VII
Sull'importanza del francese
Ogni tanto,
durante la mia
vita, accadono questi grandi periodi di cui io dimentico sempre
qualche pezzo, perché batto la testa o perché, come in questo caso,
sono vagamente ubriaco.
Ma non ne
faccio un problema: nella mia testa c'è più spazio per i giorni
futuri, e quindi devo vivere ancora moto per poterla riempire.
I miei ricordi di quel
periodo in Atene sono un groviglio confuso, come se l'alcool di
quella settimana ne avesse impiegate almeno due per essere smaltito.
E probabilmente fu così,
perché non riesco a disporre nessun fatto in ordine cronologico.
Fu come vivere un'unica
giornata troppo impegnativa in cui tutto si accavallò con tutto.
Ed è una grande
confusione.
Tuttavia imparai alcune
cose che invece ricordo piuttosto bene e che ho voglia di raccontare.
Ho detto di aver letto un
discreto numero di libri, con la conseguenza di essermi fatto una
altrettanto discreta cultura.
Una cartina geografica,
però, in vita mia, l'avevo vista sì e no due volte, e non l'avevo
mai degnata di particolare considerazione. La conseguenza, per dirne
una, fu che pensavo che l'India fosse affacciata sul Mediterraneo.
Le questioni geografiche,
ad ogni modo, non furono un particolare problema fino a che non mi
trovai in un luogo sconosciuto da qualche parte del mare, che sarebbe
potuto essere qualsiasi luogo vi fosse affacciato.
I cartelli erano
illeggibili e la gente parlava in modo incomprensibile.
Per quel che sapevo io,
potevamo essere anche in Russia (sì, da qualche parte sul
Mediterraneo anche lei).
“Fa troppo caldo per la
Russia e sono tutti troppo pallidi perché sia l'India”, mi fece
notare Blanca annoiata, sgranocchiando un tozzo di pane rubato chissà
dove.
“Tu che ne sai? Ci sei
mai stata?”
Tuttavia, sapevo che aveva
ragione e accantonai l'ipotesi della Russia.
Un giorno stavamo
ciondolando presso una fontana con i crampi allo stomaco, e, mentre
pensavo ad Alessandro Magno, ebbi quella che reputai per lungo tempo
l'intuizione più saggia dell'epoca.
“Scommetto che siamo in
Macedonia!”, dissi. Blanca mi guardò con occhi dubbiosi,
pensandoci un momento. Poi scosse la testa.
“La Macedonia dove sta?”
“Non lo so.”
“E come fai a dire che
siamo lì?” Mi guardò con l'aria annoiata di chi non lascia più
stupire da niente, come un vecchio professore rassegnato ai
capitomboli culturali degli alunni.
A quel punto la guardai
con saccente superiorità.
Visto che credevo di
sapere tutta la geografia tranne dove fosse la Macedonia, il mio era
un sillogismo perfetto.
“Tu sai dove siamo
noi?”, chiesi con fare da inquisitore.
Le scosse candidamente le
spalle: “Non lo so”.
“E la Macedonia dov'è?”
“Ho detto che non lo
so.”
“Ecco! Ecco! Vedi, siamo
nello stesso posto in cui è la Macedonia!”
Penso che avesse sperato
di aver capito male, decise, in ogni caso, di spingermi nella
fontana.
Scoprimmo di essere ad
Atene qualche tempo dopo, quando, malgrado tutto, in noi si era fatta
forte l'idea di essere in Macedonia.
Un marinaio, udito parlare
italiano al porto, ci diede la smentita.
Fu Blanca a tenere
quell'edificante colloquio.
“Sai dove siamo?”
L'uomo fu sorpreso dal
sentir parlare la sua lingua, e ci guardò incuriosito. Doveva essere
del sud, aveva gli occhi chiarissimi e la pelle olivastra, un bel
contrasto che però, unito alle sue pose lasse, gli dava l'aria di
uno zingaro.
“Al Pireo, ragazzina.”
“Dove?”
“Ho detto al Pireo.”
Vidi Blanca perdere la
pazienza e atteggiarsi a maestrina: “Ho capito che siamo a Pireo.
Ma dov'è Pireo?”
Ci guardò con stupore preoccupato, come si
guardano quei vecchi preda della demenza che non si ricordano l'anno
in cui vivono.
“Ad Atene...”
Lei si morse le labbra un
istante, incerta sul fare la domanda. Sopra la nostra testa c'era un
bel cielo blu con poche nuvole.
“Manigoldo, ma allora Atene è in
Macedonia?”
