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Autore: Ink Voice    11/10/2015    1 recensioni
Come reagireste alla scoperta dell’esistenza di un mondo celato agli occhi della “gente comune”? Eleonora, credendosi parte di questa moltitudine indistinta di persone senza volto e senza destino, si domanderà per molto tempo il motivo per il quale sia stata catapultata in una realtà totalmente sconosciuta e anche piuttosto intimidatoria, che inizialmente le starà stretta e con la quale non saprà relazionarsi. Riuscirà a farci l’abitudine insieme alla sua compagna Chiara, che vivrà con lei quest’avventura, ma la ragazza non saprà di nascondere un segreto che va oltre la sua immaginazione e che la rende parte fondamentale di quest’universo nascosto e pieno di segreti. Ecco a voi l’inizio di tutto: la prima parte della serie Not the same story.
[RISTESURA+REVISIONE - Not the same story 1.2/3]
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga, Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Not the same story'
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Una lettera da casa

Ci restai quasi male quando Chiara accolse la mia confessione con un banale sorrisetto malizioso e soddisfatto. Disse soltanto: «Ero sicura che prima o poi sarebbe successo.»
Mi irritai subito a causa della sua tranquillità, dopo settimane - se non mesi! - passati a stuzzicarmi, proprio ora che mi aspettavo di essere bersagliata per l’ennesima volta e che ero pure disposta a sottomettermi a tutto quello che mi avrebbe detto. «Ah! E me lo dici così?» scattai infatti. Lei ridacchiò e io proseguii: «Non puoi capire. Quel dannato sorrisetto che ha sempre… non so se lo preferisco quando è beffardo o gentile! Non avevo il coraggio di guardarlo mentre ci parlavo ed ero agitatissima, secondo me ha capito subito che ero imbarazzata come non mai… invece quando riuscivo a guardarlo negli occhi non avevo la forza di smettere. Hai visto che colore hanno, poi?!»
«Sì, sì… blu oltremare mozzafiato, manco fosse uscito da un fumetto per ragazze…»
«Be’, è talmente carino che non è un’ipotesi da scartare!» Mi buttai sul letto e fui tentata di nascondermi la testa sotto il cuscino. «Non capisco… non capisco cosa mi è preso! Gli ho detto pure che finché non ha iniziato ad essere più disponibile nei miei confronti, mi stava antipatico e mi sembrava un menefreghista. E lui prima di questo mi ha detto che gli sto simpatica e… e non ho speranze.»
«Aspetta, aspetta, come hai fatto a deprimerti nel giro di mezzo secondo? E la tua voce, che è successo? Era così sovreccitata ed è calata di tono di botto! Ehi? Ele…?»
«Lasciami in pace.»
«Non ci credo!» esclamò lei. «Sei l’unica che conosco in grado di passare dall’eccitazione alla depressione!»
«Non sono depressa, sono senza speranze. Come sempre.»
Chiara cercò di risollevarmi ma, com’era mia abitudine in situazioni di quel genere, mi abbattevo ritendendomi poco desiderabile e a dir poco insignificante; quella volta non fui da meno. Insistette, provò a scrollarmi le spalle - nonostante fossi distesa sul letto, mi elencò una serie di ragioni per le quali avrei potuto attirare le attenzioni del ragazzetto per cui mi ero presa quella cotta. Fu tutto inutile: decidendo di non avere alcuna possibilità di andare oltre l’amicizia tra me e lui, mi intestardii talmente tanto che Chiara fu la prima a stancarsi di consolarmi.
Daniel mi era piaciuto, al di là del bell’aspetto che non me lo aveva fatto passare inosservato, per il carattere solo apparentemente disinteressato verso tutto e tutti; il suo sorrisetto beffardo mi parve adorabile e l’espressione gentile, di cui tempo prima non lo avrei ritenuto capace, era forse anche meglio. Normalmente una persona così svogliata nei confronti dello studio e della scuola, nei cui confronti era veramente incurante e menefreghista, mi avrebbe infastidita e l’avrei ritenuta poco interessante; ma paragonato alle poche, belle parole che aveva usato per descrivere secondo lui la situazione della guerra, all’aiuto che mi aveva dato e anche a ciò che mi aveva detto, tutto quello perse importanza. Era stato gentile e aveva fatto lo sforzo di conoscermi meglio e accettarmi come sua amica. Le parole sincere che mi aveva rivolto mi avevano fatta innamorare, letteralmente.
Più ci pensavo, più mi pareva che Daniel mi piacesse dal primo giorno in cui i nostri occhi si erano incontrati, con la sua espressività schietta, i suoi modi di fare e di comportarsi, tutti i suoi pregi e i difetti che non riuscivo più a trovare, come se li avessi dimenticati - come se non li avesse mai avuti. Mi chiesi come avrei fatto a sedermi nuovamente accanto a lui nei giorni a venire senza temere di veder schizzare via dal mio petto il mio cuore praticamente impazzito. Eppure l’ultima cosa che avrei voluto al mondo, in quel momento, era allontanarmi da lui per paura di provare sentimenti più forti, meno ingenui di quella che aveva l’aria di essere una normale cottarella adolescenziale. Non sapevo dire se stessi ingigantendo ciò che stavo provando o se fossi veramente innamorata.
Chiara, dopo un po’ di silenzio, blaterò qualcosa a proposito di una tempesta ormonale in corso e quello mi riportò momentaneamente con i piedi per terra. Pian piano mi resi più disposta al dialogo ed espressi verbalmente tutti i pensieri formulati mentre avevo pensato continuamente a Daniel, con il favore del silenzio momentaneo: perché mi piaceva, cosa mi aveva detto e la sensazione che mi piacesse da sempre.
«Posso dire che…?»
