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Autore: Jailer    09/10/2015    3 recensioni
Il passato di Manigoldo, dalla prima volta in cui vide un'anima al suo incontro con Sage, da Messina ad Atene, passando per la solitudine, i sogni, il fato, la morte, l'amore.
La giovinezza del discolo destinato a diventare l'uomo che incatenò Thanatos è un valzer tra piccoli e grandi drammi, vissuti sempre con la leggerezza e l'ironia che lo contraddistinguono.
E anche l'incredulità per ciò che il fato scelse di riservargli.
"Ancora non ho capito quale concatenazione di fatti mi abbia portato alle soglie della Quarta Casa, né che cosa ci faccia io qui.
Come per ogni cosa, però, ne prendo atto.
A volte prendo in giro la mia armatura: mi ci siedo davanti a gambe incrociate, e le chiedo: “Ma a te, chi ti ha voluta?”
Penso che lei mi sorrida in qualche modo, ma non so che espressione sia, se di benevolenza o di beffa.
Le sorrido anche io, di gratitudine o imbarazzo. Ma non posso fare a meno di pensare quanto cara mi sia costata."
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cancer Manigoldo, Cancer Sage, Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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VII

Sull'importanza del francese


Ogni tanto, durante la mia vita, accadono questi grandi periodi di cui io dimentico sempre qualche pezzo, perché batto la testa o perché, come in questo caso, sono vagamente ubriaco.
Ma non ne faccio un problema: nella mia testa c'è più spazio per i giorni futuri, e quindi devo vivere ancora moto per poterla riempire.

I miei ricordi di quel periodo in Atene sono un groviglio confuso, come se l'alcool di quella settimana ne avesse impiegate almeno due per essere smaltito.
E probabilmente fu così, perché non riesco a disporre nessun fatto in ordine cronologico.
Fu come vivere un'unica giornata troppo impegnativa in cui tutto si accavallò con tutto.
Ed è una grande confusione.
Tuttavia imparai alcune cose che invece ricordo piuttosto bene e che ho voglia di raccontare.


Ho detto di aver letto un discreto numero di libri, con la conseguenza di essermi fatto una altrettanto discreta cultura.
Una cartina geografica, però, in vita mia, l'avevo vista sì e no due volte, e non l'avevo mai degnata di particolare considerazione. La conseguenza, per dirne una, fu che pensavo che l'India fosse affacciata sul Mediterraneo.
Le questioni geografiche, ad ogni modo, non furono un particolare problema fino a che non mi trovai in un luogo sconosciuto da qualche parte del mare, che sarebbe potuto essere qualsiasi luogo vi fosse affacciato.
I cartelli erano illeggibili e la gente parlava in modo incomprensibile.
Per quel che sapevo io, potevamo essere anche in Russia (sì, da qualche parte sul Mediterraneo anche lei).

Fa troppo caldo per la Russia e sono tutti troppo pallidi perché sia l'India”, mi fece notare Blanca annoiata, sgranocchiando un tozzo di pane rubato chissà dove.
Tu che ne sai? Ci sei mai stata?”
Tuttavia, sapevo che aveva ragione e accantonai l'ipotesi della Russia.

Un giorno stavamo ciondolando presso una fontana con i crampi allo stomaco, e, mentre pensavo ad Alessandro Magno, ebbi quella che reputai per lungo tempo l'intuizione più saggia dell'epoca.
Scommetto che siamo in Macedonia!”, dissi. Blanca mi guardò con occhi dubbiosi, pensandoci un momento. Poi scosse la testa.
La Macedonia dove sta?”
Non lo so.”
E come fai a dire che siamo lì?” Mi guardò con l'aria annoiata di chi non lascia più stupire da niente, come un vecchio professore rassegnato ai capitomboli culturali degli alunni.
A quel punto la guardai con saccente superiorità.
Visto che credevo di sapere tutta la geografia tranne dove fosse la Macedonia, il mio era un sillogismo perfetto.

Tu sai dove siamo noi?”, chiesi con fare da inquisitore.
Le scosse candidamente le spalle: “Non lo so”.

E la Macedonia dov'è?”
Ho detto che non lo so.”
Ecco! Ecco! Vedi, siamo nello stesso posto in cui è la Macedonia!”
Penso che avesse sperato di aver capito male, decise, in ogni caso, di spingermi nella fontana.


Scoprimmo di essere ad Atene qualche tempo dopo, quando, malgrado tutto, in noi si era fatta forte l'idea di essere in Macedonia.
Un marinaio, udito parlare italiano al porto, ci diede la smentita.
Fu Blanca a tenere quell'edificante colloquio.