*
Gli chiedemmo se
conoscesse qualcuno in grado di portarci in Sicilia, non importava in
quale porto. Ci interessava passare il mare, possibilmente in modo
dignitoso, poi ce la saremmo cavati. Immagino che fosse curioso
davanti alle nostre domande, ma che temesse in una storia troppo
lunga e difficile dietro.
“Non ora”, disse.
Aggiunse che lui era di una compagnia di Genova e che veniva dalla
Sicilia, ma non sarebbero tornati lì prima dell'anno successivo, e
che probabilmente non c'erano altre compagnie italiane che, per il
momento, facessero quella tratta.
“Nel Mediterraneo le
cose non vanno più bene”, constatò con amarezza: “Ormai le navi
passano tutte per l'Oceano.”
Annuii. Volevo dirgli che
era da un paio di secoli che le cose andavano così, ma tacqui.
“Qualcuna che passa di
qui va a Venezia”, disse, “Ma fate prima a farvi il mare a nuoto
che non a scendere l'Italia da lassù.”
Dopo di che ricominciò a
lamentarsi di non avere tempo, e ci lasciò per il suo lavoro
terminata una sigaretta.
Ricordo lo sguardo di
Blanca di quel giorno. Aveva un paio d'occhi da gatto spaventato,
quegli occhi tondi tondi tutti sgranati.
Le chiesi d'aver pazienza,
saremmo tornati.
Lei alzò le spalle:
“Tanto non ci spero nemmeno più”, sussurrò.
*
Il Greco non lo imparai
mai decentemente, nemmeno restando al Santuario, ma, in compenso, i
Greci sapevano spiegarsi benissimo.
Quando ci beccavano con le
mani nelle loro tasche – vivevamo nell'unico modo che conoscevamo –
non si perdevano in inutili urla come usava a Messina: loro
iniziavano subito a riempirti di mazzate fino a che non mollavi
l'osso. Più erano silenziosi, più forte colpivano.
Il porto invece era una
vera e propria Babele, vi si levavano centinaia di voci, accenti e
lingue differenti. Pensai che Atene fosse veramente il centro del
mondo.
Imparai qualche vocabolo
straniero guardando i modi ricorrenti e vistosi dei marinai nel
pronunciare alcuni termini.
C'erano molti francesi, e
quasi tutti, una volta sbarcati, si accompagnavano a delle donne. Un
giorno ne vidi uno che strappò un bacio ad una bella giovane dopo
averle detto “Oh, ma chérie...”.
Tutti i marinai francesi
erano con delle donne, tutti dicevano chérie
e le facevano impazzire.
Un giorno tentai a
prendere Blanca sotto braccio e a dirle la stessa cosa, ma, un po'
per il contatto da camerata, un po' per il suo umore saturnino, non
ricevetti alcuna attenzione. Smisi di pensare che quello fosse il
vocabolo giusto per le donne e lo accantonai per un lungo periodo.
Esso riemerse un giorno
in
cui ero al Santuario e Sage mi disse che il francese lì era la
lingua veicolare.*
“Lo conosci?”
“Oui, ma scerì!”,
dissi con aria persuasiva, senza pensare a nulla, pur di fregiarmi
della mia profonda conoscenza.
Talvolta, quando siamo
solo io e lui nella sala delle udienze e gli faccio delle domande
sula missione, mi risponde, canzonandomi: “Oui,
ma chérie!”.
*Siamo
a inizio Settecento, era quella la lingua colta e usata dagli
intellettuali di tutta Europa per comunicare.
Al
Santuario, di colti, ce ne sono ben pochi, ma sono in troppi e da
troppi paesi, per cui sarà valsa la même
chose .
*
Fu proprio in quei giorni
che vidi per la prima volta il Santuario.
Era una mattinata grigia,
probabilmente domenica, con poca gente in giro per la città. Le
facce erano impigrite, l'aria era elettrica come prima di un
temporale.
Ci stavamo passando un
mozzicone di sigaretta* trovato per strada mezzo intatto e guardavamo
annoiati le volute del fumo confondersi al colore del cielo.
Blanca saltò giù da un
muretto con la paglietta ancora tra le labbra, atterrò come se si
stesse reggendo su un paio di gambe rotte.
“Andiamo alla città
vecchia”, mi diede le spalle e si avviò verso l'acropoli senza
passarmi più nemmeno un tiro di fumo.
Non era curiosa, voleva
solo una scusa per distrarmi e finire da sola la sigaretta. E questo
fu il motivo che mi condusse per la prima volta alle soglie del Fato.
