A Irene, perché
è il
suo compleanno e io non posso ancora essere il suo regalo.
Non
so che altro scrivere, penso solo a quanto sarebbe bello sprofondare
tra le tue
braccia. Come
si fa a spiegare a una persona che hai bisogno di lei?
Se c’è una cosa
che Louis odia, sono le sensazioni e i
concetti in generali a cui non riesce a dare una definizione precisa.
Odia
quella sensazione di ignoranza che lo pervade quando un termine gli
rimane
incastrato su per la gola e tra i neuroni nel cervello, e non riesce ad
arrivare
alle corde vocali, che vogliono solo liberarsi da quella fastidiosa
irritazione.
Eppure è su quell’irritante senso di vaga
ignoranza che Louis preferisce
concentrarsi, piuttosto che le vere emozioni a cui non riesce dare un
nome e
che occupano il suo cuore in quella fredda mattina di gennaio, troppo
fredda per
la sua giacca di jeans, nonostante sia imbottita. Ha voluto metterla lo
stesso,
sebbene l’inconscia – o forse no –
consapevolezza del freddo che l’avrebbe di
certo investito.
Perciò si stringe ancora di più in essa, nel
tentativo disperato ma
meccanico di trovare un minimo di conforto nel calore. Non lo trova,
è il suo
cuore ad essere congelato. Non si muove di là, rimane fermo,
sulla panchina del
binario 9. I treni corrono spediti, chi in partenza e chi in arrivo; le
persone
partono, si ritrovano, si abbracciano. Louis invece rimane
là, fermo, un solo,
piccolo pensiero che gli s’insinua nella mente. Lo ricaccia
subito.
Fa freddo. E non sarebbe dovuta
finire così.
Il primo pensiero dei genitori di
Louis era stato che il
loro primogenito fosse autistico. Lo portarono da mille dottori, mille
specialisti diversi, quasi non volessero rassegnarsi al fatto che loro
figlio
non fosse malato: era semplicemente un bambino silenzioso, schivo e
forse
troppo intelligente, per avere cinque anni.
Non erano genitori
che ricercavano l’unicità, il genio, la
diversità: volevano solo un bambino
normale, che si sporcasse di fango giocando con gli altri bambini nel
parco e
che piangesse per avere più giocattoli. Erano persone
meramente ordinarie,
Johanna e Mark, e non si rassegnarono mai a quello che era il loro
unico
figlio, ovvero quel bambino strano che invece di giocare a palla si
esercitava
a leggere i cartelli di divieti del parco e i giornali dei vecchi
signori che
ormai si erano abituati a quel bambino curioso dagli occhi azzurri. Che
non
chiedeva giocattoli, ma libri, sin da quando aveva sei anni. Libri di
narrativa, s’intende, non credete che fosse chissà
quale genio. A otto anni
ebbe il suo primo romanzo da grande e
forse se glielo chiedete, vi dirà che è ancora
lì, conservato come una reliquia
nella sua libreria stracolma ma pulita, manco fosse un santuario. Per
lui, comunque,
un po’ lo è.
A nove anni, quando la nascita di Lottie aveva inaugurato
l’entrata
della famiglia Tomlinson nel mercato delle bambole e dei vestitini da
principessa, Louis aveva capito. Forse non era un genio, ma era
precoce. Louis
capiva. Che la madre preferiva occuparsi dei capricci di Lottie che
accompagnarlo in biblioteca oppure comprarle la nuova e richiestissima
bambola
piuttosto che sentirlo parlare dell’ultimo libro che aveva
letto. Persino suo
padre, sfatando il mito dei papà che desiderano tanto un
figlio maschio,
preferiva Charlotte a lui, e non era solo perché era
l’ultima arrivata. Louis
era cosciente, quando l’avevano portato da mille specialisti,
quasi
implorandoli di dire loro che in lui c’era qualcosa di
sbagliato. Aveva
cominciato a confrontare i propri comportamenti con quelli di Lottie, e
aveva
capito. Capito che non andava bene, che se i suoi genitori non lo
amavano come
dovevano era solo colpa sua. Perciò, aveva appoggiato Viaggio al centro della terra sulla
scrivania, piegando l’angolo
della pagina a cui aveva deciso, a malincuore, di fermarsi. Aveva
recuperato un
vecchio pallone dal giardino – chissà di chi era
poi – e si era avvicinato al
padre, seduto a lavorare nel suo studio, cercando di assumere la
più speranzosa
delle espressioni. Al solo vederlo, Mark si era illuminato. Anzi, forse
gli
erano quasi venute le lacrime agli occhi, ripensandoci.
L’aveva subito portato
in giardino per giocare. Ironia della sorte, Louis aveva anche una
sorta di
talento naturale.
Quindi, quel ragazzino che aveva
avuto la grande sfortuna di nascere senza maschera alcuna, dalla mente
sveglia
e curiosa, disinibita alle convenzioni e interessata solo a essere
ciò che
voleva essere, aveva iniziato a mentire. Per l’amore dei suoi
genitori.
Aveva continuato a mentire per anni.
Andava in biblioteca dicendo i suoi di avere un appuntamento con amici
che non
aveva e che non sentiva il bisogno di avere. Leggeva fino a tarda
notte, grazie
a una torcia che aveva comprato con i soldi della paghetta. Aveva
cominciato a
scrivere. Scriveva, scriveva, riempiva pagine di frustrazione e odio.
Perché,
sì, aveva imparato a odiarli, quei genitori che lo
costringevano a essere ciò
che non era. Forse costringere non è il termine adatto,
perché in realtà era
tutta opera di Louis. Forse quell’odio, cominciava a provarlo
più per se
stesso.
A scuola non parlava con nessuno, sebbene qualche ragazzina cercasse di
avvicinarlo e qualche ragazzo di invitarlo a giocare a calcio nel
campetto del
paese nel pomeriggio. Semplicemente rimaneva in silenzio fingendo di
essere
l’autista che a volte avrebbe voluto essere davvero, oppure
rifiutava
cortesemente. Tutto si poteva di Johanna e Mark, ma non che avessero
tirato su
un maleducato. O forse è meglio dire cinque maleducati, di
cui Louis
rappresentava l’unico motivo di un plurale maschile, vista la
schiacciante
maggioranza femminile di quattro a uno. Charlotte ormai era una
scocciante
ragazzina di sette anni, affiancata da Fizzie, con i suoi timidi cinque
e da
Phoebe e Daisy, le
gemelle ancora
intrappolate nell’età in cui ogni cosa
è buona per strozzarsi. Forse ci si
aspettava che tutte queste piccole principesse urlanti oscurassero la
faccenda
Louis. E invece no, affatto. Mark era sempre puntuale
nell’accompagnarlo alla
scuola di calcio che aveva iniziato a frequentare neanche un mese dopo
quella
fatidica partita nel giardino di casa loro. Johanna non mancava nemmeno
una partita
ed era sempre pronta ad accogliere qualche compagnuccio di squadra che
Louis
portava a casa per non destare sospetti. Perché, a dirla
tutta, lui le qualità
per essere socievole le aveva tutte: aveva sempre la battuta pronta,
era
sarcastico, gentile e altruista. Il problema è che non aveva
mai trovato
nessuno per cui valesse la pena.
