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Autore: Nymeria90    12/10/2015    4 recensioni
La mia storia è una sorta di autobiografia di Hawke con qualche appunto di Varric.
L'intenzione è di ripercorrere tutta la sua vita: dal suo primo ricordo fino agli eventi di DA Inquisition.
" [...] Hawke tiene a te tanto quanto tu tieni a lei. Non ti ha dimenticato. Ma so che le parole non ti convinceranno, non le mie, almeno. Credo sia arrivato il momento che tu riceva la tua eredità.
Hawke me l’affidò prima che partisse per la fortezza dei Custodi Grigi, nel lontano Nord.[...] Mi ha affidato quest’oggetto perché io te lo consegnassi, cito testualmente “al momento opportuno”. Quel momento, secondo la mia modesta opinione, è arrivato. [...] L'eredità di cui parlo è il suo diario."
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hawke, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Hawke
 
Mia madre partorì due bei gemelli, un maschio e una femmina, in una calda giornata d’estate. Ricordo le braccia di mio padre strette attorno al mio corpo mentre sedevamo, in attesa di qualcosa che io non comprendevo, davanti all’uscio di casa.
Dall’interno giungevano i gemiti di mia madre e le parole di incoraggiamento della levatrice del villaggio.
Sentivo il cuore di mio padre battere frenetico contro la mia schiena e, sbirciando il suo viso, notai quanto fosse pallido e preoccupato.
O forse sono ricordi che appartengono solo alla mia immaginazione.
Io ero troppo piccola per accorgermi della sua paura. So solo che mi stringeva ed era la sensazione più bella del mondo.
Non m’importava del dolore di mia madre o di quello che succedeva al di là della porta chiusa. In quel momento lui era solo mio ed era l’unica cosa che desideravo.
Non provai mai più una simile felicità.
La nascita di Bethany e Carver cambiò la mia vita quanto l’aveva fatto il manifestarsi dei miei poteri magici: fu un dono entusiasmante e inaspettato ma anche una di fastidiosa intrusione.
S’impossessarono di tutto ciò che era stato mio.
Per la prima volta divenni gelosa di mia madre e cominciai a desiderare che le attenzioni che riservava loro fossero rivolte anche a me. Tuttavia era una gelosia passeggera che non influenzava più di tanto i miei sentimenti per i gemelli. Ogni volta che mia madre si ricordava di me, per farmi fare tutte quelle cose noiose che i bambini detestano, desideravo che uno dei due iniziasse a piangere cosicché potesse dimenticarsi nuovamente di me.
Con mio padre fu diverso.
Non lo ammise mai e se ora fosse qui a leggere le mie parole sono certa che si arrabbierebbe, ma sono altrettanto sicura che la nascita di Carver rappresentò per lui il momento di massima felicità nella sua vita.
Era uno uomo fuori dall’ordinario e nel crescerci non fece mai distinzione tra i suoi figli.
Ci amava per come eravamo.
Ma con Carver ebbe fin da subito una complicità che io e Bethany potevamo solo osservare.
Anni fa Carver mi rinfacciò tutte quelle ore che io Beth trascorrevamo con nostro padre, ad imparare come gestire i nostri poteri. Ne era geloso: sentiva di essere un intruso in una famiglia di maghi. In parte aveva ragione: io Beth passavamo con papà intere giornate, spesso interminabili. Ma non erano momenti felici.
Noi eravamo motivo di dolore e preoccupazione per i nostri genitori. Abbiamo reso le loro vite più complicate di quanto già non fossero. Non è vittimismo, ma semplice realismo.
Eravamo pericolose e in pericolo, e papà sapeva bene cosa significasse essere un mago: una maledetta benedizione, così chiamava la magia.
Il tempo trascorso con noi era dedicato alla salvaguardia delle nostre vite.
Con Carver era diverso. L’unico figlio maschio, l’unico che non rischiava di trasformarsi in un mostro davanti ai suoi occhi: insieme erano spensierati e felici.
Ogni tanto, raramente a sentire Carver ma troppo spesso per i miei gusti, partivano per le loro giornate “tra maschi” e mi lasciavano con Beth e la mamma, a cucinare, pregare e cucire.
Ero l’intrusa: troppo femmina per stare coi maschi e troppo maschiaccio per avere un posto nel complicato universo femminile.
E così, anche se avevo dei fratelli con cui condividere l’infanzia, rimasi sempre la piccola eremita della collina che osservava da lontano la vita degli altri.
Mi misi in disparte a guardare l’evolversi di quella famiglia che per molti anni non considerai mia.
Da bambini, finché Beth non sviluppò i suoi poteri, i gemelli erano inseparabili. E anche in seguito il legame che li univa era, ed è tuttora, per me incomprensibile.
Il mio rapporto con Carver fu, fin dal principio, di rivalità.
Io la primogenita, lui l’unico maschio: ci combattemmo come due galli in un pollaio. Il premio in palio era l’affetto di papà.
Era impossibile non andare d’accordo con Beth. Lei era la persona più dolce e altruista che io abbia mai conosciuto. Ma l’unica cosa che avevamo in comune era la magia e la odiava.
Io rappresentavo tutto ciò che lei temeva: non amava stare sola con me, la mettevo a disagio. Invece con Carver si sentiva normale. Con lui poteva dimenticare che dietro il Velo del mondo erano in agguato i mostri.
Anche lei, come papà, riversò su di me quel rigetto che avevano nei confronti di loro stessi.
Il loro rifugio era la normalità: la mamma e Carver erano il loro porto sicuro.
Io ero la tempesta.
E lo fui. Lo fui davvero.
 