Fu come se ci avessi dato
una sbirciatina, per poi chiudere subito la porta.
Tra Atene e la sua
acropoli c'è una cortina di alberi tra le cui fronde si respira
un'aria che ha qualcosa di antico.
Se un uomo si fermasse per
sempre in mezzo ad un campo di grano a vedere l'eterno rinnovamento
della natura, forse potrebbe capire.
È l'Eterno Ritorno
dell'Identico, questa sensazione. L'elettrica giovinezza che emanano
le cose che sono più antiche del mondo stesso.
Oltre quel boschetto, una
spianata brulla di terra e colonne abbattute, su cui tira un vento
epico.
Il mare, sulla distanza,
era una distesa mercuriale e immobile, priva di riflessi.
“Tira aria di
tempesta.”, dissi. Blanca inclinò la bocca tutta a destra, gli
occhi rivolti con preoccupazione all'orizzonte.
“Tra poco ricominceranno
gli acquazzoni, e poi ci sarà l'autunno...”, asserì lei
laconicamente, “Chissà com'è l'inverno di qui...”
Volli sfuggire alla
malinconia di Blanca, mi guardai indietro: fu allora che la vidi
oltre un paio di rocce.
Sotto quel cielo di pietra
e la luce livida di quel giorno, sotto quel vento salmastro e
dispettoso - le sue pietre gravavano indifferenti sulla terra.
Capii di essere innanzi ad
un luogo che nemmeno la Storia avrebbe potuto abbattere.
Erano stati i fasti
dell'Atene periclea a porgerne le prime pietre e a innalzarlo, la
maestria di Fidia a inciderne la bellezza nella leggenda, e il mito
aveva un nome: Athena Parthenos.
La scalata delle Dodici
Case, la superba sfida che lanciava la sua quiete immobile.
All'epoca non le diedi
nemmeno un nome, risposi semplicemente alla sua potenza.
Fu una tensione
irresistibile, mi misi a correre verso di essa. Non ho mai galoppato
così veloce in vita mia, sembrava che fosse la terra stessa a
respingere le mie gambe, una ventata mi scarmigliò i capelli, scossi
la testa e chiusi gli occhi.
In quella corsa sentii la
vita fluirmi nelle vene. Ero la terra aspra sotto ai miei piedi, ed
ero il vento che tirava sulla spianata, ero il mondo intero che mi
assecondava in quella insensata corsa verso degli edifici bianchi.
Non poteva durare a lungo.
Mi rivolsi un istante
indietro, per guardare dove avessi lasciato la mia malinconica
compagna di viaggio e andai a sbattere contro un addome. Non sembrò
troppo turbato dall'impatto.
“Vous êtes ici puor
faire quoi?”
Uno stentatissimo francese
mi riportò alla realtà.
Se ne avvaleva un colosso
alto almeno due metri, che sembrava in lotta tra la sua naturale
gentilezza e il dovere di fare la guardia.
Lo guardai con rancore,
senza capire nulla della sua frase, se non che quello fosse il
francese di qualcuno che lo sapeva quanto me.
Anni dopo sarebbe stato
lui il primo a riconoscermi.
“Sei il ragazzino che
non capiva il francese”, mi disse.
Era Aldebaran, ai tempi in
cui si chiamava ancora Rasgado ed era solo un gigante buono.
“Tu sei quello che lo
parlava male”, gli dissi. Mi rispose con una pacca di rimprovero
affettuoso.
“Vous ne povez pas
rester ici!"
A gesti gli spiegai di non
capire né il francese, né il greco, né qualsiasi altra lingua
estraesse dal suo repertorio.
In realtà, avevo compreso
benissimo perché continuava a farmi segno di no e a indicarmi di
tornare indietro, ma trovavo esilarante il suo affannarsi.
Continuavo a ripetergli:
“No, no. Io italiano. I-ta-lia-no!”
Ad un certo punto, però,
perse la pazienza, e si avvalse di un segnale universalmente
riconosciuto: batté il taglio della mano destra contro il palmo
della sinistra.
Al mio paese si legge:
“Smamma”.
“Ah, e bastava essere
chiari!”
Aprii le braccia con aria
illuminata e decisi di andarmene.
Non avevo voglia di
buscarmi altre mazzate e mi stava simpatico, per cui decisi di
obbedirgli.
Rasgado è una forza
tremenda in un abito di gentilezza.
Quel giorno portava un
fiore viola tra i capelli, mi sorrise e mi salutò.
