Tolkien

Edward

Amare è soffrire.

Mia madre, Elizabeth Maryann Masen, sosteneva che la gioia più viva e la gloria più grande le avrei provate in guerra.

Naturalmente Elizabeth, avversa a ogni forma di violenza, non alludeva alla guerra che si combatte in divisa e in armi, ma all'amore.

E in amore, diceva, come in guerra, soffrirai, ma di una pena così dolce da preferirla alla sua assenza.

Amare è soffrire.

Nel 1975 Woody Allen nel suo “Amore e Guerra” diceva:

Amare è soffrire. Se non si vuol soffrire, non si deve amare. Però allora si soffre di non amare. Pertanto amare è soffrire, non amare è soffrire. Essere felice è amare: allora essere felice è soffrire. Ma soffrire ci rende infelici. Pertanto per essere infelici si deve amare. O amare e soffrire. O soffrire per troppa felicità. Io spero che tu prenda appunti...”.

Amare è soffrire.

Eppure, io non li capivo. Nella mia visione limitata, in cui ogni cosa era nera o bianca e stop, amare non poteva equivalere a soffrire; sarebbe stato un controsenso, un paradosso.

Amare avrebbe dovuto illuminare, migliorare, salvare una vita, sottrarla alle tenebre e al dolore, non sommarne altro. Mi sfuggiva, tuttavia, che l'uno(l'amore) non dovesse necessariamente togliere l'altro(il soffrire).

Amare è soffrire.

Lo compresi soltanto qualche anno fa, quando incontrai Isabella, Bella. Quando ogni cosa assunse delle sfumature.

Capì che amare è soffrire perché soltanto la persona che ami ha il potere di annientarti, perché, essendo legato ad essa a doppio filo, la sua sofferenza e il suo dolore sono i tuoi e la sua vita diventa indispensabile a tal punto che saperla in un qualsiasi pericolo ti fa arrabbiare, sragionare.

 

E io sragionavo.

 

“Non puoi dire sul serio. E' follia”, ringhiai.

Se non avessi scorto l'incertezza nei suoi occhi, l'impassibilità del suo viso mi avrebbe ingannato e avrei desistito.

“Non ti chiedo di venir meno alla tua parola, soltanto... aspetta. Porta a termine la mutazione, in questo modo non corri alcun rischio e...”.

“Non posso. Sai bene che ho soltanto il 20% di possibilità di completare la mutazione. Ciò vuol dire che esiste l'80% di probabilità che io muoia. E non posso... morire senza aver prima...”.

“Se aspetterai altri dieci giorni avrai soltanto l'1% di possibilità, Bella. Lo capisci?”, urlai.

“Tanya ti ha salvato la vita e ha salvato la mia. Il minimo che possa fare per lei è mantenere la promessa, trovarlo...”.

“Mi chiedi di lasciarti morire, di... stare a guardare mentre... getti la tua vita come fosse spazzatura. La tua vita è tutto ciò senza cui io non potrei vivere”.

Si mosse rapidamente e con naturalezza, come lo facesse da anni anziché poche ore, e mi strinse le mani fra le sue, piccole e forti.

“Devi avere fiducia in me. Pensi che metterei a rischio l'intero genere umano se non fossi certa di poterlo fare, di poter sopravvivere?”.

“Se ne sei certa, allora il viaggio può aspettare. Muta e poi...”.

“Sapere di aver mantenuto fede alla mia parola sarà un ulteriore incentivo... sapere di averlo con me sarà un incentivo”.

“Hai deciso, quindi?”.

Annuì.

Il fuoco nei suoi occhi mi avrebbe indotto a credere in qualsiasi cosa, persino nella follia che aveva ideato.

Per questo motivo... le voltai le spalle.

 

3 giorni e 15 ore prima.....

 

Mia madre, Elizabeth Maryann Masen, mi era stata accanto nei momenti peggiori della mia vita, siano stati essi precedenti o successivi alla sua morte.

Elizabeth mi era stata accanto negli ultimi mesi del 1917, quando, assetato di gloria, mi ero convinto di voler entrare in guerra; mi era stata accanto durante la mia malattia, fin quando la spagnola stessa non se l'era portata via. Mi era stata accanto mentre il veleno di Carlisle bruciava ogni muscolo, ogni arteria del mio corpo.

Anche ora mi era accanto. Letteralmente. O quasi.

In realtà, sedeva al lato opposto del letto in cui giaceva mia moglie. Mia moglie... nonostante non lo fosse ufficialmente mi ostinavo a considerarla tale, forse perché ufficiosamente lo era stata dal primo istante in cui avevo adagiato lo sguardo sul suo viso, in quell'aula.

Elizabeth, il suo fantasma o la sua illusione come dir si voglia, le accarezzava dolcemente i capelli, indugiando sulla sua fronte madida di sudore.

Ricordavo quel gesto... lo aveva ripetuto così tante volte durante la mia malattia, la nostra...

“Come stai?”, mi chiese.

“Sto bruciando”, le risposi come fosse ovvio.

Elizabeth contrasse la mascella, i suoi occhi verdi guizzarono al suono del suo ennesimo urlo. Il decimo, per l'esattezza. Benché si dimenasse, agitandosi come le stessero lavando la pelle con acido, urlava poco.

Pur nella sua condizione, doveva essere consapevole del luogo in cui ci trovavamo: una palazzina abitata da quaranta persone, la maggior parte delle quali, essendo abituata a strani rumori, non avrebbe fatto domande. Tuttavia, se avesse urlato ininterrottamente per tre giorni consecutivi, dubitavo che tutti e quaranta sarebbero rimasti indifferenti.

E io non potevo spostarla, non avrei ottenuto altro che intensificare la sua sofferenza.

Le strinsi la mano senza esercitare un'eccessiva pressione.

“Parlami”, mi chiese mia madre.

“Casa dovrei dirti?”, le risposi.

“Quello che provi”.

“Tu non dovresti neanche essere qui. Sei morta”.

“Anche tu”, mi rispose, senza tuttavia alcuna traccia di cattiveria nella voce: la sua era una semplice constatazione.

“Se non fossi stato... così, lei sarebbe potuta rimanere umana, mutare... tutto sarebbe stato più semplice”.

“Se non fossi stato così, non vi sareste mai neanche incontrati, saresti già morto da un pezzo, tesoro. Non essere infantile, ti è stata data l'opportunità di un'esistenza eterna con l'amore della tua vita, quando in tanti non riescono neppure a incontrarlo... l'amore vero”. Pronunciò quell'espressione, amore vero, con solennità.

“Tu rientri in questa categoria, madre”, anche la mia era una semplice constatazione.

“Edward era un uomo con tante qualità in campo professionale, sociale, politico... ma non era né un buon marito né un buon padre.

“Era un bastardo”.

“Edward”, mi riprese Elizabeth.