Varric
 
Chi avrebbe mai pensato, guardando il sorriso di Hawke, che in lei si celasse tanta malinconia?
Magia: la esibiva come un gioiello. Non avevo mai incontrato una maga così fiera della sua condizione. Nemmeno il biondino ne era altrettanto orgoglioso.
Arroganza, strafottenza, sarcasmo: mi sono fatto ingannare come uno sciocco qualunque.
Era tutto fumo quello che ci gettava negli occhi.
Non riuscivo a spiegarmi come Fenris riuscisse non solo a tollerarla, ma persino ad amarla.
Ora comprendo: è stata la prima persona, e probabilmente l’unica, a vedere ciò che si celava dietro l’armatura scintillante della Campionessa di Kirkwall.
E ciò che ha visto era il riflesso di se stesso.
 
Hawke
 
Dopo la nascita dei gemelli mi isolai, convinta che mamma e papà preferissero trascorrere il tempo con i nuovi arrivati piuttosto che con me.
Ora comprendo le difficoltà che dovettero affrontare in quel periodo e mi vergogno per aver reso la loro vita ancora più complicata.
Non eravamo ricchi, non avevamo amici o parenti che ci aiutassero e il Ferelden è una terra dura, inospitale.
Per una famiglia umile come la nostra mantenere tre figli significava fare enormi sacrifici; ma la povertà era il minore dei nostri problemi: eravamo dei fuorilegge sempre braccati, costretti a vivere nascosti.
Mamma odiava quella vita, ma per amor nostro, e di papà, si costrinse a mostrarsi felice. Non la vidi mai vacillare, nemmeno quando giunse notizia che i suoi genitori erano morti.
Era una donna forte e, nonostante le nostre divergenze, ho sempre ammirato il suo coraggio.
All’epoca, tuttavia, ero solo una bambina e queste cose non ero in grado di capirle. L’unica cosa che sapevo era che quei fagottini urlanti mi avevano tolto tutto, anche il sonno: li detestavo.
I miei poteri si fecero instabili e cominciai a perdere il controllo sempre più spesso.
Inconsciamente credo che lo facessi apposta: sapevo che era il solo modo per farmi notare.
In otto anni fummo costretti a trasferirci almeno una volta all’anno. Ero una piccola selvaggia piena di cattiveria.
Il nostro arrivo a Lothering coincise con uno dei periodi più difficili della nostra vita.
I gemelli avevano circa otto anni e, per il grande sollievo dei miei genitori, non mostravano segni di poteri magici. Erano normali e questo non faceva che acuire la mia solitudine: andavano nella piccola scuola del villaggio, frequentavano la chiesa, avevano amici e compagni di gioco.
Io avevo solo papà.
Un tempo mi sarebbe bastato. Ma avevo dodici anni e nessun amico: quella vita solitaria iniziava a starmi stretta come mai prima.
La verità è che provavo un’invidia bruciante per i gemelli.
Invidiavo le loro giornate passate al villaggio, la complicità con mia madre, i sorrisi sollevati che mio padre non riusciva a nascondere quando li guardava giocare. E, forse più di ogni altra cosa, invidiavo il legame che avevano.
Invidia: un sentimento che mai avrei pensato di provare e che invece mi divorava dall’interno.
Non giunsi mai a rinnegare i miei poteri magici: li amavo troppo. Al contrario cominciai a chiedermi perché, io che ero così superiore a loro, ero costretta a vivere nascosta.