Sai dove siamo?”
L'uomo fu sorpreso dal sentir parlare la sua lingua, e ci guardò incuriosito. Doveva essere del sud, aveva gli occhi chiarissimi e la pelle olivastra, un bel contrasto che però, unito alle sue pose lasse, gli dava l'aria di uno zingaro.

Al Pireo, ragazzina.”
Dove?”
Ho detto al Pireo.”
Vidi Blanca perdere la pazienza e atteggiarsi a maestrina: “Ho capito che siamo a Pireo. Ma dov'è Pireo?”
Ci guardò con stupore preoccupato, come si guardano quei vecchi preda della demenza che non si ricordano l'anno in cui vivono.

Ad Atene...”
Lei si morse le labbra un istante, incerta sul fare la domanda. Sopra la nostra testa c'era un bel cielo blu con poche nuvole.


Manigoldo, ma allora Atene è in Macedonia?”


*

Gli chiedemmo se conoscesse qualcuno in grado di portarci in Sicilia, non importava in quale porto. Ci interessava passare il mare, possibilmente in modo dignitoso, poi ce la saremmo cavati. Immagino che fosse curioso davanti alle nostre domande, ma che temesse in una storia troppo lunga e difficile dietro.
Non ora”, disse. Aggiunse che lui era di una compagnia di Genova e che veniva dalla Sicilia, ma non sarebbero tornati lì prima dell'anno successivo, e che probabilmente non c'erano altre compagnie italiane che, per il momento, facessero quella tratta.
Nel Mediterraneo le cose non vanno più bene”, constatò con amarezza: “Ormai le navi passano tutte per l'Oceano.”
Annuii. Volevo dirgli che era da un paio di secoli che le cose andavano così, ma tacqui.

Qualcuna che passa di qui va a Venezia”, disse, “Ma fate prima a farvi il mare a nuoto che non a scendere l'Italia da lassù.”
Dopo di che ricominciò a lamentarsi di non avere tempo, e ci lasciò per il suo lavoro terminata una sigaretta.

Ricordo lo sguardo di Blanca di quel giorno. Aveva un paio d'occhi da gatto spaventato, quegli occhi tondi tondi tutti sgranati.
Le chiesi d'aver pazienza, saremmo tornati.
Lei alzò le spalle: “Tanto non ci spero nemmeno più”, sussurrò.


*


Il Greco non lo imparai mai decentemente, nemmeno restando al Santuario, ma, in compenso, i Greci sapevano spiegarsi benissimo.
Quando ci beccavano con le mani nelle loro tasche – vivevamo nell'unico modo che conoscevamo – non si perdevano in inutili urla come usava a Messina: loro iniziavano subito a riempirti di mazzate fino a che non mollavi l'osso. Più erano silenziosi, più forte colpivano.

Il porto invece era una vera e propria Babele, vi si levavano centinaia di voci, accenti e lingue differenti. Pensai che Atene fosse veramente il centro del mondo.
Imparai qualche vocabolo straniero guardando i modi ricorrenti e vistosi dei marinai nel pronunciare alcuni termini.
C'erano molti francesi, e quasi tutti, una volta sbarcati, si accompagnavano a delle donne. Un giorno ne vidi uno che strappò un bacio ad una bella giovane dopo averle detto “
Oh, ma chérie...”.
Tutti i marinai francesi erano con delle donne, tutti dicevano
chérie e le facevano impazzire.
Un giorno tentai a prendere Blanca sotto braccio e a dirle la stessa cosa, ma, un po' per il contatto da camerata, un po' per il suo umore saturnino, non ricevetti alcuna attenzione. Smisi di pensare che quello fosse il vocabolo giusto per le donne e lo accantonai per un lungo periodo.

Esso riemerse un giorno in cui ero al Santuario e Sage mi disse che il francese lì era la lingua veicolare.*
Lo conosci?”
Oui, ma scerì!”, dissi con aria persuasiva, senza pensare a nulla, pur di fregiarmi della mia profonda conoscenza.
Talvolta, quando siamo solo io e lui nella sala delle udienze e gli faccio delle domande sula missione, mi risponde, canzonandomi:
“Oui, ma chérie!”.


*Siamo a inizio Settecento, era quella la lingua colta e usata dagli intellettuali di tutta Europa per comunicare.
Al Santuario, di colti, ce ne sono ben pochi, ma sono in troppi e da troppi paesi, per cui sarà valsa la
même chose .


*

Fu proprio in quei giorni che vidi per la prima volta il Santuario.
Era una mattinata grigia, probabilmente domenica, con poca gente in giro per la città. Le facce erano impigrite, l'aria era elettrica come prima di un temporale.
Ci stavamo passando un mozzicone di sigaretta* trovato per strada mezzo intatto e guardavamo annoiati le volute del fumo confondersi al colore del cielo.
Blanca saltò giù da un muretto con la paglietta ancora tra le labbra, atterrò come se si stesse reggendo su un paio di gambe rotte.