«No, non puoi» la interruppi, intuendo di cosa si sarebbe vantata.
Ma lei ghignò e affermò: «Io te lo avevo detto mesi fa.»
Una volta ottenuto il suo scopo, ovvero quello di farmi ammettere che Daniel mi piaceva eccome, Chiara si calmò quasi di colpo e quel cambiamento mi stordì, sulle prime; poi lo considerai una grazia inviatami dal cielo. La pausa invernale sarebbe cominciata sicuramente bene grazie a quella novità.
Ero contenta di prendermi un po’ di tempo per riposare, perché la routine semiscolastica da un bel po’ di tempo non era più piacevole e rassicurante come i primi tempi: una volta fatta l’abitudine a quella realtà, e già da qualche mese non mi dispiaceva più, il pensiero di “andare a scuola” pure in un mondo diverso non era affatto allettante. Non che il tutto non fosse organizzato in maniera molto libera, anzi; ma la sveglia era uguale per tutti, alle sette, se non prima, e già questo mi ricordava in modo stressante la vera atmosfera scolastica.
Ma l’Accademia era tale solo di nome e questo lo avevo imparato subito; ora mi aspettavano tre settimane di pausa e probabilmente avrei anche fermato del tutto, momentaneamente, l’allenamento dei miei Pokémon. Non avevo voglia di crucciarmi ulteriormente al pensiero di lotte andate male, di crescite troppo lente e di esperienza da fare, sia da parte mia che della mia squadra, che era ancora moltissima. Chiara, dal canto suo, non si era mai preoccupata troppo dell’allenamento, fisico o dei Pokémon; per lei sarebbe cambiato poco e nulla.
Passai le mie giornate con la solita compagnia di amici e mi costrinsi a comportarmi nel modo più naturale possibile alla presenza di Daniel. Il ragazzetto non mancò di mettermi, seppur inconsapevolmente, in difficoltà con la nuova ondata di cordialità nei miei confronti, avendo ammesso che gli stavo quantomeno simpatica. Ma quello era qualcosa che io soltanto avrei dovuto imparare a gestire.
Ilenia si avvicinò molto a me - e anche a Chiara - in quei giorni di pausa, più di quanto avesse fatto prima; era sempre stata gentile e solare ma un po’ la differenza d’età, un po’ le attitudini diverse, ci avevano impedito di stringere un tipo di amicizia meno superficiale, che fosse paragonabile a quello tra me e Chiara. Quest’ultima era sempre stata, dai tempi delle medie, la mia migliore amica; non mi aspettavo certo che con Ilenia potessi diventare tanto intima quanto lo ero con lei, eppure scoprimmo di stare così bene insieme che iniziai a pensarla come la sorella maggiore che non avevo mai avuto. Ero figlia unica, così come Chiara.
Non seppi dire come ci riuscì, ma prima del previsto Ilenia capì che verso Daniel riservavo attenzioni e sguardi di un tipo diverso rispetto agli altri. Quando me lo disse arrossii violentemente e le chiesi, balbettando piena di imbarazzo, cosa le suggerisse quel pensiero; lei, ridacchiando, mi aveva scompigliato i capelli con fare affettuoso.
«Sono un’appassionata di storie romantiche, amo tanto leggerne quanto scriverne, per quanto ora non abbia più tempo di farlo» spiegò. «Alla fine sono diventata… esperta nel settore, se così si può dire!»
«Se non è così, significa che sono stata così ingenua che pure Daniel si sarà accorto del fatto che mi piace» dissi, un po’ scocciata un po’ delusa, dopo un attimo di silenzio.
«Non credo se ne sia accorto nessuno, sono l’unica divoratrice seriale di racconti romantici nel nostro gruppo» mi rassicurò Ilenia. «E poi Daniel è così sbadato che sarà l’ultimo a farci caso, se mai succederà!»
«Lui sarebbe sbadato?» chiesi stupita.
«Anche parecchio» sorrise lei. «Ci vuole un po’ per conoscerlo bene: io che l’ho visto arrivare all’Accademia ho imparato molto su di lui solo attraverso Lorenzo, pensa! Però mi sembra che lui ti voglia molto bene, per essere arrivata solo qualche mese fa. Non è detto che non succeda nulla, tra voi due…»
Evitai di rispondere a quella sottile previsione e dissi: «Non so, Daniel all’inizio mi è sembrato un tipo molto superficiale… sarà la centesima volta che lo dico. Parlandoci mi ha fatta cambiare completamente idea, però! Gli unici difetti che riesco a trovargli sono la svogliatezza, soprattutto nei confronti della scuola, il fatto che non sia per nulla divertente con le sue battute stupide… e anche il primo approccio che riserva alle persone; io inizialmente mi sono un po’ offesa, perché sembrava disinteressato da me e Chiara, che eravamo appena arrivate.»
«Ti assicuro che è più sbadato di quanto voglia dare a vedere… in certe situazioni è di una goffaggine unica. A volte i ragazzi carini come lui, attirando non poche pretendenti, sanno come comportarsi in tutte le occasioni che si presentano loro… lui è troppo orgoglioso per ammettere che a volte è in difficoltà per delle sciocchezze.»
Ilenia parlava bene e con naturalezza, come se stesse leggendo a voce alta ed espressiva un libro: ascoltarla mi piaceva ed ero incuriosita dalle sue passioni, che erano la lettura e la scrittura, appunto, ma a cui da tempo aveva praticamente rinunciato. Anche io, d’altronde, da mesi interi non mettevo alla prova la mia voce.