Alle superiori, quando stava per perdere ogni speranza e stava per
cedere alle richieste del padre di entrare anche nella squadra di
calcio della
scuola (“Ma papà, sono
già capitano della
squadra locale!” “A
scuola c’è più
possibilità di farsi notare da uno scout, fidati di
papà, Louis.”), aveva
incontrato Zayn.
Facendo riferimento alla piramide sociale che spesso si
vede
rappresentata nei film americani per teenager, Zayn era lo sfigato. Non
lo
sfigato classico, non fraintendetemi. Stava sempre da solo, mangiava
seduto sul
bancone della signora della mensa e chiacchierava con lei, per farle
compagnia,
e lei gli dava sempre la fetta di torta più grossa e lo
copriva quando usciva
fuori a fumare. Era il preferito di qualsiasi professore nella scuola,
sebbene
nessuna delle due parti lo avrebbe mai ammesso, nemmeno sotto tortura.
Sempre preparato,
sveglio e acuto: Zayn rappresentava la tenue luce di speranza nel
lavoro, a parer
di Louis, spesso degradante di quei poveri insegnanti. Vestiva sempre
di nero e
non faceva mai educazione fisica, anche se nessuno sapeva il
perché: c’erano
molte voci che giravano sul suo conto, ovviamente, e Louis mentirebbe
se
dicesse di non aver posto l’orecchio ad alcune di esse.
C’era chi diceva che
suo padre fosse un malavitoso, che aveva pagato la scuola per
l’esonero o che
avesse addirittura corrotto i medici, e che anche i suoi buoni voti
fossero
dovuti a questo. Louis però l’aveva visto in
azione, dato che condividevano
parecchie lezioni, e poteva affermare che la voce era campata in aria:
probabilmente, solo il delirio di qualche secchiona delusa di non
essere al
primo posto nel cuore della prof di matematica, una di quelle che
studiavano e
basta, senza capir nulla e che dimostravano la propria
stupidità fin troppo
gratuitamente, per i gusti di Louis. La peggior specie, dopo le stupide
che
credevano fosse figo essere stupide.
Un’altra voce
diceva che si drogasse, per questo era così magro e aveva
sempre profonde
occhiaie a circondargli gli occhi dorati. Questa Louis
l’aveva subito ignorata,
riconoscendo in essa il seme profondo della gelosia: Zayn era bello,
troppo
bello. L’aria orientale conferitagli dalla forma degli occhi
e dalla pelle
ambrata ben si sposava con la sua aria da cattivo ragazzo, con tanto di
ciuffo
biondo tra i capelli neri e orecchino dorato. Aveva anche un bel po’ di
tatuaggi, lasciati scoperti da
maglie a maniche corte e leggermente scollate e Louis avrebbe scommesso
che
aveva anche il torace pieno.
L’unica voce che poteva dirsi fondata, anche se non
confermata, era
quella che riguardava la sua sessualità. Si diceva
– Louis l’aveva sentito
negli spogliatoi prima dei provini per la squadra di calcio,
perché sì, aveva
ceduto al padre – che fosse gay. Inizialmente aveva pensato
ad un’altra
sciocchezza pensata per frenare l’immaginazione delle ragazze
di quegli
energumeni che di certo sbavavano dietro Zayn. In seguito
però, aveva iniziato
a farci caso: il cappotto lungo di Zayn, quello nero, presentava un
vago taglio
femminile e anche le sue movenze delicate, eleganti, da pantera, non
potevano
dipendere tutte dal suo sangue orientale. C’era un altro
ragazzo a scuola, dal
nome impronunciabile e lo stesso asiatico, che era sì
slanciato e bello – non
quanto Zayn, ovviamente – ma si muoveva come un qualsiasi
altro ragazzo
sedicenne: con le gambe divaricate, leggermente storte per il calcio,
piedi a
papera. Zayn aveva l’eleganza di una regina
d’Inghilterra e la sinuosità di un
animale della giungla, di quelli di cui Louis aveva letto nei romanzi
di Emilio
Salgari. Degno di un personaggio di uno dei migliori romanzi, di quelli
che
leggi troppo in fretta perché il finale fa gola, ma che non
vorresti mai finire
per paura che il sogno finisca.
Perciò sì, aveva deciso che per Zayn ne valeva la
pena.
Letteratura era sicuramente la sua
materia preferita. In
primis, perché aveva letto quasi tutti i libri di cui la
professoressa parlava
ed era avvantaggiato sul resto della classe – non che non li
rileggesse, a
volte – e in secondo luogo, perché in
quell’aula i banchi erano disposti a due
a due e poteva avvicinare Zayn. E lo aveva fatto, facendogli cenno di
sedersi
vicino a lui. La risposta del ragazzo era stata un sopracciglio alzato,
ma
aveva acconsentito, buttando lo zaino – nero, che sorpresa
– sopra alla sua
parte di banco, prima di sedersi.
“Louis Tomlinson” si era presentato, sorridente,
porgendogli la mano.
Zayn l’aveva guardato, prima con sufficienza e poi divertito.
“Lo
scrittore rinnegato” aveva affermato
“sì, ho capito chi sei.”
All’aggrottamento
della fronte di Louis, aveva riso, il che non aveva fatto altro che
confondere
ancora di più il giovane Tomlinson.
“Che
intendi?” aveva chiesto, curioso come non mai, affascinato da
quella voce e da
quelle affermazioni. Anni più tardi, rendendosi conto che
Zayn sarebbe stato una
delle più grandi dannazioni della sua giovane vita, si
sarebbe maledetto per
aver posto quella domanda la cui risposta l’avrebbe fatto
definitivamente
innamorare. In quel momento, invece, voleva solo sapere. Forse, il suo
difetto
più grande.
“Porti
le lenti a contatto, ma in biblioteca te le togli sempre con un sospiro
di
sollievo che probabilmente sentono fino in Scozia. Sei nella squadra di
calcio,
ma non siedi con loro, né con nessun altro. Hai sempre i
capelli spettinati e
il viso e le dita sporche di inchiostro. O sei autista o sei uno
scrittore.”
“Credo di essere entrambi.”
“Uno
scrittore autista. Un piccolo genio.”