“Non credo di averti insegnato un simile linguaggio e neanche Esme l'ha fatto”.

Se avessi potuto, sarei arrossito per l'imbarazzo.

“Comunque è vero, lo era”, mi appoggiò.

Forse, da ragazzo, ad allettarmi del fuggire in guerra non era tanto la gloria quanto il fuggire stesso...

“Lei lo sa?”, mi chiese.

“E' l'unica a saperlo. Se Carlisle ne fosse stato a conoscenza non avrebbe taciuto”.

“Saresti stato un padre migliore”, mi consolò.

“Se avessi potuto esserlo. Forse è questa la ragione”.

Elizabeth attese in silenzio che continuassi a parlare.

“La ragione per cui avrei voluto una vita da umano, per dimostrare di poter essere un uomo migliore di mio padre”.

“Sarebbe stato un obiettivo semplice da raggiungere, non ti pare?”, rise con leggerezza ma senza buonumore, “difficile, invece, è riuscire ad eguagliare Carlisle in questa vita”.

Colpito e affondato.

“Temo di non essere in grado di fare del mio meglio con questa natura. Sono stanco di dover combattere contro me stesso ogni giorno”.

“Tutti combattiamo contro noi stessi, contro i nostri demoni. Il mio demone era tuo padre, il tuo demone sei tu. A volte ho l'impressione che qualcuno si prenda gioco di noi. Viviamo e ogni nostro senso è teso alla nostra sopravvivenza, eppure vivere è così difficile, bisogna ritenersi fortunati se i momenti di dolore sono in proporzione ai momenti di gioia. E' come essere arruolati in una guerra che non si è scelto di combattere, senza tuttavia poter abbandonare le armi. E continuiamo a combattere nella speranza che un giorno qualcuno ci dica per cosa stiamo combattendo, perché abbiamo iniziato a combattere e quando smetteremo di farlo”.

“Sono stanco del dolore che mi opprime il petto al pensiero di tutte le volte che sono caduto, che ho fallito, come è accaduto in passato”.

“Quando lei non c'era”, continuò per me.

“Quando lei non c'era”, ripetei, “non posso continuare senza di lei. Se dovesse... se dovessi perderla, perderei anche me stesso, lo so. Lei è... il mio perché. La risposta a tutte le domande che hai appena posto.”.

“Hai paura che lui te la possa portare via”, constatò.

Con Elizabeth ammettere le mie paure era straordinariamente semplice.

“Se fosse stato qualcun altro, chiunque, non mi sarei sentito minacciato, ma io lo conosco. Conosco entrambi e sono meravigliosi e... e non è così improbabile che siano anime gemelle. Tu non hai visto... sembrano un quadro quando sono l'una accanto all'altro tanto sono perfetti insieme. Li amo entrambi. Se Ian avesse ragione e lei lo scegliesse, sarebbe la fine per me. Ma se Ian avesse ragione e lei scegliesse me, sarebbe la fine per lui. Cosa posso fare, madre?”.

“Questo: amala, come hai sempre fatto. La scelta spetta a lei e al momento sembra ricada su di te”, mi disse, indicando con un gesto del capo il suo viso contratto e sofferente.

“Non credo di riuscire a sopportarlo”, le dissi, “il suo dolore”.

“Oh, bambino mio”, Elizabeth, ora al mio fianco, mi spinse il capo sul suo grembo.

Erano reali le lacrime che mi bagnavano il viso?

“Il suo dolore mi svuota. Mi sento così leggero, quasi inconsistente e poi d'improvviso così pesante, come se portassi sulle spalle una tonnellata di peso e non avessi altro che forze umane per sorreggerlo. Ma non è il peso del suo dolore, perché se potessi liberarla, lo sosterrei per l'eternità. E' il peso della mia impotenza, della mia carne. Mi sento privato di ogni senso, non c'è altro per me oltre il suo odore, oltre il suono delle sue urla, oltre la consistenza della sua pelle, oltre il buio. Perché senza di lei ogni luce si spegne. E io ho paura del buio”.

Era al buio che mio padre beveva litri e litri di alcol. Era al buio che io mi esercitavo al piano, quando lui non avrebbe potuto vedermi. Era al buio che mi vide suonare e mi colpì per la prima volta con tanta forza da regalarmi un livido permanente sul collo che soltanto la trasformazione cancellò.

“Sei così buono, amore mio. Ho sempre pensato che il mondo non fosse un luogo adatto a un bambino con un cuore così gentile; tu capivi sempre cosa pensassero gli altri, sapevi che Edward infondo ci amava ma che l'alcol lo rendeva irrazionale e hai combattuto, non ricevendo altro che lividi e brutte parole. A dieci anni sapevi che Tess era stata rapita da quell'uomo, ma nessuno ha voluto crederti. Nessuno, a parte me. Per questo, ti chiedo: lei ti ama?”.

“Non leggo nel suo pensiero”.

“Invece lo fai. Tu la leggi. Cosa leggi Edward?”.

La osservai a lungo dimenarsi e trattenere le urla in gola, la osservai bruciare e morire, per me.

“Mi ama”, risposi.

Elizabeth sorrise. “Allora fidati di lei e accetta il suo gesto d'amore. Accetta il mio”, il suo gesto... mia madre, che aveva preferito prendersi cura di me anziché tentare di sopravvivere alla spagnola. Ancora oggi mi chiedevo con quale forza. Se ripensavo alla mia condizione durante la malattia... faticavo persino a respirare figurarsi stare per ore al capezzale di qualcun altro.

“Soffrivi, eppure sei rimasta al mio fianco”.

“E' quello che fa lei, perché ti ama. Il tuo amore, te, in cambio di qualche giorno di sofferenza”, sussurrò al mio orecchio, “perché tu sei importante, perché ne vali la pena. Accettalo. Accetta il suo amore. Se lei può farlo, allora anche tu puoi”.

Accettare il suo amore...

Soffrire per lei, con lei.

Sì, potevo.

“Bravo, bambino mio”.

 

…....................

 

“Quanto manca ancora?”, mi chiese Elizabeth.

“Quatto ore”, le risposi.

Le sfiorai le braccia, i palmi delle mani e la fronte con un panno bagnato, nell'illusione che potesse alleviare le sue pene. Sapevo che il dolore si era ormai ritratto dagli arti inferiori, concentrandosi nelle regioni che mi ostinavo a bagnare ancora e ancora.

Dovevo fare qualcosa.

“E' inutile”, mi fece notare.

“Lo so”, sbottai, “ma non...”.

“Limitati a starle accanto, parlale. Ritengo che il suono della tua voce sia l'unico conforto di cui necessita”.

“Sono qua”, sussurrai, accarezzandole la pelle non più bollente del viso.

Mi lasciai scivolare al suo fianco, adagiando il suo capo sul mio petto nudo.

“Manca poco, amore mio, ma adesso farà male”.

A momenti, il veleno avrebbe invaso il cuore.