L’occasione per ricominciare a cantare arrivò grazie a Sara. Approfondii molto il rapporto pure con lei, che, dovetti ammetterlo, divenne la mia preferita nel gruppetto composto da lei, Angelica e Melisse. Anche se spesso loro mi piacevano per la loro vivacità, altrettante volte mi rendevo conto che la tranquillità perenne di Sara si addiceva di più al mio carattere rispetto alla rumorosa allegria delle altre due. Invece Chiara non adorava proprio il tono sempre basso e timido della voce di Sara, oltre alla sua leggiadria e alla grazia, innate in ogni suo passo.
Proprio la danza e la sua passione per essa, oltre che per la ginnastica artistica, mi consentì di riesercitare la mia attività preferita, almeno in parte. Al piano sotterraneo dell’istituto, a parte la sala dedicata quasi esclusivamente all’allenamento dei Pokémon, c’era una piccola palestra in cui si accedeva proprio tramite la grande stanza, con i campi in vari tipi di terreno. Di solito usavamo quest’ultima pure per le ore di “educazione fisica”, nonostante i professori di turno preferissero farci sgranchire le gambe all’aperto, sull’isoletta che ospitava l’Accademia difesa e nascosta per intero dalle barriere; nella palestra più piccola i ragazzi si organizzavano per giocare a pallavolo o basket, più di rado calcio, o in genere era una riserva per le stesse ore di allenamento.
Lì Sara passava la maggior parte del tempo libero che aveva a disposizione, spesso seguita da alcuni maestri, e si allenava costantemente con la danza e la ginnastica. Era più appassionata - e brava - nella prima, anche perché non aveva abbastanza massa muscolare per essere una ginnasta coi fiocchi; era magrissima, infatti, e non poco alta. Un fisico inadatto a quella disciplina, eppure lei ci provava lo stesso e otteneva pure ottimi risultati, tanto che mi pareva volteggiasse padroneggiando l’aria e sollevandosi senza difficoltà.
«Chi ti segue durante le lezioni?» le chiesi il primo giorno in cui ci mettemmo d’accordo per andare insieme.
«Erika e Valérie mi aiutano con la danza, Anemone con la ginnastica e talvolta anche Sandra, che non va affatto male con questo sport. Oppure vengo insieme a Melisse, anche a lei piace ballare. Angelica è proprio negata, credo che l’allenamento fisico per lei equivalga ad una tortura» ridacchiò poi, serenamente. La sua risatina leggera e argentina mi faceva venire i brividi, soprattutto di piacere, nell’ascoltarla; un po’, però, mi facevano uno strano effetto, come se una nota triste e malinconica la tradisse e desse a quel suono un sapore amaro.
«Be’, d’altronde mi sembrava di aver capito che Angelica avesse già deciso di sedersi davanti a un computer per il resto della sua carriera in guerra!» ribattei sorridendo.
«Tu, Eleonora? A quali livelli cantavi prima di venire qui?» si interessò.
«Ah… non prendevo proprio lezioni: cantavo più per piacere mio che per farlo diventare una professione. Però già da questo penso tu abbia capito che il mio è un talento, e meno male, perché credo sia l’unico che ho.» Sara mi guardò male e per un po’ battibeccammo, lei nel tentativo di elencarmi altre mie qualità che io puntualmente non confermai. Ripresi il discorso: «Comunque, stavo dicendo… vuoi per una certa timidezza, vuoi per la proverbiale mia pigrizia, non avevo voglia di prendere lezioni seriamente. Mi hanno sempre detto che ho una notevole estensione vocale e che potrei provare il canto lirico… e in effetti iniziavo ad avere intenzione di provare appena cominciata la scuola, ma poi sono arrivata qui» scrollai le spalle infine.
Sara per un po’ stette in silenzio e non replicò nulla. Poi mormorò: «Mi dispiace.»
Il suo tono infinitamente mogio mi spinse a guardarla con attenzione: tutto in lei, dalla postura all’espressione, mi stava mostrando una tristezza vera e sincera. Temetti addirittura che la ragazza fosse sull’orlo delle lacrime e non ne compresi il motivo, perché mi sembrava assurdo ed esagerato che piangesse per me.
«E… ehi! Che hai? Non è un problema, sono contenta così…!»
«È che» mi interruppe lei con inaudita fermezza, o forse fu il suo tono rammaricato a bloccarmi, «non avresti dovuto essere chiamata anche tu a combattere questa guerra, tu come anche Chiara… e altre centinaia di innocenti che sono stati presi o da noi, o dal Nemico.»
Ci misi un po’ per articolare le parole: «Credo che questo sia stato inevitabile. Il Nemico non ci ha messo niente per far notare a me e Chiara che qualcosa, nella nostra realtà, non andava, e quindi attirarci in questo mondo… che ritengo molto più reale, e per questo più duro e severo, rispetto all’altro. A volte penso che sarebbe meglio se tutto il mondo si unificasse sotto l’influenza dei Pokémon… non credi che così avremmo una possibilità di vittoria?»
«Non lo so. Sinceramente, non lo so proprio, non mi intendo di queste cose… ma se quello che dici tu fosse la soluzione alla guerra, se in questo modo ragazzini innocenti non fossero più strappati alle loro famiglie, allora io vorrei dare il massimo per far sì che questo avvenga.»
«Il mio è solo un pensiero che i piani alti delle Forze del Bene avranno formulato all’inizio della guerra intera… ma hanno preferito dividere due realtà. Quali saranno questi motivi, ancora non l’ho capito. Per il momento mi voglio fidare e basta… appena avrò più esperienza e sicurezza, sta’ certa che ne discuteremo nuovamente!»