“In realtà potrei fingere di essere
uno dei due. Sta a te scoprire
quale.” Il piccolo ghigno di Louis si riflesse in quello di
Zayn e quello fu
solo l’inizio di tutto.
“Brutta razza,
gli scrittori.” Ma quello fu solo un sussurro e
sfortunatamente, Louis non lo
sentì.
Inutile dire che Zayn
mandò a monte anni e anni di pratica
in maschere e bugie. Con lui Louis poteva essere vero e si
rifiutò di essere
qualcun altro per gli altri. Ritornò ad essere il taciturno
di prima, quello
che seduceva la bibliotecaria per poter portare via più
libri di quanto
concesso, la sua stanza diventò un caos di fogli scritti e
libri aperti
ovunque. Zayn lo chiamava dono, Louis a volte lo definiva maledizione.
Creava mondi,
quando scriveva, e non esisteva più nulla. Aveva il
controllo di tutto, anche
se spesso riferiva a Zayn di personaggi che si ribellavano alla sua
volontà,
facendolo ridere. Non poteva farci niente. Ognuno di loro respirava e
viveva
all’interno della sua testa e scalciava, piangeva e urlava
per venire fuori,
per essere considerato e venire al mondo. Ognuno di loro voleva la sua
storia,
voleva vivere e affascinare. Il bisogno di Louis di scrivere era quasi
ossessivo, malato: ne aveva bisogno. Per lui era come respirare. Era
come se
per vivere avesse bisogno di descrivere le vite degli altri.
Zayn una volta gli disse che stava anche in
questo, la sua bellezza come persona: l’esser capace di
entrare nelle menti di
mille persone diverse, di immedesimarvisi, di farle vivere attraverso
una
penna. Louis era semplicemente arrossito perché no, non
credeva di essere nulla
di che e la sua penna non avrebbe mai sognato di creare qualcuno tanto
perfetto
quanto Zayn, fin che Dio non gliel’aveva mandato a liberarlo
dal suo quotidiano
opprimente. Ma i pomeriggi passati con Zayn, trascorsi a fumare,
ridere, vedere
film, andare sullo skate o semplicemente in silenzio, con Louis che
scriveva o
leggeva mentre l’altro disegnava, mandarono in bestia i
genitori di Louis. Gli
proibirono di vedere Zayn, lo bandirono da casa, gli confiscarono lo
skate e il
computer. Louis non veniva scalfito da nulla. I suoi erano troppo
occupati con
quattro figlie e due in arrivo per accorgersi di Zayn che entrava dalla
finestra, delle sigarette in fondo al cassetto o del secondo skate che
aveva
nascosto sotto il letto. Non gli serviva un computer per scrivere.
Bastavano le
sue mani. E un po’ era contento che avessero reagito
così: un po’ perché era
comunque un adolescente in piena fase di ribellione e un po’
perché quel dolore
che non poteva evitare di sentire a stringergli il petto era aria pura
per la
sua ispirazione. Uno scrittore senza ispirazione è una
persona felice, lo aveva
imparato a sue spese, specialmente a causa di Zayn.
Il
fatto era questo: Louis ne era innamorato perso, ovviamente. Zayn era
tutto,
l’inizio e la fine del mondo, l’est e
l’ovest del sole, l’alfa e l’omega di se
stesso. Perché Zayn l’aveva riportato alla vita,
lo aveva reso libero. Zayn era
la sua musa: se c’era una cosa che Louis sapeva, era che non
avrebbe mai smesso
di scrivere di Zayn, dei suoi occhi dorati, del suo modo buffo di
sorridere,
con la lingua a farsi strada tra i denti. Non avrebbe mai smesso di
descrivere
il rumore del suo cuore che si zittiva quando Zayn gli parlava di Liam.
Lo
aveva conosciuto in chat, in un gruppo su Facebook di appassionati di
fumetti e
film Marvel. Zayn ne era letteralmente ossessionato e aveva vista
riflessa in
questo ragazzo dall’aria vagamente etero e da cucciolo
bastonato la sua stessa
passione. Avevano cominciato col parlare fino a tarda notte, tanto che
era
capitato più di una volta che Zayn crollasse senza forze sul
banco durante la
lezione o con la faccia immersa nel budino al cioccolato di Louis (che
in
teoria avrebbe giurato di non rivelarlo mai, ma gli scrittori non sono
il
massimo per quanto riguarda la segretezza, perlomeno non questo.) Dopo
neanche
un mese di conoscenza erano iniziate le chiamate su Skype: Zayn aveva
iniziato
a disegnare Liam ovunque e a parlare continuamente di lui, della sua
gentilezza
e del suo sorriso. Zayn innamorato era qualcosa che la natura pareva
non poter
concepire, o almeno non poteva Louis: per lui Zayn era il sole, Zayn
era
immune, Zayn era al di sopra delle debolezze umani, di quei sentimenti
che
Louis era capace di rivolgere solo ed esclusivamente a lui. Liam aveva
fatto
l’impossibile: aveva riportato Zayn sulla terra,
l’aveva distolto dal suo
essere straordinario e l’aveva reso una persona ordinaria.
Cosa che Louis non
poteva sopportare. Ci aveva provato, sì. Ma lui non era
fatto per essere
ordinario e stare con cui lo era, no: Louis era straordinario, Louis
voleva
vivere per scrivere e scrivere per vivere.
Decise
che per Zayn non ne valeva più la pena, e per un
po’ la loro amicizia fu in
crisi. Continuavano a vedersi, certo, ridevano e scherzavano insieme,
ma Louis
aveva posto un muro tra loro e Zayn se n’era accorto, sin da
subito. All’inizio
dispiaciuto – e per inizio intendo circa due secondi, di
fondo rimaneva la
persona fuori dal comune di cui Louis si era innamorato –
aveva poi riso,
scuotendo la testa.
“L’ho
sempre detto che voi scrittori siete una brutta razza.”
Quando, nelle lunghe notte insonni
che non erano così rare
per una persona pensierosa come lui, trascorreva le ore scrivendo o
guardando
serie tv o leggendo libri consigliatogli da Zayn, Louis si era reso
conto di
avere una particolare preferenza per certi tipi di serie e di
sceneggiature:
adorava quelle in cui il protagonista aveva un segreto da nascondere,
spesso
sporco o riguardante qualcosa di sovrannaturale. Andava matto per i
segreti,
certo, ma nel momento in cui venivano svelati: la reazione che ogni
personaggio
aveva era per lui motivo di studio, d’interesse. Le reazioni
umani erano per
lui una fonte di conoscenza incommensurabile, infinita. Le adorava,
adorava
tutte le piccole sfaccettature che rendeva una persona tale. Ognuna con
le
proprie manie, le proprie ossessioni, piccoli particolari che rendevano
unico
qualcuno. E la sensazione, l’eccitazione del segreto che
sveniva svelato era
talmente devastante per lui da essere quasi orgasmica, forte quasi
quando,
grazie a un’ondata d’ispirazione, riusciva a
scrivere in una sola tirata un
racconto. Era una specie di droga, per lui.