Le ore che trascorrevo con mio padre per imparare a gestire la magia persero l’incanto del passato e divennero solo una sequela infinita di divieti e ammonizioni.
“La magia deve servire l’uomo, non dominarlo”. Quante volte mi fu ripetuta quella frase?
Non ne ho mai messo in dubbio il contenuto, ma la forma … inconsciamente quel servilismo ecclesiastico già mi faceva infuriare.
“Servire”: detestai quella parola non appena la sentii.
Fu così che, come ogni adolescente che si rispetti, cominciai a ribellarmi agli insegnamenti di mio padre.
Con lui mi comportavo da diligente apprendista ma quando rimanevo sola, libera di errare tra i boschi, cominciai a sperimentare, spingendomi oltre confini che ora so che non avrei mai dovuto varcare.
Ma ero giovane e potente, talmente potente che non riuscivo a capacitarmi del perché fossi tanto infelice: fu allora che compresi che, se volevo qualcosa, dovevo prendermelo.
Fu durante uno dei miei esperimenti con la magia (se non sbaglio stavo cercando di camminare sull’acqua) che feci l’incontro più strano della mia vita.
Ero in piedi sul bordo di un piccolo stagno che rifletteva placido le fronde degli alberi e pensavo a come creare una piccola barriera tra i miei piedi e la superficie dell’acqua, abbastanza forte da sostenere il mio peso ma non tale da mutare la consistenza dell’acqua.
Il primo tentativo fallì e, mentre imprecavo scuotendo i piedi zuppi, notai una persona che mi fissava, dall’altro lato dello stagno.
Per un istante pensai fosse Bethany, poi mi accorsi che la ragazzina gracile che mi osservava da lontano era più vecchia di mia sorella e decisamente più alta.
I nostri sguardi si incrociarono: aveva gli occhi gialli, come quelli di un gatto, ne fui immediatamente conquistata.
Se fu turbata dal fatto che l’avessi scoperta non lo diede a vedere. L’espressione del viso solenne rimase immutata e, dopo qualche istante passato a fissarci, si alzò, venendomi incontro.
Anche il suo modo di camminare sembrava quello di un gatto. I piedi nudi non facevano alcun rumore sul terreno umido del bosco.
Vestiva con pelli di animale e sembrava bisognosa di un bel bagno caldo: i capelli neri come le ali di un corvo erano incrostati di fango ed era coperta di polvere e terriccio.
Eppure, nonostante tutto, la trovai bellissima.
Era un’abitante della foresta e la osservai avvicinarsi con lo stesso stupore che avrei provato se, al suo posto, ci fosse stato un cervo o una lepre.
Non osavo muovermi o respirare per paura che, al primo movimento brusco, scappasse via.
Quando fu abbastanza vicina da toccarmi sorrise.
Da quel momento diventammo inseparabili.
 
Varric
 
Perché non sono sorpreso nel leggere queste parole?
Morrigan è legata all’Eroe del Ferelden e ha aiutato l’Inquisitrice a sconfiggere Corypehus. Mi chiedevo come mai non avesse mai avuto nulla a che fare con Hawke.
Ecco la risposta alla mia domanda.
Mi domando che cos’altro abbia in serbo per noi quella strega. Noi ci siamo sempre preoccupati di Flemeth, ma il mio intuito mi suggerisce che la figlia è molto più pericolosa.
  
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