Sara ridacchiò e troncammo lì quella conversazione. Ero ancora stupita a causa del suo comportamento, così solidale e comprensivo da arrivare a rattristarsi per me in un modo che nemmeno io avevo mai fatto. Mi chiesi quale fosse la sua, di storia, cosa avesse passato prima di arrivare all’Accademia. Fui tentata di chiederle come facesse ad avere la chioma bianca, piena di ciocche azzurre e blu, senza fare la tinta: e soprattutto perché fosse così apparentemente perfetta. Qualche ciocca sembrava addirittura trasparente, altre striate di capelli argentei; avrei potuto benissimo soprannominarla “principessa delle nevi”.
Scoprii che noi due avevamo gusti musicali parecchio simili, così conoscevo gran parte delle canzoni che Sara preferiva e su cui aveva costruito qualche coreografia. Mentre io cantavo e rieducavo la mia voce, lei danzava e riportava alla memoria i passi creati tempo addietro: mischiando vari stili di danza e più d’una disciplina sportiva, mentre io con sorprendente facilità riprendevo a raggiungere delle note senza esitazione, passammo un’oretta bellissima senza parlarci praticamente mai, soltanto stando in compagnia l’una dell’altra. Non seppi giudicare il livello di Sara, ma la ritenni comunque bravissima; così come lei, probabilmente, pensò di me.
Alla fine dell’ora passata assieme io non riuscivo a parlare a voce decentemente alta e lei era parecchio stanca - mi disse che la sua resistenza era molto scarsa e che di solito faceva lunghe pause tra un pezzo e l’altro, ma aveva voluto seguire in tutto me, che avevo continuato a cantare con brevi interruzioni, giusto per chiederle quale altre canzoni voleva che cantassi o se dovevo ripetere la stessa.
Così il rapporto tra me e Sara si rafforzò, allo stesso modo di quello che avevo con Ilenia, mentre l’amicizia con Chiara rimaneva solida. Continuai a vedermi con Gold ma lottammo poco e niente in quei giorni; l’altro ragazzo con cui strinsi un bel rapporto era proprio Daniel, che senza andare oltre l’amicizia si avvicinò molto a me. La cosa mi rese molto contenta perché per me già era un bel traguardo il fatto che avesse con me tanta confidenza quanta ne aveva con Cynthia, per esempio, anche se era più giusto paragonarmi a Melisse.
Solo dopo molto tempo mi permisi di scherzare con Daniel e lanciargli amichevoli frecciatine come faceva l’altra ragazza, e fu quando iniziammo a definirci entrambi migliori amici. La mia situazione era parecchio brutta, innamorarsi del proprio migliore amico è sempre stato uno degli errori più gravi che una ragazza, o donna, possa commettere; ma mi convinsi a ritenermi più fortunata rispetto a una realtà in cui Daniel non mi avrebbe calcolata per niente e in cui avrei passato il tempo a struggermi e a non parlargli.
L’anno nuovo non si festeggiò in alcun modo, così come non c’era modo di celebrare i compleanni dei propri amici: scoprii solo in quei giorni, infatti, che Daniel era nato agli inizi di novembre con sette mesi precisi di differenza da me - che ero del giugno dell’anno successivo; il pensiero di avergli parlato il giorno del suo compleanno senza averlo saputo mi imbarazzò, ma non me ne preoccupai più di tanto perché era passato molto tempo. Lo stesso ovviamente si poteva dire per gli altri miei amici.
Una mattina dell’ultima settimana libera che avevamo, mentre bighellonavo in giro per l’istituto insieme ad alcune delle solite amiche, Chiara venne separata dal nostro gruppo. Bianca, che salutai amichevolmente, le chiese di seguirla; mi parve piuttosto triste e preoccupata, a malapena ricambiò il mio cordiale “ciao!”. La mia migliore amica si assentò per gran parte della giornata e non la rividi neanche a pranzo. Iniziai a preoccuparmi.
«Avete visto Chiara?»
Posi quella stessa domanda a Sara, Angelica, Melisse e al gruppo di Ilenia. Nessuno seppe dirmi nulla ma tutti si interessarono: la mia risposta, in linea di massima, fu: «Stamattina verso le dieci, quindi abbastanza presto, è stata presa in disparte da Bianca. O almeno questo era quello che mi era sembrato all’inizio: sono passate più di tre ore e non riesco a trovarla, nonostante mi sia fatta un paio di giri…»
«Be’, è strano. Dev’essere una cosa che riguarda solo lei, e non capisco il perché, essendo voi due arrivate qui insieme e nelle stesse circostanze» disse in particolare Daniel.
Annuii e non seppi ribattere nulla. Iniziammo a parlare di altro, nonostante i miei pensieri fossero concentrati sulla momentanea scomparsa di Chiara. Finito il pranzo, fermai Gold e chiesi pure a lui se avesse notato Chiara. In fondo era il cugino di Bianca e come noi proveniva da Nevepoli; le probabilità che sapesse qualcosa erano più alte, anche se comunque scarse. «Prima ho incontrato mia cugina, in effetti, e non aveva un gran bell’aspetto. Non lo ha quasi mai, ma questo è un dettaglio» borbottò. «Non ho visto Chiara con lei, comunque. Hai detto che è da prima che non la vedi? Può darsi che sia in presidenza; non ti saprei dire il motivo, ma ti consiglio di aspettare che torni lei e non andare tu stessa a vedere cosa succede.»
«Va bene» replicai, ugualmente delusa dal risultato della conversazione. Tanto per scambiare altre due parole e dare a Chiara il tempo di ripresentarsi, gli chiesi: «Come mai dici che Bianca non ha mai… una buona cera?»