La avvolsi tra le mie braccia, osservando i cambiamenti avvenuti in lei.

Il suo viso aveva assunto un aspetto etereo per via del colorito diafano e della totale assenza di imperfezioni. Tra i suoi capelli, più lunghi e morbidi, luminose ciocche color rame. Le carezzai il fianco e nulla, ai miei occhi, sembrava cambiato: era ugualmente morbida e tiepida. La stessa ragazza addormentata che, sussurrando il mio nome nella notte, implorandomi di restare, mi aveva rubato il cuore.

Cuore che avrebbe per sempre custodito fra le sue mani, le stesse che, giunta ora all'apice del dolore, si aggrappavano al mio petto in cerca di un appiglio che la salvasse dal mare di dolore in cui era affondata e in cui rischiava di affogare.

Rischiava, senza che, tuttavia, potesse realmente accadere.

Perché dal veleno non era dato sfuggire.

Il dolore era tale che, per la maggior parte del tempo trascorso sotto il suo effetto, si agognava la morte. Come un parassita invadeva ogni angolo del corpo che lo ospitava, senza ucciderlo

Il veleno, pur non essendo mortale, era causa di indicibili sofferenze, come l'amore.

Nell'istante in cui il battito del suo cuore accelerò, intuì che il denso liquido grigiastro aveva risalito la vena cava inferiore e invaso il ventricolo.

Le sue urla confermarono la mia intuizione.

Il suo volto si contrasse nel dolore. E si dimenò. Si dimenò.

Le sue dita afferrarono la mia pelle nuda, lacerandola.

Le mie braccia sembravano incapaci di contenerla nei suoi movimenti furiosi di ribellione e nel suo atroce dolore.

Piangeva(singhiozzava incapace di versare lacrime) e urlava, aggrappandosi alle mie spalle, alla mia schiena, a ogni lembo di pelle che le sue mani riuscissero a raggiungere. Le spinsi il capo contro il mio petto, tentando di rendere silenziose le sue urla, come il cuscino in cui si seppellisce il volto quando si piange e si desidera che nessun altro ascolti.

Erano reali le lacrime che mi bagnavano il viso?

“Ricordi la prima volta che mi chiedesti di renderti uguale a me? Quanto io mi sia... opposto?”.

“Mi odio sin da quando ero umano, Bella, eppure per decenni ho pensato che questo sentimento nei miei confronti fosse dovuto alla natura donatami da Carlisle, all'essere un vampiro. Ricordavo la vita da umano come il mio periodo felice, non lo era, affatto. Ero infelice, misero; per qualche ragione sapevo più di quel che sapevano gli altri. Sapevo che mio padre mi amava, sapevo che era la bottiglia a tenerlo lontano da me. E questo mi impediva di odiarlo, di allontanarlo definitivamente, tuttavia, per quanto tentassi di farlo smettere di bere, ogni sforzo era inutile. Probabilmente è stato nel momento in cui mio padre mi ha colpito per la prima volta che ho iniziato a odiarmi. Non ero stato in grado di aiutarlo, tutto ciò che sapevo in più non mi era servito a nulla. Per questa ragione avevo deciso di fuggire... in guerra, speravo di non ritornare. Mia madre sapeva che non avrai mai fatto ritorno dal fronte. Lei vedeva in me qualcosa che io non riuscivo a percepire: il coraggio, la gentilezza, la sensibilità, l'intelligenza.

Lei era certa che la mia vita avesse un valore, per questo motivo chiese a Carlisle di darmi una seconda possibilità. Non ho mai visto la sua richiesta sotto questa luce, non fino ad oggi. Pensavo fosse soltanto il gesto disperato di una madre amorevole, non un dono, una possibilità di riscatto. Sono sempre stato pronto a puntare il dito contro me stesso, a odiarmi a ogni sbaglio. Senza capire che nella vita si sbaglia... anche se alcuni errori si pagano più di altri. Ho tentato di fare del mio meglio con questa natura, nella speranza che il risentimento sparisse; avrei voluto che il veleno lo cancellasse come aveva fatto con la spagnola. Senza capire che tutto aveva avuto inizio molto tempo prima. Io non odiavo il vampiro, odiavo il ragazzo, ma riversavo le conseguenze sul primo, senza vedere il lato positivo, senza vedere la bellezza di Carlisle o Esme o Alice. E mi opponevo.

Con ciò non voglio dire che essere un vampiro sia una passeggiata, né una condizione morale, non dopo aver ucciso quella bambina che altra colpa non aveva se non trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Dopo quello che ho fatto l'odio verso me stesso è duplicato; a quello per il ragazzo si è aggiunto anche quello per il vampiro. E ho perso me stesso in una spirale autodistruttiva”.

I battiti del suo cuore decelerarono, le sue mani smisero di stringere e martoriare la mia carne, i suoi movimenti si fecero meno frenetici.

“Adesso che ti guardo, così bella, così forte, così uguale a me, non riesco a odiare questa mia natura, così come ho smesso di odiare il ragazzo che sono stato nell'istante in cui ti ho sentito pronunciare il mio nome nella notte e ho capito che mi amavi. E se tu, angelo mio, mi ami, chi sono io per oppormi? Per contraddirti? Per sminuirti? Io so che non commetterai i miei stessi sbagli, che la trasformazione non cambierà la tua natura più profonda. Perché non importa cosa tu sia, umana, vampiro, Elfennol, tu sei una donna. Una donna straordinaria”.

Fu allora che il suo cuore smise di battere e Isabella divenne un vampiro.

Nel silenzio, la sua voce melodiosa mi riscosse dal torpore in cui giacevo da anni e cancellò da me ogni traccia di odio e dolore.

“Se non rischiassi di ucciderti, ti picchierei per tutte le idiozie che hai detto”.

Risi... di cuore e non smisi fin quando non percepì la forma del suo sorriso sul mio petto. Vi depositò un bacio. L'immediato contatto delle sue labbra con la mia pelle riaccese il desiderio di lei mai realmente sopito.

Mi sorprese, e forse non avrebbe dovuto, quando mi spinse supino e si mise a cavalcioni sul mio petto. Mi osservò. Mi osservò a lungo e con curiosità quasi clinica, poi sentenziò: “Tutto quel dolore... è valso la pena guadagnare questi strani occhi per potere ammirare tutto... questo, te”.

Sorrisi.

“Proporrei di iniziare come abbiamo concluso”.

I suoi occhi color rubino, così diversi da come erano in origine, brillavano della stessa luce maliziosa, dello stesso fuoco di sempre.

“Come posso odiare la mia natura se tu sei come me, angelo?”, le chiesi, sfiorandole i contorni del viso con timore reverenziale.

“Io ti insegnerò ad amarti”, mormorò a pochi millimetri di distanza dal mio volto e senza distogliere lo sguardo dal mio. “Ti insegnò a vederti come io ti vedo. Ti insegnerò come tu hai fatto con me, dovesse volerci l'eternità”.