Zayn diceva spesso che Louis funzionava a specchio: diventava
ciò che
amava. Ormai era diventato come i protagonisti dei suoi amati film o
serie tv:
un disadatto che nasconde fin troppo cose ai suoi genitori e con un solo amico, talentuoso
ma schivo e
insicuro, ambizioso ma silenzioso.
“Non avrai mai il coraggio
di dirglielo” aveva detto Zayn, quel famoso giorno in cui
tutto era cambiato.
Louis lo aveva ignorato, continuando a contare
i soldi che doveva versare per l’affitto di un appartamento a
Londra.
“Lo
farò invece” il tono era rabbioso, trafelato
“dovresti credere in me.”
“Io
ci credo, Lou” aveva replicato Zayn, addolcendo la voce
“ma sei tu che non
lo fai. E poi Doncaster è uno sputo in
confronto a Londra, come farai da solo?”
“Cristo!”
aveva quasi urlato, sbattendo le banconote sul legno del tavolo
“Sai, se tu non
andassi a Manchester dal tuo fottuto ragazzo non dovresti preoccuparti
in
questo modo! Ci hai pensato? Ci hai pensato anche solo per un momento
che io
potrei aver bisogno di te?”
Non l’aveva mai visto così: Louis non aveva mai
pianto, in quattro anni
di amicizia. Sempre al riparo dietro a uno sguardo gelido e
disinteressato, un
sorriso dolce ma troppo cortese per esser vero, ad eccezione di pochi
giorni
buoni o di quando Zayn lo faceva fumare troppo. Avrebbe giurato di
sentire il
rumore di un muro crollare, bombardato dalla paura. Perché
Louis amava i
segreti, ma non era un personaggio dei suoi amati libri o serie tv. Non
poteva
reggere, soprattutto considerato ciò che stava per fare. Un
cattivo
presentimento s’insinuò in Zayn, già
preoccupato per quello che era il suo
migliore amico. Quel ragazzino snob, egocentrico, disadattato, ma che
lui aveva
imparato ad amare. Aveva imparato a sorridere alle sue imprecazioni
colorite
quando non riusciva in un trik sullo skate o quando non prendeva il
voto in cui
sperava, ad amare la sua mania di perfezione in netto contrasto con
quell’anticonformismo che tanto andava predicando che era
radicato nella sua
natura di scrittore. Aveva imparato a rispettare i confini che imponeva
a se
stesso per non affezionarsi troppo, a non dare peso agli insulti cinici
che
spesso Louis gli sputava contro. Ad amare la sua ambizione, i suoi
piccoli
gesti d’affetto tanto significativi quanto rari.
“Lou, ti prego.” E il suo
tono era quasi implorante, e anche tutti i suoi muri
erano caduti, perché Louis, il cui solo desiderio era essere
straordinario,
stava cedendo ai sentimenti come una qualsiasi persona ordinaria e
allora,
allora doveva cedere anche lui, come faceva con Liam, perché
se lo meritava. E
piansero, piansero, perché sapevano. Sapevano che il sogno
era finito, che era
ora di dividersi, che non sarebbero stati più ZayneLouis,
che non sarebbero più
potuti correre l’uno sotto casa dell’altro se aveva
bisogno, perché a dividerli
ci sarebbero stati chilometri. E allora piansero, piansero senza
guardarsi in
viso.
Londra era una gigantesca cartolina.
Di quelle che Louis
appendeva in numero spropositato in camera sua e che ora non era
più sua, che
mostrava ai genitori in continuazione perché il suo unico
desiderio era quello
di recarvisi. Nemmeno tre giorni in quella città, e Louis se
ne innamorò
completamente. Si innamorò del cielo sempre plumbeo, della
marea di turisti che
popolavano ogni giorno le strade; s’innamorò
dell’aria fredda e del suo respiro
che si condensava in piccole nuvole di gelo.
S’innamorò del Big Bang di notte e
della vista del London Eyes, di quel piccolo negozietto nascosto che
vendeva
vecchi libri. S’innamorò
dell’università, della passione della sua
insegnante
di lettere e del caldo bar dove andava a studiare.
Perciò, il
secondo amore di Louis fu Londra, e questo quasi lo
ricompensò di ciò che aveva
perso, anche se per chiunque altro sarebbe stato troppo. I suoi
genitori non
avevano reagito molto bene al suo coming out e alla decisione di
frequentare la
facoltà di lettere al King’s College, ma detta
così è quasi un eufemismo.
“Che accidenti vuol
dire che sei gay?” Johanna
è sbiancata e si è accasciata sulla sedia, manco
Louis le
avesse detto di avere una qualche malattia mortale. Il viso del padre
invece è
paonazzo: l’ha visto così arrabbiato solo quando
gli aveva riferito di aver
appeso le scarpette al chiodo.
“Beh, in
termini volgari” dice Louis “significa che mi piace
il cazzo. Che mi piace
succhiarlo. In realtà sono anche piuttosto
bravo.*” E a quel punto anche il
padre si è seduto, completamente sconvolto.
“Vuoi dire che non sei vergine?!” ed
eccolo lì, l’urlo disarmato della madre.
“Avevi dubbi?” Il tono di Louis è
beffardo, ma dentro di sé crolla nel
vedere i suoi genitori crollare, per normale empatia. Vorrebbe
sotterrarsi, ma
non lo fa. Rimane impassibile, sfacciato e sicuro.
“Chi.” Non è una
domanda, quella della madre, e a Louis fa quasi paura. “Chi
è stato?”
“Zayn” rivela, con calma e la madre ride,
prendendosi con due dita la radice del naso e chiudendo gli occhi. “Io
l’ho sempre saputo che quel ragazzo non
ti fa bene. Ti ha deviato” sputa Mark, con cattiveria.
“Sono nato così, papà,
accettalo!”
urla Louis “E poi gliel’ho chiesto io. Non avrei
concesso a nessun altro la mia
prima volta e lui ha capito, accettando nonostante sia
fidanzato.”
“Sì, certo” Johanna lo sbeffeggia,
quella per lui è una cosa seria e
vorrebbe quasi prenderla a schiaffi, quasi “e
cos’è questa storia che
frequenterai lettere? Tu farai economia.”
“No, farò lettere. Ho già confermato
l’iscrizione e trovato un
appartamento, è tutto fatto.”
Louis ama il silenzio, generalmente, lo rilassa.