Andiamo alla città vecchia”, mi diede le spalle e si avviò verso l'acropoli senza passarmi più nemmeno un tiro di fumo.
Non era curiosa, voleva solo una scusa per distrarmi e finire da sola la sigaretta. E questo fu il motivo che mi condusse per la prima volta alle soglie del Fato.
Fu come se ci avessi dato una sbirciatina, per poi chiudere subito la porta.

Tra Atene e la sua acropoli c'è una cortina di alberi tra le cui fronde si respira un'aria che ha qualcosa di antico.
Se un uomo si fermasse per sempre in mezzo ad un campo di grano a vedere l'eterno rinnovamento della natura, forse potrebbe capire.
È l'Eterno Ritorno dell'Identico, questa sensazione. L'elettrica giovinezza che emanano le cose che sono più antiche del mondo stesso.
Oltre quel boschetto, una spianata brulla di terra e colonne abbattute, su cui tira un vento epico.
Il mare, sulla distanza, era una distesa mercuriale e immobile, priva di riflessi.

Tira aria di tempesta.”, dissi. Blanca inclinò la bocca tutta a destra, gli occhi rivolti con preoccupazione all'orizzonte.
Tra poco ricominceranno gli acquazzoni, e poi ci sarà l'autunno...”, asserì lei laconicamente, “Chissà com'è l'inverno di qui...”


Volli sfuggire alla malinconia di Blanca, mi guardai indietro: fu allora che la vidi oltre un paio di rocce.
Sotto quel cielo di pietra e la luce livida di quel giorno, sotto quel vento salmastro e dispettoso - le sue pietre gravavano indifferenti sulla terra.
Capii di essere innanzi ad un luogo che nemmeno la Storia avrebbe potuto abbattere.
Erano stati i fasti dell'Atene periclea a porgerne le prime pietre e a innalzarlo, la maestria di Fidia a inciderne la bellezza nella leggenda, e il mito aveva un nome: Athena Parthenos.
La scalata delle Dodici Case, la superba sfida che lanciava la sua quiete immobile.
All'epoca non le diedi nemmeno un nome, risposi semplicemente alla sua potenza.
Fu una tensione irresistibile, mi misi a correre verso di essa. Non ho mai galoppato così veloce in vita mia, sembrava che fosse la terra stessa a respingere le mie gambe, una ventata mi scarmigliò i capelli, scossi la testa e chiusi gli occhi.
In quella corsa sentii la vita fluirmi nelle vene. Ero la terra aspra sotto ai miei piedi, ed ero il vento che tirava sulla spianata, ero il mondo intero che mi assecondava in quella insensata corsa verso degli edifici bianchi.

Non poteva durare a lungo.
Mi rivolsi un istante indietro, per guardare dove avessi lasciato la mia malinconica compagna di viaggio e andai a sbattere contro un addome. Non sembrò troppo turbato dall'impatto.

Vous êtes ici puor faire quoi?”
Uno stentatissimo francese mi riportò alla realtà.
Se ne avvaleva un colosso alto almeno due metri, che sembrava in lotta tra la sua naturale gentilezza e il dovere di fare la guardia.
Lo guardai con rancore, senza capire nulla della sua frase, se non che quello fosse il francese di qualcuno che lo sapeva quanto me.

Anni dopo sarebbe stato lui il primo a riconoscermi.
Sei il ragazzino che non capiva il francese”, mi disse.
Era Aldebaran, ai tempi in cui si chiamava ancora Rasgado ed era solo un gigante buono.

Tu sei quello che lo parlava male”, gli dissi. Mi rispose con una pacca di rimprovero affettuoso.

Vous ne povez pas rester ici!"
A gesti gli spiegai di non capire né il francese, né il greco, né qualsiasi altra lingua estraesse dal suo repertorio.
In realtà, avevo compreso benissimo perché continuava a farmi segno di no e a indicarmi di tornare indietro, ma trovavo esilarante il suo affannarsi.
Continuavo a ripetergli: “No, no. Io italiano. I-ta-lia-no!”
Ad un certo punto, però, perse la pazienza, e si avvalse di un segnale universalmente riconosciuto: batté il taglio della mano destra contro il palmo della sinistra.
Al mio paese si legge: “Smamma”.

Ah, e bastava essere chiari!”
Aprii le braccia con aria illuminata e decisi di andarmene.
Non avevo voglia di buscarmi altre mazzate e mi stava simpatico, per cui decisi di obbedirgli.