 

Kristopher

 

Are you, are you
Coming to the tree
Where the dead man called out
For his love to flee.

Where I told you to run,
So we'd both be free.
Wear a necklace of hope,
Side by side with me.
Strange things did happen here
No stranger would it be
If we met at midnight
In the hanging tree.

The Hanging Tree, Jennifer Lawrence

 

 

Piangevo.

Piangevo sempre.

Non riuscirai a prendermi, sei troppo lento, Kris”.

Aspettami, Ir”.

Sei ancora piccolo, non puoi competere con me”.

Allora mi lasciavo cadere in terra, nella polvere e piangevo; fin quando Irmàn, accortosi della mia assenza, non tornava indietro.

Ehi, piccolo. Non piangere, non dovresti”

Ma io non riesco... non riesco mai a correre veloce come te”.

Vedrai che tra qualche anno, quando le tue gambe si saranno allungate, correrai ancor più velocemente di me. Ma non devi piangere. Se piangi rimarrai per sempre piccolo, i grandi non piangono”.

Io ho sei anni, sono grande”.

 

A undici anni mantenni la mia promessa: smisi di piangere.

Non perché fossi grande o non avessi più lacrime da versare, semplicemente non avevo né la forza né la volontà di versarle.

E da allora non l'ebbi più.

Irmàn era mio fratello maggiore, il primo di quattro dei quali io ero l'ultimo. Due fratelli e una sorella.

Irmàn mi aveva insegnato tutto ciò che sapevo, dal combattimento corpo a corpo, ai segreti delle donne. Quelli che lui credeva di conoscere.

Era il migliore nel suo campo e io aspiravo a diventare come lui, un valido membro della guardia cittadina.

La guardia si occupava di sorvegliare la città da eventuali attentati o intrusioni e della protezione dei nostri governanti, in più gestivano i ventitreenni nel loro anno peggiore(l'anno di Trais), decidendo chi andava “consegnato” ai Volturi come stabilito dal patto e chi invece rimaneva. Si entrava nella guardia soltanto compiuti i ventiquattro anni, se si sopravviveva senza macchie e se si scampava allo “smistamento”(la consegna ai Volturi), come lo chiamavano.

In rare occasioni, giovani promettenti entravano nella guardia al compimento dei ventuno anni.

Era stato il caso di mio fratello, che aveva trascorso la vita a inseguire il suo sogno di entrare a farne parte. Per due anni aveva svolto il suo compito egregiamente, allenandosi fino allo stremo delle forze per riuscire a controllare se stesso e non cedere durante l'anno di Trais. Sebbene entrare nella guardia prima dei ventiquattro anni fosse un privilegio, comportava anche delle conseguenze: Irmàn avrebbe dovuto compiere il proprio lavoro anche durante Trais, senza alcuna attenuante o giustificazione, dimostrandosi degno del ruolo che aveva ricevuto. Perciò se avesse sbagliato, se avesse perso il controllo, non avrebbe mai più potuto fare ciò che amava. Questo era il prezzo e nel momento in cui Ir aveva accettato, aveva firmato la propria condanna.

Al compimento dei ventitré anni fu allontanato, come accadeva a tutti. Quel giorno, mi ripeté quello che mi diceva ogni volta che io piangevo: non piangere.

Irmàn non riuscì in quello per cui aveva lavorato tanto a lungo; mentre era di ronda, una mattina, al confine con la superficie, percepì odore di sangue.

Allora scavò.

Scavò.

Lui era il più forte, il più veloce, nessuno riuscì a fermarlo in tempo.

Irmàn non arrivò mai alla sua preda, la luce del sole lo polverizzò prima e di mio fratello non rimasero che le ceneri.

Non potemmo neanche piangere il suo cadavere.

Di fatto, io non piansi mai più. Lui non avrebbe voluto.

Nel frattempo delle mie divagazioni, avevo rullato la mia ultima cartina.

Dovrò comprarne altre e del tabacco, pensai.

L'accesi e mi lasciai cullare dallo sfarfallio delle ali del passerotto che si era adagiato sulla mia(non esattamente) finestra.

Serrai le palpebre, per non dover assistere allo spettacolo del cielo terso e della natura fiorente.

Tre giorni. Tre giorni senza vederla e ogni cosa che mi circondasse mi appariva insignificante, superflua, perché l'unica di cui avessi realmente bisogno non c'era.

Tre giorni d'inferno. Perché io sapevo, dal momento in cui mi aveva voltato le spalle, che l'avrebbe convinto a trasformarla.

Avevo letto la determinazione nei suoi occhi, il rifiuto e la testardaggine a proseguire sul sentiero che aveva tracciato, prima che io arrivassi e le mostrassi un'altra strada.

Tentai di ignorare il pensiero costante di lei, del suo viso, del suo sguardo, della sua voce...

“Fumi? Nella mia stanza, tra l'altro”.

Non accennai a sollevare le palpebre, perché, fin quando avessi tenuto gli occhi chiusi, non sarei stato costretto ad affrontare tutto ciò che mi attendeva, come stessi semplicemente dormendo.

“Hai anche la sfacciataggine di ignorarmi?”, proseguì, “nella mia stanza, sottolineo”.

Soltanto quando mi sfilò la sigaretta dalle labbra aprì gli occhi e lo osservai accigliato.

Lui, di rimando, osservava l'oggetto tra le sue mani con fare pensieroso.

“Non dovresti fumare”.

“Potrebbe uccidermi?”, gli chiesi ironicamente.

Edward sorrise e per un istante mi illusi che tutto andasse per il meglio, che fossimo ancora noi, in Amazzonia, che non amassi la donna per la quale aveva sofferto le peggiori pene immaginabili.

“E già”, sospirò, sdraiandosi al mio fianco, sul suo letto.

Mi restituì la sigaretta, ormai a metà.

“E' perché mi vuoi morto?”, gli chiesi ammiccando.

Edward sorrise ancora.

“Una parte di me vorrebbe che tu sparissi”.

Deglutì a vuoto, prendendo un'altra boccata di fumo.

“Ma se distruggessi l'equilibrio della natura ecc ecc mi sentirei in colpa, credo”.

“Quindi è solo per questo motivo che non mi hai ancora fatto fuori. Io l'avrei fatto, fossi stato al tuo posto”.

“No, non è vero. Per la stessa ragione per cui io non riesco a ucciderti”, replicò.

“Lei è di sotto”, gli chiesi, ma suonò come un'affermazione.

“Sì”.

“Ed è un vampiro”.

“Sì”, sussurrò.

“Le starò lontano, sin quando lei vorrà così. Sarò un fratello, un amico. Sarò per lei quello che sono per te”.

“Anche quando farà male?”, mi chiese.

“Anche quando farà fare. Anche quando non desidererò altro che lei. Le starò lontano”.