Ma il silenzio che segue che la sua affermazione è pesante,
austero.
“
Fuori
da questa casa.” Le parole di Mark fanno male, rompono il
silenzio nel peggiore
dei modi e sono pronunciate da una tale rabbia che Louis sa che la
conversazione è finita lì. Perciò, con
il suo cuore che si zittisce ancora una
volta, prende la sua borsa, già pronta, e se ne va.
Era riuscito ad ottenere, grazie a una telefonata monosillabica, il
permesso di vedere le sue sorelle. Grazie al lavoro part time al bar e
alla
borsa di studio, i suoi non gli sarebbero mancati per nulla, ma non
potevano
togliergli la felicità di vedere Lottie alle prese con la
scuola da estetista,
di ascoltare Fizzie che gli raccontava della sua cotta del mese e di
assistere
alle scenette delle gemelle o alle prime parole dei nuovi arrivati,
Ernest e Doris.
Loro erano parte di lui.
Con Zayn era andata meglio di quanto avesse
sperato. Non lo andava a trovare, no, sarebbe stato troppo, anche se
probabilmente si sarebbero visti a Capodanno: era tradizione
festeggiare i loro
compleanni la notte del nuovo anno, che era quasi equidistante da
entrambe le
date. Se c’era una cosa che Louis era sicuro che Zayn non
avrebbe lasciato
perdere erano le loro tradizioni. Il giorno della loro partenza,
perché sì, era
partiti insieme per renderla meno dolorosa, gli aveva detto, testuali
parole “Sai, quel coglione fissato
del mio ragazzo
il giovedì sera fa almeno un’ora e mezza di
esercizi.” Inutile dire che
quell’ora e mezza era diventata l’ora e mezza in
cui cercavano di
riassumere la
settimana passata, le
persone incontrate, le storie scritte e le cose da coppietta
terribilmente
melense che finalmente Zayn e Liam potevano fare e che Zayn urlava
nelle
orecchie di Louis, anche se lui tentava di urlargli sopra e di farlo
stare
zitto, perché Zayn sapeva benissimo che in realtà
Louis stava sorridendo.
A dir la
tutta, era l’unica ora e mezza durante la settimana nella
quale Louis
sorrideva, tralasciando quando lo faceva attraverso i suoi personaggi.
All’università non c’era nessuno di
interessante e al lavoro erano tutti sempre
di fretta o stressati, per una semplice canna o una birra in compagnia.
Louis invece, oh, Louis si riconosceva. E non per i
capelli che per
sfizio aveva deciso di tingere di rosso, non per i tatuaggi che, sempre
per
sfizio, gli coprivano solo il braccio destro o per lo skateboard su cui
si
ostinava ad andare in giro nonostante il clima della città.
Si riconosceva, tra
mille, per le occhiaie che tentava di coprire con la montatura quadrata
degli
occhiali da vista. Per lo zaino che portava ovunque e che conteneva
solo un
vecchio quaderno nero su cui annotava di tutto. Per le maglie troppo
grandi, la
barba di qualche giorno, il callo tra indice e medio che compare quando
si tiene
troppo a lungo la penna in mano. Per i segni di penna sulle maniche
delle
camice e sulle dita, per lo sguardo costantemente perso, per il parlar
poco e
lo strofinarsi costantemente le mani quando necessitava di scrivere.
Per i modi
di dire a volte anacronistici, le risate senza motivo e i riferimenti
comprensibili solo a lui.
Lo avrebbe riconosciuto chiunque. O almeno, chiunque con una buona
capacità di osservazione e dall’animo
discretamente romantico. Un qualcuno che
notasse i particolari. Qualcuno un po’ come Zayn, che avesse
letto troppi libri
e visto troppe serie tv, magari dall’animo meno cinico.
Qualcuno che alla sola
vista sorridesse e scuotesse la testa, sussurrando:
“Brutta
razza, gli scrittori.”
Quel qualcuno non era
Harry, ma lui ci provò lo stesso.
“Che cosa pensi della frase
Amor omnia vincit?” Quella voce
era roca, ma sottile, un tenue bisbiglio.
“Nei Triumphi di
Petrarca” a Louis non importava di chi fosse quella voce, fin
che poteva citare
il suo amato Petrarca “figure simboliche vanno a
rappresentare entità astratte
in continuo conflitto tra loro. Sull’Amore vince la
Castità, sulla Castità
vince la Morte. Non pensare che finisca con la Morte, però,
perché sulla Morte
trionfa la Fama, che però viene sconfitta dal Tempo, a cui
però l’Eternità non
lascia scampo. Ci sono un mucchio di cose che vincono
sull’Amore, è inutile
ostinarsi a credere che sia la forza più grande di
tutte.”
“Un po’ cinica come idea, non
credi?”
“Il cinismo è tra i miei più grandi
pregi.”
“È
anche curioso che tu mi abbia citato uno scrittore piuttosto che darmi
la tua
opinione.”
“Sono piuttosto bravo anche a sviare i discorsi, lo
ammetto.”
“Ti
va di uscire con me?”
Non
fategliene una colpa, se aveva detto di sì. Quando si era
girato, si era
ritrovato davanti a un paio di occhi così verdi da far male
e a una coroncina
di fiori poggiata su riccioli scuri.
No, Louis non poteva dire di no
a qualcuno che sembrava un personaggio di un libro.
Il mercoledì prescelto da
Harry, il cui colore preferito è
il rosa e che gli aveva comunicato luogo e orario con un biglietto
laccato di
ceralacca e profumato di rose lasciato sul suo bancone al bar, era un
giorno di
pioggia. A Louis non era importato gran che, aveva sempre ritenuto che
la
pioggia su Londra avesse un che di mistico. Perciò, contro
le leggi della
fisica e della logica, era uscito a bordo del suo skateboard, con tanto
di vans
nere e maglietta a maniche corte, perché la pioggia era sua
amica.
Harry lo stava aspettando, sotto la pioggia, con i ricci bagnati a sfiorargli le spalle e la
bocca socchiusa, ad
ammirare il cielo. Aveva addosso una giacca di jeans dal collo di
pelliccia,
ormai appiccata alla pelle a causa dell’acqua che gli
scivolava sul corpo come
se lo stesse venerando.
“In una
vita passata sei stato un personaggio di Thomas Mann.” Giorni
più tardi, Louis
si sarebbe rimproverato per la scelta dell’autore, nonostante
l’amore con cui
Mann descrive personaggi come Inge o Hans in Tonio Kroger,
perché la bellezza
di Harry era pari a quella del dannato Dorian Grey di Oscar Wilde.
Avrebbe cambiato idea ancora
pochi giorni più tardi, perché aveva letto troppi
libri ed Harry era troppo per
qualsiasi autore.