«La guerra, dopo qualche tempo, l’ha fatta cadere in depressione. È una cosa normale, soprattutto perché il suo ramo della famiglia è andato praticamente distrutto, e lei si è dovuta allontanare da quanti sono stati risparmiati dal Nemico per evitare ulteriori danni. Ma non era solo per questo… proprio non accettava l’idea di dover lottare contro un’organizzazione tanto grande e terribile, di dover dire addio alla sua vita di tutti i giorni, al suo ruolo di Capopalestra, e di veder cambiare il mondo… pian piano si è ripresa. Le Forze del Bene le hanno creato una solida protezione nascondendo casa sua nel quartiere nord, poi io sono stato mandato a vivere con lei quando avevo più o meno dieci anni. Ha superato la depressione anche per aiutarmi… le sono molto riconoscente per questo. È meno forte di quanto voglia dare a vedere, ma come attrice è un disastro e si capisce facilmente.»
Con il senno di poi non riuscii a fare niente che non fosse dispiacermi per quello che mi aveva detto Gold: non ero ancora abbastanza matura per realizzare cosa volesse dire cadere in depressione, perdere i propri cari, mutare radicalmente stile di vita. Soprattutto quando si era adulti e non ragazzini come me, dall’animo e dal carattere ancora in via di formazione, malleabili. Io non mi sconvolgevo più di niente, ormai avevo perso la capacità di fare una vita senza Pokémon; in più le mie giornate erano così piene, in genere, che i pensieri più complessi e intimi che avevo formulato erano stati quelli con cui avevo risposto al sondaggio di qualche settimana prima. Ma neppure in quel momento, in teoria libero, che avevo grazie alla sospensione dell’“attività didattica”, riuscii a soffermarmi su quanto raccontato da Gold. Ero ancora in pensiero per Chiara e non la trovai in camera al mio ritorno dalla mensa.
“Dove l’ha portata?” era la domanda che continuavo a ripetermi. Uscii subito dalla stanza, non avendo alcun motivo per cui rimanerci dentro da sola; Altair mi faceva compagnia appollaiata sulla mia spalla. Inizialmente aveva passato il tempo a sonnecchiare, era piuttosto dormigliona, soprattutto in quei giorni invernali; poi si era svegliata del tutto notando che la sua cara Allenatrice era preoccupata per qualcosa - stupendo anche la stessa, che non si aspettava ancora tanta sensibilità da una pallina di volatile decorata con piume, cotone e ovatta.
«Altair, ci è scomparsa Chiara» borbottai a mezza voce. «Secondo te dove potrebbe essere?»
Ancora non mi era molto chiaro se i Pokémon capissero il linguaggio umano o no: i professori mi avevano sempre risposto che alcuni erano in grado di “tradurlo”, altri interpretavano quasi sempre correttamente, altri si basavano perlopiù sul linguaggio del corpo e sull’espressione umana… e non mancavano, ovviamente, Pokémon che non erano in grado di capire gli umani, se non quando ricevevano l’ordine di utilizzare una mossa; ma questi erano quasi sempre i selvatici, o quelli appena catturati. In genere un Pokémon, iniziando la sua crescita nella compagnia umana, imparava anche a relazionarsi con un mondo che era sempre stato tanto differente.
Incontrai Angelica e Melisse, che s’erano attardate nella mensa, e le accompagnai nella sala sotterranea per dare a Chiara ulteriore tempo per farsi nuovamente viva. Assistetti alla lotta tra Meganium e Serperior, poi fu il turno di Blaziken e Mismagius, Gardevoir e Pachirisu, infine Lapras e Honchkrow - i primi erano i Pokémon di Angie, gli altri quelli della mora, che vinse tre round su quattro, perdendo soltanto il terzo, anche se l’avevano tirata per le lunghe entrambe. Decisi di tornare in camera: era passata mezz’ora.
Finalmente trovai Chiara, ma di certo non mi aspettavo di vederle in volto un’espressione lacrimante, quasi stupita di essere stata sorpresa finalmente nella stanza, e poi mortificata. Sobbalzai: poche volte, forse mai, l’avevo vista in simili condizioni. «Chià! Che cosa è successo? Che hai?!»
Si morse il labbro inferiore per ricacciare indietro ulteriori lacrime, ma appena mi avvicinai e sedetti accanto a lei sul letto riprese a piangere: non singhiozzava rumorosamente ma le lacrime scendevano tanto copiose quanto silenziose, mentre di tanto in tanto lanciava qualche inevitabile gemito. Mi alzai un momento dopo essermi messa accanto a lei e le procurai subito un fazzoletto, che accettò ben volentieri. Passarono sgradevoli, interi minuti di silenzio, riempiti solo dal suo soffiarsi il naso mentre io la guardavo insistentemente, non riuscendo ad indovinare cosa la turbasse tanto da farla piangere.
Quando fu in grado di parlare, pur continuando a piangere, balbettò più volte il mio nome: «Non… nemmeno ci credevo, Ele… E-Eleonora… adesso non… non so cosa fare! Io, io…»
Aspettai impazientemente che riuscisse a dire altro, e appena lo fece capii che non ero assolutamente preparata ad una cosa del genere, il cui pensiero non mi aveva sfiorata neanche lontanamente. Avrei voluto avere del tempo in più per poter immaginare quella cosa, che arrivò troppo presto e mi colse impreparata. Iniziando a singhiozzare seriamente, con molta difficoltà Chiara disse: «Mi è arrivata una lettera da casa.»
Gelai sul colpo. Non sapevo dire se per la notizia in sé o perché solo a lei era arrivata una lettera, un segnale che a casa sua i genitori non volevano rassegnarsi all’aver dovuto dire addio alla propria unica figlia. Intimamente reagii molto male, perché oltre a mortificarmi per quello che era successo e sull’effetto prodotto su Chiara, dovetti frenare la domanda tagliente e cruda: “E a me non hanno scritto nulla?” Non fu il massimo, comunque, neanche il mio comportamento esteriore. Infatti non dissi nulla: bloccata dalla domanda che mi stava dando parecchio filo da torcere, nessuna parola di consolazione o domanda gentile riuscì ad essere formulata dalla mia mente.