Rasgado è una forza tremenda in un abito di gentilezza.
Quel giorno portava un fiore viola tra i capelli, mi sorrise e mi salutò.
Un giorno gli dissi di essere tornato qualche volta per trovarlo, ma che lui non c'era mai; rispose che era stato il suo ultimo turno di vedetta, e per questo si ricordava di me.
Quel pomeriggio avrebbe ottenuto la Cloth di Taurus.


Sei stato l'ultimo ad avermi conosciuto con il nome di Rasgado.”
E questo è buono? Pensa che non sono nemmeno riuscito a chiedertelo.”
Aveva un sorriso sereno, Aldebaran, giocava con uno stelo senza corolla e alzò le spalle.

Era comunque il mio vero nome. Se anche fossi riuscito a farlo, non avrei capito per risponderti.”
Me lo disse perché sapevo quali fossero i tempi del vero nome.
Il confine tra quelli e tutti gli altri giorni è sempre un muro di sangue.
Non credo – o, almeno non lo voglio pensare – che un uomo come Rasgado abbia abbandonato il suo vecchio nome solo per una qualche forma di totale abnegazione.
Penso che fosse un modo di salvare quella parte di se stesso, la più autentica, che l'aveva condotto alla forza. Tutto ciò che sarebbe venuto dopo poteva anche essere in comune alla tradizione dei cavalieri del Toro, ma era stato Rasgado colui che aveva scalato la montagna e l'aveva conquistata. La sua gloria, qualunque cosa potesse succedere dopo, doveva rimanere intatta.

Volevo dirgli che, se questo era l'intento, avrebbe potuto mantenere quel nome, ma non ce n'è stato il tempo né l'occasione.
Io lo invidio un po': ho perso il mio nome prima che potesse valere qualcosa, e quello che possiedo ora non posso certo consacrarlo alla gloria.
D'altra parte la gloria non fa nemmeno per me. Per cui va bene.

Che cosa triste da dire”, sentenziai sul nostro incontro. Lui rise – rideva spesso, Aldebaran, ed era sempre un ottimo modo di rispondere, per questo mi piaceva parlare con lui.


*


Dopo di che, le mie giornate in Atene si perdono nella monotonia esasperante della lotta per la sopravvivenza.
Rasgado fu l'ultima gentilezza, prima della fine di quella che reputo la mia giovinezza.
Se lo avessi saputo, davanti a Taurus mi sarei tolto il cappello e avrei fatto un inchino fino a toccare terra con la punta del naso.
Il fiore che aveva tra i capelli, fu l'ultimo che mi degnai di notare nell'Atene di quell'estate che stava volgendo al termine.


*



*Ho trovato questa chicca meravigliosa che volevo condividere con voi
a proposito delle sigarette nel XVIII sec.:

Nel 1700 anche le donne iniziano a fumare ed alcune dame fondarono l'ordine della Tabacchiera.
Nacque la sigaretta.
Vi si legge:
"Noi Cavalieresse dell'Ordine della Tabacchiera, dichiariamo di non aver trovato fino ad oggi nulla all'infuori del tabacco degno di farsi amare costantemente da noi.
Il tempo ci fa trovare dei difetti nei nostri amanti, dell'ingratitudine nelle nostre amiche, del ridicolo in una moda che noi cambiamo 4 volte all'anno. Solo il tabacco noi troviamo degni di essere amato".

Le Cavalieresse dell'ordine della Tabacchiera, abbiamo trovato i prossimi assaltatori del Grande Tempio.
Perché scrivendo di Manigoldo non si può che finire in degenerazioni del genere.
Grazie Manigoldo, amore mio.
[da: http://www.smettere-di-fumare.info/Storia-del-Fumo/la-Storia-del-Fumo.php]



Ricordo che mi divertii moltissimo a scrivere questo capitolo. A rileggerlo ora, non mi pace più così tanto.
Tuttavia non voglio nemmeno rivorticarlo troppo, almeno in memoria di quel bel giorno in cui lo scrissi, il giorno in cui più di tutti mi sono sentiva vicina alla scrittura.
E perché mi sembra giusto tirare un attimo il fiato prima di incamminarci verso il finale.
Rasgado avrebbe dovuto trovare spazio nelle mie storie. Se scriverò il seguito di questa voglio consacrargli un posto d'onore.
Penso che sia il giusto contraltare di uno come Manigoldo, credo che, in virtù delle loro differenze, lo rispetti molto, peccato che non ci abbiano mai concesso l'opportunità di vederli interagire.
Ringrazio ancora una volta i miei fedeli recensori, anche se non so più come dirlo per farmi credere.



   
 
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