“Pensi che riuscirà... a mutare?”.

“In termini di percentuale, normalmente, ciascuno di noi elementali ha il 50% di probabilità di sopravvivere alla mutazione. Ciò vuol dire che lei non ha più del 20% di possibilità. Avresti dovuto fermarla”, ringhiai.

“E' stata la scelta giusta”, mi rispose.

“Come puoi pensarlo?”.

“Non potremmo mai sopravviverci. Il nostro non è quel genere di rapporto che ti lascia possibilità di scelta. Noi non vogliamo stare insieme, noi ne abbiamo bisogno. Non perché da soli siamo difettosi, funzioniamo ugualmente, ma tra tutte le motivazione che ci spingono a funzionare, l'esistenza l'uno dell'altro è la più vincolante ed è anche l'unica senza cui smetteremmo di farlo”.

Ingoiai il magone, consapevole di ciò che avrei distrutto.

“Sei sempre stato così poetico, fratello?”.

“In effetti sì”, mi rispose.

“Ne sei così certo...”, sussurrò, dopo qualche istante di silenzio: a volte dimenticavo che poteva leggermi nel pensiero.

Capì immediatamente a cosa si stesse riferendo.

“Non riesco a credere che tutta questa sicurezza derivi da qualche lettura”.

“E infatti non è così; io l'ho visto, in un certo qual senso. Mi fido ciecamente della sua capacità di giudizio”, riflettei, “anche se inizialmente lo credevo pazzo - risi. Mi ha salvato la vita”.

“L'uomo del biglietto?”, mi chiese.

“Esatto”.

“Perché sei qui, Edward?”.

“Perché è la mia stanza?”.

“Sul serio”.

“Sul serio? Perché sei mio fratello, perché è stupido che io sia in collera con te per qualcosa su cui non hai controllo. Ciò non vuol dire che ti permetterò di portarmela via”.

“E' chiaro”, dissi.

“Non hai avuto dubbi che io stessi mentendo. Non credo sia soltanto perché puoi leggermi nella mente”.

“Ho sempre saputo che lei era... qualcosa di più, ma non avrei saputo come definirla”, mi rispose.

“Quanti giorni abbiamo... prima che debba mutare, esiste un limite temporale?”.

“Tutto quello che ha vissuto, Edward, la perdita dei sensi, la morte apparente, sono i sintomi, ti avvertono che è il momento. Solitamente, dalla comparsa dei sintomi, prima che la situazione si aggravi irrimediabilmente, può passare un mese, un mese e mezzo. Ma, dato il suo cambiamento, non credo abbia più di dieci giorni”.

“E se non dovesse mutare?”, mi chiese.

“Non l'ho provato sulla mia pelle, ma da quel che ho letto, i sintomi diverranno permanenti”.

“Diamole un paio di giorni di tempo, perché si riprenda e...”.

“Non c'è tempo, Ed. Più passano i giorni più lei si indebolisce. I sintomi non scompariranno nonostante ora sia un vampiro. Potrebbero peggiorare”.

“Allora deve mutare, adesso”.

Annuì.

“Penso che possiamo considerare aperta la partita”, mi disse con nonchalance, ma intravidi un ghigno sul suo volto.

“Penso anch'io”, risposi, dopo un istante di shock. “Giocheremo una partita in cui non siamo altro che pedine nelle sue mani?”, risi.

“Non solo pedine, anche giocatori”.

“Ti ho promesso che le sarei stato lontano”, gli feci notare, “sono un po' in svantaggio, ti pare?”.

“E questo il bello”, risi ancor più rumorosamente.

Mentre mi accostavo alla scalinata, la sua mano artigliò il mio avambraccio.

“Non ti perdonerò. Non ti perdonerò se accadrà ancora, se la toccherai. Non ti perdonerò”.

“Lo so”.

Ma sapevo anche che, se lei me l'avesse chiesto, se l'avesse voluto, io no avrei esitato.

Era la mia priorità, da tre giorni a quella parte. Isabella Marie Swan era la mia priorità.

“Cullen”.

“Cosa?”, gli chiesi.

“Isabella Marie Cullen. E' mia moglie, da tre ore ormai”.

Edward mi osservò con aria gelida, poi scomparve al piano di sotto.

 

Per un istante, tutte le mie certezze vacillarono. Lei divenne lontana, irraggiungibile e il dolore che provai a quel pensiero fu una prova più che sufficiente di ciò che avevo appreso da Ddaear(daihar).

Quando ebbi sceso anche l'ultimo gradino, i miei occhi la cercarono, sebbene contro la mia volontà. E lei dovette fare lo stesso perché i nostri sguardi si incrociarono, come era accaduto subito dopo il suo risveglio. Il fuoco nel suo cuore sciolse il ghiaccio nel mio.

La dolcezza dell'espressione dipinta su suo viso mi accolse, come fossi rientrato a casa dopo un lungo viaggio. Mi ricordò l'odore di mia madre, l'unica che riuscisse a comprendere il freddo che avvertivo, dopotutto, lei sapeva. Mi ricordò mio fratello mentre, un passo avanti a me, mi chiedeva di non piangere, assicurandomi che un giorno sarei stato come lui. Mi ricordò tutto ciò che avevo, prima di non avere niente. E seppi di aver trovato una casa che non avrei mai abbandonato, dalla quale non sarei mai fuggito, che avrebbe sostituito quella in cui non avrei mai più potuto fare ritorno.

La moglie di mio fratello.

La bellissima moglie di mio fratello.

Non avevo aggettivi in grado di descriverla, avrei dovuto coniarne di nuovi.

Se da umana il fuoco che era divampava di rado, tanto che, per quanto avessi provato a capire cosa in lei mi attraesse, in quella grotta che era stata il nostro rifugio, non ero riuscito a farlo. Ora, in queste nuove vesti, era lampante; la sua vera natura traspariva dai suoi occhi, dal suo volto, dal suo portamento.

Era fuoco.

In ogni gesto.

In ogni sguardo.

Era vita.

La mia.

 

…........................................

 

“Hai sete?”, le chiesi, lasciandomi cadere sull'erba umida di rugiada, il volto scaldato dagli innocui raggi del sole.

Isa, le braccia distese lungo i fianchi, pensierosa se ne stava all'ombra, ad osservarmi.

“Abbastanza”, mi rispose e il grattare della sua gola riarsa riecheggiò nella mia mente.

“Anch'io, ma devi restare concentrata”, le indicai il posto di fronte a me, invitandola a sedere.

Isa, dopo avermi osservato per qualche altro istante, entrò nel cono di luce e la sua pelle, come fosse anch'essa rivestita da un velo di rugiada, brillò. Fissò lo sguardo sulle proprie braccia, meravigliata, sgomenta, entusiasta. Una serie di emozioni, anche contrastanti, le attraversò il viso. Poi, si lasciò cadere sull'erba di fronte a me, imitando la mia posa.