“Io
mi vedo più come un Tassorosso imbranato ad
Hogwarts” aveva confessato Harry,
arrossendo, sebbene l’acqua gelida avesse portato il suo
corpo a uno stato
rasente l’ipotermia “ma me lo farò andar
bene.”
Harry non capiva i riferimenti di
Louis. Lui era innamorato di romanzi fantasy, di saghe interminabili ed
eroi
meravigliosi. A Louis non importava, perché lui leggeva di
tutto.
“E io che sono? Il Serpeverde per il quale ti
prenderai una polmonite?
Vieni dentro, idiota.”
“Avevo
paura che non mi vedessi, e poi mi piace la pioggia.” Harry
continuava ad
arrossire e Louis si chiede, ancora oggi, come diavolo fosse possibile.
“Io ti vedrei anche in mezzo a mille persone” aveva
ammesso, senza
vergogna, perché se c’è una cosa che
Louis non fa, è vergognarsi. Gli era stato
insegnato dalla vita che a vergognarsi di se stessi o dei propri
sentimenti ci
si rimette il proprio io, la propria integrità, cosa che per
Louis era
fondamentale.
“Lo sapevo” Harry lo aveva preso per mano,
trascinandolo dentro al bar
che sarebbe diventato il loro posto “sei un grintoso
Grifondoro, in fondo in
fondo.”
Il fatto era questo: Harry aveva le
fossette e una coroncina
di fiori. Una coroncina di fiori, accidenti.
"Ma perché la
metti?”
“Non ne ho
idea” aveva riso. La risata di Harry riusciva a bloccare i
suoi pensieri, a far
riposare la sua mente, cosa che non era mai successa, mai. Nella sua
mente
c’erano sempre personaggi urlanti, frase che fremevano per
essere scritte,
storie desiderose di un finale degno di nota.
Se in poche settimane avevano cominciato a uscire ogni giorno, a
discutere su libri che Harry avrebbe dovuto leggere e che Louis avrebbe
voluto
scrivere e se Louis amava quando Harry lo interrompeva e cominciava a
parlare
del nuovo libro di una qualche saga fantasy dal nome impronunciabile,
nessuno
deve saperlo. Se Louis aveva baciato Harry una settimana dopo avergli
spiegato
che ci sono forze infinitamente più grandi
dell’amore, nessuno, eccetto il
lampione che li sovrastava severo, quasi a rimproverare uno dei due
– chi,
ancora non è dato saperlo – deve saperlo.
Louis aveva smesso di fumare, perché a Harry
non piaceva. Il suo piccolo
appartamento aveva cominciato a profumare di rosa, perché
nei pomeriggi di
pioggia lui e Harry si chiudevano lì, a guardare vecchi film
della Disney e a
giocare alla play. Harry era un totale disastro.
“Perché mi proponi sempre di giocare
se sei una tale frana?” aveva riso
un giorno Louis.
“Perché a te piace.” Se Louis poi
l’aveva baciato con le labbra piene di
grazie che non sarebbero mai stati pronunciati e gli occhi brillanti di
promesse
che non sarebbero mai state mantenute, non è dato saperlo.
Quella era stata la prima notte che Harry
aveva passato da Louis, perché dopo quel bacio durato ore
– o forse minuti o
forse secondi, ma che importa? - si
erano addormentati abbracciati l’uno all’altro,
come naufraghi che hanno
finalmente trovato qualcosa a cui aggrapparsi per sopravvivere.
L’amore lo avevano fatto poche sere dopo,
perché Harry ha una farfalla
tatuata sulla pancia e Louis ha gli occhi azzurri e sono fatti per
essere. Lo
avevano fatto sul divano, perché il letto è
sopravvalutato, e avevano pianto,
avevano riso, avevano sorriso l’uno sulle labbra
dell’altro; erano diventati
uno solo, ma forse lo erano già, le loro anime si erano
incontrate in un
universo di gemiti mal trattenuti, lenzuola strette e bocche spalancate
da
orgasmi travolgenti come uragani spietati.
Se Louis era rimasto sveglio a guardarlo dormire, ammirando quella
bocca
che definirla di rose era troppo poco, quella pelle che definirla etera
era fin
troppo scontato, quel corpo perfetto che definirlo opera scultorea era
un
clichè, non ci è dato saperlo.
Da
quella notte Louis si svegliava con odore di pancakes e the caldo, ma
con i
piedi freddi, perché Harry si muoveva troppo durante la
notte. Si copriva di
più, perché Harry aveva sempre paura che
prendesse qualche malanno. Per di più
usava la sua giacca, quella di jeans, perché se ne era
innamorato.
Passava la sua pausa
pranzo, all’università, sotto una quercia del
parco poco distante anche dal
liceo di Harry, sotto la quale il riccio sgattaiolava per avere la sua
dose di
“Louis giornaliero.”
“È
che ti amo così tanto, Lou.”
Louis
non gli diceva ti amo, perché non pensava servisse. I suoi
baci, i suoi
sospiri, le sue carezze, parlavano, urlavano il suo amore per quel
bambino
ingenuo e innamorato dell’idea della vita.
I suoi
tatuaggi gli urlavano ti amo. Un mese dopo aver fatto l’amore
per la prima
volta, una bussola svettava sul braccio di Louis, avvolta nella
plastica, così
come il bicipite sinistro di Harry, a coprire un maestoso veliero.
Così,
accanto al Far Away che gridava la sua voglia di scappare da una vita
che non
sentiva sua e i tatuaggi fatti con Zayn, la pelle di Louis aveva il
carico di
un’altra promessa: l’amore per Harry.
E forse era
troppo presto, forse avrebbero dovuto aspettare per farsi una promessa
del
genere. Louis però non era mai stato molto razionale e
diavolo, Harry portava
una coroncina di fiori.
Louis e Zayn avevano scoperto Skype.
O meglio, grazie al
migliore amico di Harry, un brufoloso irlandese di nome Niall, avevano
scoperto
che nell’appartamento di Louis connessione sufficiente per un
collegamento
Skype c’era solo nel bagno. Era stato imbarazzante dovergli
presentare Harry in
quel luogo stretto e ancor di più lo era chiamarlo ogni
giovedì per un’ora e
passa mentre Harry e Niall guardavano un film nel salone adiacente: si
poteva
pensare che facesse tutt’altro. Non era una bella situazione,
soprattutto
perché quel biondino provava un forte odio nei confronti di
Louis: Harry lo
giustificava con un prepotente senso di protezione, ma Louis li aveva
sentiti.
A Niall non piaceva.
“Come fa a non piacerti? È il
principe azzurro.”
“Il
principe azzurro dei punk stronzi.” Harry aveva riso, di
quella risata
esasperata che tirava fuori ogni volta che Louis diceva, a suo parere,
qualche
stupidaggine.