L’irritazione per essere stata totalmente ignorata dai miei genitori lasciò presto il posto alla preoccupazione: mi chiesi subito se non fosse successo loro qualcosa. In caso di risposta affermativa, sarei corsa in presidenza e avrei allertato Aristide, o perlomeno gli avrei chiesto di fare qualcosa, controllare; se la risposta fosse stata di no, non mi negai la possibilità di arrabbiarmi. Soprattutto a causa dell’invidia irrefrenabile nei confronti di Chiara. “Cos’è, i miei sono contenti di essersi liberati di me? Va bene, con loro non ho mai avuto un rapporto idilliaco, il mio carattere è sempre stato difficile… nei loro confronti sono sempre stata piuttosto ribelle, così come con altri tipi di autorità… ma sono la loro figlia, tra l’altro la sola che hanno! È mai possibile? Perché Chiara è stata contattata dai suoi genitori e io non dai miei? I mezzi… il mezzo è stata la lettera, e…”
Arrivò così la prima domanda che riuscii a porre a Chiara. «Come hanno fatto a fartela arrivare?»
Lei, sempre con una certa difficoltà, mi spiegò che alcuni agenti delle Forze del Bene di ronda nella città, anche per controllare - come avevano già fatto altre volte - lo stato delle barriere che mesi prima erano state vulnerabili, erano stati individuati dai suoi genitori e riconosciuti, perché un paio di loro erano gli stessi che avevano portato a casa di Chiara la micidiale notizia della sua partenza improvvisa. Così, dopo una terribile scenata, i genitori erano stati messi al corrente delle buone condizioni della propria figlia - non che quegli agenti sapessero di chi si stesse parlando, comunque - e che potevano farle arrivare qualcosa da parte loro.
Frettolosamente e di getto, in preda all’ansia e al sollievo di sapere che Chiara stava bene, ma anche alla paura, avevano buttato giù una lettera per lei. Gli agenti delle Forze del Bene avevano contattato Bianca, sapendo che lei era stata sicuramente a contatto con la ragazzina in questione, e le avevano chiesto di portare il messaggio alla loro figlia: tutto questo era avvenuto il giorno prima. La mattina stessa, invece, Bianca era venuta all’Accademia.
Le stavo per chiedere cosa le avessero scritto, ma lei mi anticipò. Non mi disse niente: tirò fuori dalla tasca sul retro dei pantaloni un paio di fogli tutti spiegazzati, che mi descrisse come la copia l’uno della missiva dei genitori, l’altro della sua sentita, confusa risposta. «Non sapevo cosa dire. Sono stata tutta la mattinata a rileggere la loro lettera cercando di trovare qualcosa da scrivere… ma non ci riuscivo! Ho pianto per la metà del tempo e mi sono vergognata un sacco… alla fine, tre quarti della risposta l’avranno scritti Aristide e Bianca! Penso di aver soltanto firmato e detto “Cari mamma e papà”, mi sento uno schifo!»
Ascoltando a metà le sue parole, iniziai a leggere, non ad alta voce, la lettera dei suoi genitori, ancora senza capire perché i miei non mi avessero voluto riservare la stessa attenzione.

“Chiara, stella nostra!
Non abbiamo creduto ai nostri occhi nell’incontrare gli stessi uomini che ci portarono la terribile notizia del tuo addio, tanto improvviso quanto inaspettato. Ci è stato detto così poco di te, è dall’inizio di settembre che viviamo nell’angoscia che ti possa essere successo qualcosa. Non abbiamo alcuna idea di cosa tu stia facendo, di dove tu sia, se a Sinnoh o oltre l’oceano… la nostra unica speranza era che stessi bene, ovunque fossi. Ci sono ancora migliaia di domande che ci poniamo e a cui ci è stata rifiutata una risposta, ma gli uomini a cui abbiamo parlato si sono dimostrati impossibili da convincere: ormai riteniamo già una fortuna che ci sia stato concesso il lusso di poterti inviare un messaggio, sperando che ti venga recapitato e che ci sia anche una tua risposta.
Uno dei dubbi ai quali, probabilmente, non ci verrà mai data una spiegazione, è questo: perché te ne sei andata? Cosa ti ha spinta ad abbandonare la tua famiglia e la nostra casa? Ad amici di famiglia e parenti abbiamo detto ciò che ci è stato riferito, ovvero che sei in un’accademia particolare, di giovani talenti o qualcosa di simile. Ma noi non abbiamo idea di dove tu possa essere mandata, anche perché, francamente, non hai mostrato una particolare attitudine per qualche tipo d’arte, a meno che tu non sia stata molto abile nel nascondercelo! Pure questo, però, ci sembra improbabile e odora di falso. Ti conosciamo, Chiara, e non sei proprio il tipo: allora, se ci può essere rivelata una minima parte del vero, puoi concenderci di saperla? Le persone con cui abbiamo parlato non si sono mostrate disponibili, e con i loro comportamenti ci hanno fatto capire che, se non saremo il più docili possibile nei loro confronti, l’equilibrio della situazione sarà irrimediabilmente rovinato.