“Di cosa ti nutri?”, mi chiese all'improvviso.

“Lo sai”, le risposi, contraendo la mascella.

“Di esseri umani”, mormorò.

“Purtroppo, noi Moru non abbiamo altre alternative, a ognuno qualcosa, non ti pare?”.

“Potresti sempre...”.

“Rubare sacche si sangue? Credi che non lo abbia provato da quando sono in superficie? Ma la nostra è una maledizione, Isa, qualsiasi sangue che non provenga da una vena è dannoso o fa schifo. Le sacche di sangue rientrano nella seconda categoria. Ma ci provo, quando la sete diventa insopportabile; lo bevo”.

“Edward mi ha raccontato di averti visto cacciare”.

Crede di avermi visto cacciare. Ma perché parliamo di me, sei tu la star oggi. E' una bella giornata, il sole splende e non mi uccide...”.

“Una bella giornata?”, rise e il suono della sua risata si impresse nella mia memoria, “sono una neonata, ho sete e sto cercando di imparare come darmi fuoco senza uccidermi. E' una pessima giornata. Per non parlare di questi stupidi uccelli, se non smettono di cinguettare giuro che me li mangio”.

Risi così rumorosamente da spaventare parecchi stormi e nidi, il ché aumentano i “fastidiosi” cinguettii

“No, ti prego”, mi implorò Isa, coprendosi le orecchie con i palmi delle mani.

“Ehi, guardami”, ma, visto che non si accennava ad alzare lo sguardo, le presi le mani fra le mie, sollevando l'intreccio in mezzo a noi.

Dalle mie spalle giunse un terrificante ringhio di avvertimento. Isa sciolse la presa, sorridendo in direzione di Edward.

“Ho un marito geloso”, constatò ridacchiando.

“Piuttosto stupido e infantile”.

Altro ringhio.

“Ma dai, fingi di prendere il sole(e mi dispiace comunicarti che non otterrai una bella abbronzatura neanche dovessi restarci per l'eternità, al sole) soltanto per controllare che non la sfiori”.

Edward si sollevò sui gomiti, gli occhi socchiusi per via della luce del sole e mi osservò senza emettere suoni.

“Che c'è, è la verità”.

Isa sorrise e percepì, quasi me lo stesso urlando, il suo desiderio di correre da lui, come se anche quei pochi metri di distanza le pesassero. Alle volte, capirla così bene era fastidioso.

“Ignora qualsiasi fonte di distrazione”.

Isa distolse lo sguardo da lui e lo riportò sul mio viso. Mi mancò il respiro.

“Ma io sento... tutto”.

Allora sollevai le mani, riportandole nella posizione di prima, distese tra di noi.

Isa, dopo avermi rivolto uno sguardo interrogativo, sollevò le mani alla mia stessa altezza, sulle mie senza tuttavia toccarle.

“Cosa vedi”, le chiesi.

“Te”.

“Cos'altro?”.

“Edward. La polvere, la luce, le goccioline di pioggia sulle cortecce degli alberi, il riflesso del mio viso nella rugiada”.

“Chiudi gli occhi”, obbedì.

“Cosa vedi?”.

“Niente?”, mi chiese con in certezza.

“Ora dimmi... cosa senti?”.

“Il cinguettio degli uccelli, lo sbattere rapido delle loro ali, la macchina da cucire di Alice, lo sfregare delle pagine di un libro, le auto sulla statale, il fiume, il tuo respiro”.

“Concentrati su un solo suono, qualcosa che ti rilassi ed escludi tutti gli altri”, dopo pochi istanti riaprì gli occhi.

“Sei concentrata?”.

“Al cento per cento”.

“Riuscire a diventare un tutt'uno con il tuo elemento non sarà difficile. Il difficile sarà sopportarlo. E data la tua nuova natura restare sotto l'effetto del fuoco per il tempo necessario sarà molto doloroso, più del normale e se non dovessi avere le forze per la battaglia finale, quella con te stessa, tutto quel dolore non sarà valso a nulla”.

“Per quanto tempo dovrò... bruciare?”.

“Io sono rimasto nel ghiaccio per quattro giorni”.

Nessuno dei due aggiunse altro.

“E se... tu hai detto di essere tornato umano grazie alle tue ferite. Anche io dovrei averle, forse compariranno e potrò tornare umana e...”.

“Non succederà. Io sono nato così. Per un elfennol non esiste abominio peggiore del modificare la propria natura. Noi siamo la natura, non possiamo rinnegarla. Ti confido che speravo saresti rinata con queste”, gli dissi indicando la mia schiena, “ma se non è accaduto non compariranno e tu dovrai affrontare la mutazione con la natura che ti sei scelta. E' una punizione”.

La vidi deglutire a vuoto.

“Hai detto di essere nato così, con queste strane ferite alla schiena, eppure non eri a conoscenza della tua natura di elfennol”.

“Mia madre, l'unica che l'avesse sospettato fin dalla mia nascita, mi aveva categoricamente proibito di parlarne, di menzionare le ferite. Temeva che, se fossero venuti a conoscenza della mia natura, mi avrebbero dato la caccia. Allora non lo capivo. Non capivo perché non potessi confidare a nessuno le mie particolarità, quello che mi accadeva, né perché mia madre fosse così severa, quasi glaciale”, mi lasciai sfuggire una risata, “ma essendo all'oscuro delle vicende, della mia natura e delle sue ragioni e soprattutto a causa della mia venerazione nei confronti dei nostri governanti, della guarda cittadina, mi rifiutavo di credere che potessero farmi del male. Li avevo idealizzati, tuttavia le diedi ascolto e tenni per me tutto ciò che non avrei dovuto rivelare. Sono nato il tredici settembre millenovecentoottantasette”, sussultò, “e per gran parte della mia vita non ho desiderato altro che essere come mio fratello maggiore, indomito, coraggioso, forte, veloce... Questo mio desiderio si rifletté nella volontà di entrare a far parte della guardia cittadina, fin quando Irmàn non morì. Lo odiai moltissimo, perché nonostante fosse così arrogante e sicuro di sé non aveva saputo resistere al sangue quando avrebbe dovuto farlo. E odiai loro, il nostro governo, per averlo lasciato morire. Le leggi nella città erano crudeli, solo allora me ne resi conto: quando quelle stesse leggi uccisero mio fratello, che aveva servito con onore e devozione la sua terra”.