“Non mi dirai che non ti piace per il suo look. Io lo trovo
un sacco
sexy.”
“Lo sai
che non è per quello. Non mi piace e basta. Lo sai che ho un
sesto senso per
queste cose.”
“Solo
perché hai previsto la fine di un paio di mie relazioni non
vuol dire che tu
abbia i superpoteri, Nialler.”
“Tutte” aveva rettificato Niall “io ho
previsto
la fine di tutte le tue relazioni, Haz. Dalla prima
all’ultima. Anche quando
eri convinto che tu e Nick sareste stati insieme per sempre.”
“Con
Louis è diverso” aveva affermato Harry,
concludendo la conversazione, ma anche
un sordo avrebbe capito che un dubbio terribile si era insinuato in lui.
“Oh,
andiamo Tommo, non darai peso alle parole di un marmocchio!”
aveva esclamato
Zayn, incredulo.
“È il suo migliore
amico, Zay.” Non era nel panico, no. Forse solo un
po’.
“Non
significa nulla! Io mica ti ho ascoltato quando mi hai detto che Liam
non ti
piaceva!”
“Solo
perché sono un sociopatico e perché mi consideri
un coglione.”
“Perché
tu sei un coglione e un sociopatico” il tono di Zayn era
divertito, ma quasi
intenerito “e perderai altri punti nella mia scala delle
amicizie se ti
lascerai sfuggire Harry per una paranoia. Lui ha un’influenza
fin troppo
positiva su di te.”
“Che intendi?” Alla domanda Zayn si
era come bloccato, come se fosse
indeciso se dargli o no la risposta. Come se da quella risposta
dipendessero
troppe cose.
“Ti rende felice” aveva ceduto, alla fine,
più per correttezza che per
amor di Louis “spensierato. Come se non avessi nessun
pensiero in mente.”
Quella notte, dopo che Harry si era
addormentato, Louis si era
seduto alla scrivania, con una tazza di the. Aveva preso il suo
quaderno,
quello nero, quello che ricomprava sempre uguale
all’originale, regalo di Zayn,
perché ne finiva uno ogni due mesi. Quello lì
durava da più di quattro, da
quando conosceva Harry.
Lo aveva aperto, impugnato la penna. E niente.
Le voci nella sua testa erano
rimaste in silenzio. O forse erano scomparse. Louis preferiva la prima
opzione,
la meno dolorosa e la meno ovvia. Non c’era niente.
Né una storia, né un volto,
né un misero dialogo. Nulla. Quelle voci che gli avevano
fatto compagnia per
tutta la vita, quelle storie che lo avevano tenuto sveglio fino a che
non
fossero state trascritte per intero su carta, quei personaggi che tanto
aveva
amato, odiato, non c’erano più. Vedeva tutto
bianco e non sentiva nulla. Aveva
un tappo sulla fantasia, un qualcosa che bloccava la sua natura di
scrittore,
un qualcosa che non andava. E capì immediatamente
cos’era.
Aprì cassetti,
sfogliò quaderni, rilesse appunti. Trovò quella
frase, scritta in un moto di
solitudine e consapevolezza, sulle pagine del suo primo quaderno,
l’originale,
quello che aveva dato inizio a tutto.
“Uno scrittore senza
ispirazione è una persona felice.”
Successe come con Zayn. Un giorno
prima Louis c’era, il
giorno dopo non c’era più. Era assente, scostante,
freddo: nei suoi baci non
c’erano più grazie e nei suoi gemiti non
c’erano promesse. Era diventato tutto
spento, meccanico, abitudinario. E Harry poteva anche avere una
coroncina di
fiori sui ricci, ma non era uno stupido. Si era accorto che Louis aveva
ricominciato a fumare. Che mancava i loro appuntamenti sotto la
quercia. Che
non lo stringeva quando dormivano, ma si alzava e andava a mettersi
alla
scrivania, passando anche ore sveglio a fissare un foglio bianco che
non veniva
mai riempito.
Aveva capito che soffriva, Aveva notato i singulti mal trattenuti
quando
quel foglio si rifiutava di farsi riempire, quando le sue preghiere non
venivano esaudite. Aveva visto i suoi occhi spegnersi, e quel blu
brillante era
diventato un azzurro gelido. Non lo guardava più come prima,
aveva posto un
muro.
Harry aveva smesso
di mettere la sua coroncina di fiori.
“Almeno guardami in faccia
quando ti parlo, cristo!”
Harry non era mai stato il tipo che sta zitto. Che subisce le angherie
e
rimane indifferente. Harry è un uragano, Harry è
passione, Harry è
straordinario. Era l’uragano che aveva travolto Louis e lo
aveva strappato alla
sua vita sociopatica, che lo svegliava alle due di notte per fare
l’amore o che
in pieno novembre gli chiedeva di accompagnarlo al mare. Harry
rappresentava
per Louis tutto ciò che era fuori dagli schemi, tutte le
eccezioni che la sua
razionalità non gli permetteva di accettare con scioltezza.
Per dirla come
Oscar Wilde, rappresentava tutti i peccati che non avrebbe mai avuto il
coraggio di commettere. Harry era la felicità di Louis e la
sua dannazione.
Perché Louis era uno scrittore, e accidenti se gli scrittori
sono una brutta
razza. Hanno bisogno di vivere per scrivere, ma se vivono non hanno
tempo per
scrivere. Hanno bisogno della felicità, come tutti gli
essere umani, ma la loro
penna si nutre di dolore. La felicità non è una
cosa che possono sopportare per
sempre. Ovviamente dipende da soggetto a soggetto, ma Louis era uno di
quelli.
Uno di quelli che si nutriva della solitudine, della malinconia,
perché i suoi
personaggi vivevano di esse. Può apparire morboso, ma
è così, purtroppo. Quel
tocco di magia che Harry gli aveva regalato sarebbe rimasto per sempre
a
colorire i suoi scritti, permettendogli di scrivere meravigliose
racconti, ma
per altri, non per sé. La natura di Louis gli impediva di
avere un lieto
fine.
“Io ti sto guardando” era stato il
sussurro, appena percepibile di
Louis. Il rumore di un paio di ali che si aprono sarebbe stato
più udibile e
più conciso di quelle
parole.
“Non è vero.” Era un singhiozzo e
costrinse Louis ad alzare lo sguardo.
Harry non stava piangendo, Harry non piangeva mai, perché
niente ferisce una
forza della natura. Qualcosa però, poteva scalfirla, e Louis
stava facendo
questo: lo stava allontanando, gli stava dilaniando il cuore,
togliendogli la
sua anima gemella. Perché forse erano stati fatti per
essere, ma qualcosa in
Louis non era d’accordo, in un terribile errore di produzione
della creazione.