Un giorno gli dissi di
essere tornato qualche volta per trovarlo, ma che lui non c'era mai;
rispose che era stato il suo ultimo turno di vedetta, e per questo si
ricordava di me.
Quel pomeriggio avrebbe
ottenuto la Cloth di Taurus.
“Sei stato l'ultimo ad
avermi conosciuto con il nome di Rasgado.”
“E questo è buono?
Pensa che non sono nemmeno riuscito a chiedertelo.”
Aveva un sorriso sereno,
Aldebaran, giocava con uno stelo senza corolla e alzò le spalle.
“Era comunque il mio
vero nome. Se anche fossi riuscito a farlo, non avrei capito per
risponderti.”
Me lo disse perché sapevo
quali fossero i tempi del vero nome.
Il
confine tra quelli e tutti gli altri giorni è sempre un muro di
sangue.
Non
credo – o, almeno non lo voglio pensare – che un uomo come
Rasgado abbia abbandonato il suo vecchio nome solo per una qualche
forma di totale abnegazione.
Penso
che fosse un modo di salvare quella parte di se stesso, la più
autentica, che l'aveva condotto alla forza. Tutto ciò che sarebbe
venuto dopo poteva anche essere in comune alla tradizione dei
cavalieri del Toro, ma era stato Rasgado colui che aveva scalato la
montagna e l'aveva conquistata. La sua gloria, qualunque cosa potesse
succedere dopo, doveva rimanere intatta.
Volevo
dirgli che, se questo era l'intento, avrebbe potuto mantenere quel
nome, ma non ce n'è stato
il tempo né l'occasione.
Io lo
invidio un po': ho perso il mio nome prima che potesse valere
qualcosa, e quello che possiedo ora non posso certo consacrarlo alla
gloria.
D'altra
parte la gloria non fa nemmeno per me. Per cui va bene.
“Che cosa triste da dire”, sentenziai sul nostro incontro. Lui rise – rideva spesso, Aldebaran, ed era sempre un ottimo modo di rispondere, per questo mi piaceva parlare con lui.
*
Dopo di che, le mie
giornate in Atene si perdono nella monotonia esasperante della lotta
per la sopravvivenza.
Rasgado fu l'ultima
gentilezza, prima della fine di quella che reputo la mia giovinezza.
Se lo avessi saputo,
davanti a Taurus mi sarei tolto il cappello e avrei fatto un inchino
fino a toccare terra con la punta del naso.
Il fiore che aveva tra i
capelli, fu l'ultimo che mi degnai di notare nell'Atene di
quell'estate che stava volgendo al termine.
*
*Ho
trovato questa chicca meravigliosa che volevo condividere con voi
a proposito delle sigarette nel XVIII sec.:
“Nel 1700 anche le donne
iniziano a fumare ed alcune dame fondarono l'ordine della Tabacchiera.
Nacque la sigaretta.
Vi si legge:
"Noi Cavalieresse dell'Ordine della Tabacchiera, dichiariamo di non
aver trovato fino ad oggi nulla all'infuori del tabacco degno di farsi
amare costantemente da noi.
Il tempo ci fa trovare dei difetti nei nostri amanti,
dell'ingratitudine nelle nostre amiche, del ridicolo in una moda che
noi cambiamo 4 volte all'anno. Solo il tabacco noi troviamo degni di
essere amato".
Le
Cavalieresse dell'ordine della Tabacchiera, abbiamo trovato i prossimi
assaltatori del Grande Tempio.
Perché scrivendo di Manigoldo non si può che finire in degenerazioni
del genere.
Grazie Manigoldo, amore mio.
[da: http://www.smettere-di-fumare.info/Storia-del-Fumo/la-Storia-del-Fumo.php]
Ricordo che
mi
divertii moltissimo a scrivere questo capitolo. A rileggerlo ora, non
mi pace più così tanto.
Tuttavia non
voglio nemmeno rivorticarlo troppo, almeno in memoria di quel bel
giorno in cui lo scrissi, il giorno in cui più di tutti mi sono
sentiva vicina alla scrittura.
E perché mi
sembra giusto tirare un attimo il fiato prima di incamminarci verso
il finale.
Rasgado avrebbe
dovuto trovare spazio nelle mie storie. Se scriverò il seguito di
questa voglio consacrargli un posto d'onore.
Penso che sia
il giusto contraltare di uno come Manigoldo, credo che, in virtù
delle loro differenze, lo rispetti molto, peccato che non ci abbiano
mai concesso l'opportunità di vederli interagire.
Ringrazio
ancora una volta i miei fedeli recensori, anche se non so più come
dirlo per farmi credere.