Per il tuo bene, Chiara, ci sottomettiamo e ci accontentiamo di quel poco che due genitori possono avere, ma che a quanto pare è un dono prezioso che ci è stato fatto. La questione è oltremodo sospetta e questo ci preoccupa, ma se tu stai bene siamo disposti a rinunciare a una battaglia già persa. Non possiamo fare a meno di chiederci chi siano queste persone, cosa vogliano da te, quale sia la tua nuova occupazione… stai studiando? Ti dedichi a delle arti, al tuo talento sconosciuto? Dicci qualcosa, Chiara; e se proprio non puoi, almeno un saluto, una rassicurazione per i tuoi genitori in pena e terrorizzati al pensiero che la propria bambina possa essere in una situazione difficile, o addirittura in pericolo. I nostri timori sono tanti e solo una tua eventuale risposta può smettere di farci struggere fino alla follia. Ti amiamo, Chiara; ti amiamo anche se ci hai lasciati, qualunque sia la ragione, se esterna o interna alla nostra famiglia.”

E poi la sua risposta - o meglio, quella di Aristide e Bianca per suo conto:

“Cari mamma e papà,
è molto difficile rispondere a questa lettera. Sentirvi mi ha commossa e sconvolta, perché credevo che i rapporti tra di noi fossero inevitabilmente andati perduti. La colpa, e su questo dovete starne certi, non è né vostra né mia: una forza esterna alla nostra famiglia, di cui non ho mai avuto ragione di lamentarmi seriamente, mi ha chiesto di lasciare la mia città e tutta la vecchia routine.
Mi mancate moltissimo. I primi tempi è stata davvero dura. Non posso dirvi dove sono, né con chi, né cosa sto facendo, ed è davvero triste non potervi rendere partecipi: posso solo lontanamente immaginare quale sia il vostro stato d’animo nel non sapere niente della corrente situazione di vostra figlia. Ma vi posso assicurare che sto bene, sono felice e a mio agio: inizialmente, l’ho detto, è stato difficile ambientarmi in questo nuovo posto, una realtà del tutto diversa da quella che per tredici anni ho vissuto a Nevepoli. Personalmente, sono contenta che abbiate avuto modo di mettervi in contatto con me, perché probabilmente se l’avessi chiesto io ai miei superiori mi sarebbe stata negata la possibilità; ma sono molto contenta di potervi rispondere e tranquillizzare, o perlomeno sperare di farlo.
Non ho idea di cos’altro possa dirvi, avendo poco e nulla di cui parlare in libertà. La perdita della mia vecchia realtà, la casa, la città e soprattutto voi, la mia famiglia, i primi tempi è stata causa di un gigantesco disagio. La nostalgia era terribile. Ma ho fatto nuove conoscenze, con persone diverse tra loro ma indistintamente davvero interessanti. Il luogo in cui mi trovo ha lati positivi e negativi: tra i primi, spicca la sicurezza e l’efficienza di chi ci lavora - io sono una specie di studente, ora. Tra i secondi, indubbiamente, c’è l’impossibilità a riprendere veri contatti con il passato, per quanto uno ne abbia bisogno.
Mi spiace per quello che avete dovuto fare, chissà quanti non vi hanno creduto sul mio conto! Ora però potete rassicurare quanti avete trovato troppo increduli mostrando questa mia lettera, ne avete l’autorizzazione. La firmo con la totale consapevolezza delle mie azioni e d’accordo con i miei superiori, che mi hanno aiutata a stenderla e sono stati un freno necessario, per evitare che combinassi qualche guaio dei miei. Ancora non sono molto esperta, ma i passi in avanti fatti in soli quattro mesi hanno stupito tutti, me in primis.
Vi voglio bene,
Chiara”

Ripiegai i fogli stringendo i denti e trattenendo a fatica pensieri e lamentele che avrei voluto rovesciare fuori di me; ma, poiché volevo a Chiara un bene infinito, mi costrinsi a non notare ad alta voce che non ero stata nominata nemmeno una volta, come se i nostri genitori non si fossero detti nulla a proposito di noi. Avevo le sopracciglia corrucciate ed evitavo di guardare la mia amica, certa che se l’avessi fatto l’avrei incenerita con gli occhi, lucidi di invidia e turbati da molte emozioni e altrettante domande.
«La tua è una buona risposta» dissi meccanicamente, «ma è palese che non sia stata tu a scriverla.»
«Io… eh, ma almeno… ho letto e firmato, mi va bene quello che hanno detto Aristide e Bianca.» Si era calmata, almeno momentaneamente. «Dovrebbero credermi… o almeno spero. La firma è mia… ho usato la stessa grafia di mesi fa, dovrebbero riconoscerla, spero» ripeté. «Non lo so. È gia qualcosa.»
«Scusa se te lo chiedo, ma come mai ti sei turbata così tanto?»
Mi stupii del fatto che non avesse colto la freddezza nella mia voce. «Perché sono combattuta. Non so se tornare a casa o continuare a stare qui.»
«Stai scherzando?»
«No… cioè, ecco…» balbettò. «Da una parte vorrei davvero tornare a casa. Per l’amor del cielo, siamo in guerra! Rischio la vita ogni giorno essendo nelle Forze del Bene, se fossimo state prese dal Nemico non avremmo corso il pericolo di morire in ogni momento, non essendo contrapposte a dei pazzi psicopatici che torturano ragazzini e Pokémon, ragazzini che potremmo essere noi, un giorno… Dall’altra parte mi sono troppo legata a questa realtà per desiderare di andarmene senza grandi ripensamenti. La guerra… sì, va bene, cioè, va male…! Ma tu come me, Eleonora, sai bene quanto ci siamo affezionate ai Pokémon, ai nostri nuovi amici, umani e non… i miglioramenti fatti, le cose che abbiamo perso, le rinunce, sicuramente da qualche punto di vista siamo peggiorate per adattarci al nuovo mondo in cui siamo finite… ma è più forte di me: non riesco a voler davvero andarmene.»