Louis non aveva mai voluto essere un clichè, ma
inconsapevolmente stava
seguendo le orme di molti grandi artisti: quella della solitudine e
della
dannazione di una misantropia autoimposta da una convinzione quasi
malsana.
“Harry, per favore…”
“Per
l’amor del cielo Louis, almeno abbi il coraggio di dirmelo.
Se vuoi lasciarmi
va bene, anzi non va bene, ma tu vuoi farlo e io voglio sapere
perché. Dimmi
perché!” La voce si era spezzata nel pronunciare
l’ultima parola e Harry aveva
sospirato, chiudendo un attimo gli occhi. Erano sotto la loro quercia,
in un
appuntamento che stranamente Louis non aveva saltato.
Louis aveva
abbassato lo sguardo a terra, i suoi occhi di nuovo blu, di un blu
feroce,
pieno di rabbia rivolta a se stesso e del pizzico di follia di cui
sarebbe
stata intrisa quella frase, la frase che avrebbe messo la parola fine,
che
pronunciata da altri sarebbe parsa senza senso, ma che a entrambi parve
terribile.
“Io ti amo, Harry” ed era la
prima volta che lo diceva e mentirei se dicessi che il respiro di
entrambi
rimase regolare “ma hai messo a tacere le voci nella mia
testa, e io questo non
posso accettarlo.”
E poi fu
solo silenzio, un silenzio durato anni, minuti, secondi, dopo il quale
Harry
aveva alzato la testa, gettato la sua coroncina di fiori a terra e lo
aveva
baciato. Con rabbia, passione, affondando le mani nei capelli color
caramello
di Louis e tirandoli ferocemente. Fu l’ultimo bacio,
l’ultimo incontro di
quelle lingue nate per danzare insieme e di quelle bocche
complementari. Quando
si staccarono e i loro occhi si fusero, quelli di Louis a guardarlo dal
basso,
perché Harry era sempre stato più alto, Harry
sorrise.
“Quindi mi renderai immortale?”
Perché Louis gli aveva citato qualcuno,
una volta, che aveva detto “Fai
innamorare uno scrittore e ti renderà immortale.”
Louis aveva sorriso e gli
aveva preso il volto tra le mani, baciandogli la guancia, prima di
sussurrargli
contro la pelle.
“Renderò
noi immortali.”
No, non
sarebbe dovuta
finire così, ma tu l’hai fatta finire
così.
“Louis?” Quella voce la riconoscerebbe tra mille,
così bassa e roca,
così perfetta. Dio, è diventato un
clichè vivente e la cosa è alquanto
irritante, ma non gli dispiace più di tanto.
“In carne e ossa.” Harry ride, guardandolo
dall’alto, con i capelli più
lunghi e una strana camicia addosso.
“E la mia giacca che cerco da quasi un anno.” Louis
se la stringe
addosso, possessivo.
“Ora è mia” ride Louis, di
riflesso a Harry, e le loro risate si sono
mancate così tanto che potrebbero scoppiare a piangere da un
momento
all’altro.
“Lo vedo. Allora, cosa ti porta qui? Vai da
Zayn?” Louis scuote la
testa. Ha visto Zayn solo una volta da quando è partito con
Doncaster e si
sentono sempre di meno, ma questo non glielo dice.
“Ho letto
la tua email e, a proposito, congratulazioni per il diploma”
l’altro sorride,
orgoglioso “Oxford, eh?”
“Lo sai, ho
sempre voluto andarci. E non solo perché ci hanno girato
Harry Potter.”
Louis potrebbe piangere, perché Harry
è sempre lo stesso. Con i
riferimenti a Harry Potter e le spille di smile e arcobaleni a
ricoprire la
valigia rigorosamente rosa.
“E tu?” interrompe i suoi pensieri, sinceramente
incuriosito “Ci stai
rendendo immortali?”
“L’ho già
fatto” il sorriso di Louis è vero, luminoso: Harry
non crede di averlo mai
visto sorridere così, e capisce finalmente di aver fatto la
cosa giusta a
lasciarlo andare “ho consegnato il manoscritto
stamane.”
“Come si chiama? Sarò il tuo primo
lettore. E
poi costringerò il resto della popolazione a
comprarlo.”
“Sempre se me lo pubblicheranno”
ride ancora Louis “il titolo me l’ha suggerito
Zayn. Brutta razza, gli scrittori.”
Harry scoppia a ridere e davvero,
prenderebbe un treno per Manchester solo per dare il cinque a quel
ragazzo dal
meraviglioso e cinico senso dell’umorismo.
“Azzeccato, direi.
Beh, allora, buona fortuna, Lou.” Gli porge la mano, in un
gesto formale a cui
Lou, e nemmeno Harry, è abituato. Louis ghigna, scosta la
sua mano e si slancia
per abbracciarlo.
È un abbraccio
di quelli che fermano il tempo, che inebria della sensazione dei corpi
allacciati l’uno all’altro, che assomiglia
all’incontro di due pezzi di puzzle
perfettamente incastrati. Fosse per Harry, rimarrebbe così
per sempre ma Louis
si stacca, con gli occhi un po’ lucidi e un nuovo sussurro
che gli lascia a un
soffio dalle labbra, ed è così vicino che Harry
pensa a quello che potrebbe
fare ma che non fa:
“Ti amo da morire, Haz.”
Detto
questo, e dopo aver depositato un bacio leggero sulle labbra di Harry,
scappa
via, a bordo dello skate e Harry vorrebbe quasi rincorrerlo, ma poi
sorride e
s’accontenta. Louis da solo sta meglio, per quando a lui
possa far male. Ma se
vuole che sia il suo miracolo, deve accontentarsi degli attimi di magia
che
quel pazzo di uno scrittore deciderà di regalargli.
Perciò sospira, e sale sul
treno, con un sorriso ebete dipinto sul volto.
Dietro una colonna, Louis piange, ma è felice.
Dopotutto, le
contraddizioni sono sempre state il suo forte.
Mentre s’incammina, percepisce chiaramente una
ragazza che, dopo averlo
osservato e aver probabilmente assistito a tutta la scena, scuote la
testa e
sussurra qualcosa, che lo fa sorridere.
“Brutta razza,
gli scrittori.”
Un'ultima cosa e poi me ne vado, giuro. Volevo citare la frase che mi ha ispirato in parte questa storia, dato che all'inizio non me la fa mettere. Viene dal libro di aforismi di Sara Cassandra, Scrivere fa rima con vivere: "Voglio continuare a scrivere, quindi rifiuto l'amore, perchè l'amore fa dimenticare le cose brutte ma la mia penna si nutre di esse."
E ora scompaio.