“La mia famiglia apparteneva a un ceto medio-alto, per utilizzare un termine tipicamente umano. Non era il denaro a renderci nobili, ma gli anni di servizio prestati nella guardia e come Heliwr, ossia cacciatori, coloro che recuperano le prede e il sangue. Avevo vissuto per anni in una bolla dorata, per via della mia condizione sociale, ma quando mio fratello morì decisi di fare un giro nei “bassifondi”; la gente moriva di sete, non c'era legge da quelle parti né controllo. Intere famiglie erano state distrutte perché era lì, in quei luoghi, che venivano scelti per lo più i vampiri da consegnare ai Volturi. Rari erano i casi in cui un figlio del governo o del nostro stesso rango veniva scelto. Se laggiù conobbi la follia, la rabbia e il dolore, conobbi anche la compassione, l'intelligenza, l'esperienza. Gli Isel(quelli dei bassifondi) erano dotati di grande senso dell'umorismo e consapevolezza e resistenza perché a loro il sangue non arrivava settimanalmente ma mensilmente, forse. E soprattutto amavano la loro terra, non agognavano la superficie, il sole, come noi altri. Conoscevano tutti i sotterfugi del nostro governo e la verità sulle loro menzogne. Furono loro a parlarmi per la prima volta degli elfennol. Avevo letto molto di queste strane creature, ma li avevo sempre classificati come una leggenda. Quando mi dissero che gli elfennol erano reali non gli credetti. Barn, che sarebbe diventato il mio migliore amico, mi chiese di fidarmi di loro, di dargli la possibilità di vedere ciò che mi stavano dicendo. Mi diedero appuntamento ad una delle sedi periferiche del governo e fino agli ultimi istanti pensai di non andare, pensai che fossero dei pazzi assetati, dei cialtroni. Infine mi recai sul luogo e quel giorno la mia vita cambiò. Lì lo vidi per la prima volta, Ddaear, un mio simile, l'element della terra. Lo torturavano con una tale crudeltà per riuscire a piegarlo al loro volere... Come ti ho detto, cercavano un'arma da scagliare contro i Volturi, che li rendesse sufficientemente forti da sfidarli e occupare il mondo di sopra. Ma tentare di piegare un element è come voler controllare l'elemento che egli domina”, sorrisi al pensiero.

“Gli altri non si erano mai spinti più in là del solito punto d'osservazione, ma io non resistetti, qualcosa in lui mi chiamava. Assistere a quei maltrattamenti così da vicino è stato orribile, a oggi uno dei ricordi peggiori che io abbia e il non poter fare nulla per aiutarlo mi... devastava.

Mi rivelarono che i nostri governanti davano la caccia agli elfennol da sempre per spodestare i Volturi. Non condividevo il modo di fare del nostro governo certo, ma non capivo perché loro non desiderassero salire in superficie o veder cadere i Mokin-rui, che usavano alla stregue di oggetti i loro figli e fratelli. Ero arrabbiato.

Poi capì. Loro, quelli che il mondo di sotto conosce come i Droadol, i Ribelli, desideravano il cambiamento, ma nella loro terra, non altrove. Volevano la pace, non la guerra con i Volturi e soprattutto desideravano preservare la vita umana. Gli umani... non avevo mai pensato a loro come effettive creature senzienti, li vedevo sempre e solo come cadaveri o cibo. L'obiettivo dei Draodol era liberare Ddaear, poi spodestare i governanti, sostituendoli con altri eletti a maggioranza dal popolo. Barn aveva idee straordinarie, intendeva candidarsi. Lui credeva che i Volturi non costituissero la minaccia che ci facevano credere di essere. Pensava che anche ammesso che si fosse venuto a sapere della nostra esistenza questo non avrebbe distrutto la nostra pace come un'eventuale guerra contro i Mokin-rui e i vampiri di sopra. Perché i Volturi, data la loro autorità, avrebbero fatto credere a tutti voi chissà quali stranezze nei nostri confronti, vi avrebbero dato un nemico comune, vi avrebbero scagliato contro di noi e sarebbe stata la fine. Barn credeva in un approccio pacifico con i vampiri di sopra, lui intendeva semplicemente parlarvi, raccontarvi la verità su di noi e sui Volturi(che si servono dei nostri giovani per le loro battaglie e per tramare alle vostre spalle), prima che i Volturi stessi lo facessero.

Ma se i nostri governanti si fossero impossessati del potere degli elfennol niente avrebbe più potuto fermarli dal muovergli guerra. Il primo passo era quindi liberare Ddaear”.

“E ci siete riusciti?”, mi chiese.

“... No. Ddaear è ancora là sotto”.

“Da quel giorno, andai sempre a fargli visita. Dal punto in cui mi trovavo la mia voce non gli giungeva, ma potevo osservarlo. Tentavano di affamarlo, e lui, di nascosto, mangiava la terra che produceva”.

“Pensavo che Ddaear fosse un vampiro, un Moru”, aggiunse Ed.

“E lo è. Noi siamo in grado di nutrirci dell'elemento che produciamo”.

“Mi stai dicendo che anziché di sangue potrei nutrirmi di fuoco?”, mi chiese Isa.

“Sono necessari anni e anni di esperienza e in pochi ci riescono, ma sì”.

“Un giorno accadde qualcosa. Si avvicinava la fine dell'anno e quindi l'inizio di Trais per molti giovani Moru, alcuni dei quali sarebbero stati consegnati ai Volturi, c'era fermento nell'aria, ansia e paura. I governanti erano furiosi... perciò quel giorno lo torturano con sadismo per tentare di piegarlo al loro volere; lui mi dava le spalle, lo denudarono... e io le vidi, quelle ferite, le stesse che mi segnavano fin dal grembo materno. Fuggì sconvolto. Non poteva certo essere una casualità. Pian piano ricollegai tutti i pezzi, le mie particolarità, l'atteggiamento di mia madre e la sua paura. Ne fui spaventato, non uscì di casa per giorni, lessi e rilessi quelle che fino ad allora avevo considerato delle banali leggende, non impiegai molto a capire quale element fossi, lo sentivo nella pelle. Allora andai da Barn; gli raccontai ciò che avevo scoperto, gli mostrai le ferite, gli chiesi spiegazioni. Come avevo potuto non capirlo fino ad allora? Barn mi rispose che è necessaria una forte emozione per innescare il primo episodio e io non avevo fatto altro che contenermi, perché i grandi non piangono, persino alla morte di mio fratello.

Barn sosteneva che dovessi nascondermi o fuggire in periferia, io mi rifiutai di farlo, gli dissi che avrei liberato Ddaear. Sapevo che non avrei dovuto farmi catturare, altrimenti saremmo stati due nelle loro mani, ma non mi importava. Ideammo un piano d'attacco. Un gruppo avrebbe creato un diversivo, gli altri sarebbero entrati; io ero fra questi.

Ma le cose non andarono come avevamo pianificato; Barn è stato ucciso, gli tranciarono la testa di netto sotto il mio sguardo. L'ultima cosa che mi disse, che la sua testa mi disse, prima di essere arso vivo è stato: “Piangi”.