Lasciai passare qualche momento di silenzio. Ogni cosa di ciò che disse non mi stupì, perché erano tutti pensieri che a mio tempo avevo già formulato ponendomi la questione: “Se potessi tornare a casa, abbandonerei il mondo dei Pokémon in cui mi sto trovando così bene?” La situazione era più complessa di quanto sembrasse, perché da un lato avevamo il nido familiare, dall’altro la guerra che metteva in dubbio la nostra esistenza futura.
Dissi a Chiara: «Penso che non avrebbe senso tornare a casa. Possono anche farci dimenticare di aver posseduto dei Pokémon, dell’esistenza di una società a sé stante negli stessi confini del nostro pianeta… ma chi ci dice che prima o poi non rivivremo qualcosa di simile a quanto successo quel venerdì, primo di settembre? Se il Nemico ci volesse riprovare e tentasse di rapirci, con lo stesso trucchetto o meno, sta’ sicura che ce la farà. Non voglio rivivere più d’una volta quanto ci è successo. Sto bene così; io rimango, non so te… ma spero non te ne andrai.»
«Eleonora…» mormorò Chiara, di nuovo con le lacrime agli occhi.
La guardai con severità, distanza e freddezza: l’accusavo di essere ancora nei cuori dei suoi genitori, che tanto ardentemente avevano voluto ricontattarla, mentre i miei nemmeno si erano interessati a me. Non trovavo una spiegazione logica a questo: le nostre famiglie erano in ottimi rapporti, si sentivano abitualmente. Possibile che i miei genitori mi avessero abbandonata a me stessa, o che non si fossero detti niente con quelli di Chiara?
«Mio padre e mia madre…» sussurrai, alzandomi in piedi e prendendo la cintura con le Poké Ball. «Loro non mi hanno scritto niente. Quale sia il motivo, non lo so, e visto che mi vogliono lasciare con questo dubbio… mi tocca rassegnarmi a non scoprirlo mai, credo.» La mia voce s’incrinò; tirai su col naso e aspettai qualche momento prima di riprendere a parlare. «Ma… ma non è perché i miei genitori non mi hanno contattata che voglio restare, di questo sono sicura. Continuerò a far parte di quest’Accademia, a stare dentro la campana di vetro e poi nel mezzo della guerra, perché… è quello che voglio fare. Sono solo una ragazzina, ma a quanto pare è arrivato il momento di prendere queste decisioni da sola… forse troppo presto…» sbuffai con un sorriso amareggiato.
Non so se quelle parole tanto intime e pesanti le immaginai soltanto o se le dissi davvero, trovando chissà dove la forza per pronunciarle. Ero stata urtata violentemente da quel fatto e, mi resi conto, l’ultima cosa che volevo in quel momento era rimanere nella stessa stanza della ragazza i cui genitori si erano fatti sentire. Lì per lì non mi sentii in colpa; in seguito ci ripensai, ma in quel momento, per me, esistevo soltanto io e le mie emozioni. Una botta d’egocentrismo forse non mi avrebbe fatto male, o forse sì, ma fu una delle poche che ebbi a quei tempi.
Chiara mi chiese: «Perché ti sei alzata?»
Scrollai le spalle. «Vado a farmi un giro.»
Uscii dalla stanza lasciandola con un palmo di naso. Non sapevo nemmeno io dove sarei andata, né a fare cosa, chi avrei voluto vedere in quel momento. L’unica cosa che mi avrebbe interessata sarebbe stata una lettera dei miei genitori a cui rispondere con la felicità nell’animo per saperli ancora in buone condizioni.
“Invece pare che il brutto colpo di essere stati separati dalla propria figlia sia passato velocemente, eh?” Tirai di nuovo su col naso e mi passai il dorso di una mano sugli occhi.
Incontrai Daniel e non potei fare a meno di parlargli di cosa era successo. Ci rimase sinceramente male ma non seppe darmi alcuna risposta, non riuscì ad ipotizzare una ragione per cui i miei genitori non mi avessero scritto qualcosa, nonostante forse un estraneo alla situazione potesse ragionare lucidamente e trovare motivazioni che io, da offesa, non avevo lontanamente immaginato.
Ma non m’importò nulla della sua incapacità nel consolarmi, non era davvero quello che volevo. Gli dissi che stavo male e lui mi abbracciò subito per confortarmi. Quel piccolo gesto, per lui forse, sicuramente, automatico, fu per me di grande valore. Ricambiai con forza la sua stretta gentile e lo ringraziai per avermi ascoltata; lui, sorridendo, mi invitò a parlargli di qualsiasi cosa mi stesse turbando, se ne avevo voglia, perché sarebbe stato un piacere cercare di aiutarmi.
Avrei voluto davvero parlargli più approfonditamente, ma non ci riuscii. Era meglio lasciar perdere, quella volta, e far finta che non fosse successo nulla, come se questo potesse essere di qualche utilità. Avrei potuto parlare con Bianca o Aristide, ma non lo feci perché mi sentii ostile nei confronti di entrambi, così come sentii di starlo diventando anche al pensiero dei miei genitori. Non sapevo cosa mi stesse succedendo: la risposta, che trovai solo in seguito, era che la mia corazza si stava sviluppando più velocemente e che, grazie ad essa, avrei potuto pensare con meno ansia e paura ai problemi che si sarebbero posti in seguito, perché sarei stata protetta da me stessa.
Perché Bianca era caduta in depressione, come tanti altri, a causa della guerra? Perché contraddicevo il mio desiderio di ricevere notizie da casa? Perché in quel nuovo mondo mi sentivo così a mio agio? Per quali motivi i miei genitori non avevano cercato un contatto con me? Le risposte a tutte queste domande le trovai in seguito e spesso mi toccò anche aspettare mesi, quasi anni interi, per cancellare quei vecchi interrogativi dai miei pensieri e concentrarmi su quelli nuovi.
  
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