Io piansi e mi arrabbiai come mai prima nella mia vita. Esplosi, letteralmente, come l'onda di un mare in tempesta, scagliando punte di ghiaccio che trafiggevano e uccidevano. Ne uscì stremato ma loro erano in troppi, si avventarono su di me senza che potessi reagire, d'altronde non avevo idea di come fare di nuovo ciò che avevo fatto. Mi richiusero nella cella accanto a quella di Ddaear, le pareti e le sbarre erano rivestite di vinculum, toccarle significava perdere i nostri doni. Parlammo a lungo...

 

Chi sei?”, mi chiese, non appena si furono allontanati da noi.

Mi lasciai scivolare contro la parete, esausto fisicamente ed emotivamente.

Kristopher”, risposi.

Perché sei qui?”.

Perché ho tentato di liberarti e perché sono come te”.

La mano”.

Cosa?”.

La mano, dammi una mano”. Mi trascinai lungo la parete, stendendo il braccio oltre le sbarre.

La sua mano toccò la mia e lo udì sospirare.

Sei il secondo che conosco ad essere uguale a me. Sei l'element del ghiaccio, Kristopher”.

Annuì, prima di ricordare che in realtà non poteva vedermi.

Io sono l'element della terra”, mi disse, creando nel palmo della mia mano un pugnetto di terra.

Sono così stanco”, mormorai.

E' il viculum. Il materiale che riveste le sbarre, ti opprime, ti impedisce di utilizzare i tuoi doni”.

Ma tu l'hai fatto”.

Non ho detto che funzioni con tutti. Io ormai sono immune”.

Allora perché non scappi?”.

Perché non voglio”.

Io ti ho osservato, loro ti torturano, ti affamano...”.

Spiegami”, lo pregai.

Finché rimarrò qui saprò sempre quali sono le loro mosse”.

E perché ti interessa saperlo?”.

Perché così posso avvertirla e lei può continuare a fuggire”.

Chi?”.

La mia anima.... gemella”.

Come si chiama lei?”.

Non ne ho idea”.

Non conosci il nome della tua donna?”.

Lei non è la mia donna. Ma l'ho aspettata così a lungo, finalmente qualche anno fa è nata”.

Sebbene non lo vedessi percepì il sorriso sulle sue labbra.

Quindi tu accetti di farti torturare per proteggere una donna che affermi essere la tua anima gemella ma che in realtà non hai mai visto né conosciuto?”.

Esattamente”.

E come riesci ad informarla, a proteggerla”.

I sogni. Attraverso i suoi sogni”.

Sei fuori di testa”.

Quando proverai ciò che provo io capirai le miei scelte. Ma adesso bisogna pensare a come tirarti fuori di qui”.

 

Avevo letto, tra l'altro, di questo strano rapporto tra gli elfennol, del concetto di anima gemella. Lui era tutto ciò che i libri non riportavano, lui si lasciava torturare per un sentimento di cui avvertiva soltanto un debole sentore. Credo che fosse molto, molto antico. Ma non ho avuto il tempo di appurarlo. Ddaear fece vibrare la terra, tutti o comunque la maggior parte si recarono all'esterno, così lui ne approfittò per aprire la sua cella, uscire e aprire la mia.

Non appena fui lontano dal vinculum ripresi le forze, lo pregai di seguirmi, ma fu inutile. Ddaear mi disse di allontanarmi il più possibile e al primo sbocco uscire in superficie. Mi opposi, gli dissi che il sole mi avrebbe polverizzato, ma Ddaear mi chiese di fidarmi e non so, forse furono i suoi occhi, il suo viso o il suo tocco incredibilmente familiare, sta di fatto che mi convinse. Potete immaginare il mio stupore nel trovarmi alla luce del sole, vivo e integro. Prima che fuggissi mi consegnò il biglietto con le indicazione.

Tutto quello che so sulla mia natura lo imparai nei due anni trascorsi in superficie, quindi ancora molte cose mi sfuggono, ma il mio rimpianto più grande sarà per sempre quello di non essere stato in grado di salvare Barn. Se solo avessi saputo come usare ciò che la mia natura mi offriva prima di entrare là dentro, forse....”

“Quanti anni hai in realtà”, mi chiese Edward.

“Ventiquattro o per l'esattezza ventitré e sei mesi”.

“Sei nel bel mezzo dell'anno di Trais”.

Annuì.

“Noi elfennol abbiamo un maggiore controllo dei nostri istinti”.

Istintivamente cercai i suoi occhi, quelli di lei, e mi bastò uno sguardo per capire che qualcosa si stava incrinando, che un'idea prendeva forma nella sua mente.

“Cosa pensi?”, chiedemmo contemporaneamente io ed Edward.

Isa si sollevò, si ripulì i jeans dall'erba e dal terriccio inesistenti dopodiché ci osservò entrambi, rivolgendo infine lo sguardo al marito al mio fianco.

“Io non voglio avere rimpianti, Edward”.

Per un istante e contro la mia stessa volontà il cuore prese a battermi all'impazzata e siccome il fatto stesso che il mio cuore battesse era di per sé un'eccezione...

Ma mi ripresi immediatamente.

“Ho fatto una promessa a Tanya e ho intenzione di mantenerla... prima di mutare”.

 

…..........................

 

Bella

 

Quando lo vidi voltarmi le spalle, ebbi uno strano flash, il ricordo di un momento molto simile... Ma qualcosa da allora era cambiato: io. Ora ero certa del mio ruolo nella sua vita. Io era Isabella Cullen, sua moglie, lui non poteva voltarmi le spalle.

E infatti non lo fece, Edward non mosse neanche un passo, si voltò nuovamente nella mia direzione e mi osservò. Nei suoi occhi lessi tutto ciò che a parole faticava a dirmi: mi pregava di scegliere la strada più semplice, mi pregava di vivere. Io, in cambio, gli assicuravo che non mi sarei lasciata sconfiggere da niente e nessuno.

Mi avvicinai a lui, immergendo le dita fra i suoi capelli morbidi come la seta. Edward si appoggiò alle mie mani, inspirando l'odore dei miei polsi.

“Ho bisogno che tu creda che io possa farcela. Non è più forte di me, Edward, tutto il resto. Io sono più forte, io sono fuoco”.

“E luce”, mormorò.

Gli sorrisi.

Mio marito.

A guardarlo, bello come l'alba e il tramonto insieme, mi chiesi perché fosse spettato a me. Non ero così stupida da pensare di averlo meritato, ma di una cosa ero certa, per lui, per la favola che era mia vita favolosa avrei lottato con le unghie e con denti.

“Allora partiamo”.

Annuì.

“L' Irlanda”, proseguì Kristopher.

Annuì ancora.

“Sette giorni, hai solo sette giorni”, sussurrò Edward.

A questo limite non mi opposi.

“Conosci il suo nome?”, mi chiese Kris.

“Yuriy. Il bambino di Tanya si chiama Yuriy”.

P.s sono in dubbio se postare una nuova storia molto molto diversa da questa... voi cosa ne pensate?

  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: FCq