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Autore: Give_me_only_kiss    14/10/2015    1 recensioni
Larry!AU Harry!flowers Louis!writer accenni Zayn/Liam
Non è colpa di Louis se è nato scrittore, anche se i suoi genitori continuano ad accusarlo silenziosamente; è invece colpa di Liam se Zayn lascia Louis da solo. Harry ha una coroncina di fiori e tutto sembra andare bene, ma Niall fa previsioni nefaste e quella degli scrittori continua a essere una brutta razza.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Un po' tutti, Zayn Malik
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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                      A Irene, perché è il suo compleanno e io non posso ancora essere il suo regalo.                                                                                                                                                                                                                                                             Non so che altro scrivere, penso solo a quanto sarebbe bello sprofondare tra le tue braccia. Come si fa a spiegare a una persona che hai bisogno di lei?

Brutta razza, gli scrittori

Se c’è una cosa che Louis odia, sono le sensazioni e i concetti in generali a cui non riesce a dare una definizione precisa. Odia quella sensazione di ignoranza che lo pervade quando un termine gli rimane incastrato su per la gola e tra i neuroni nel cervello, e non riesce ad arrivare alle corde vocali, che vogliono solo liberarsi da quella fastidiosa irritazione.                                                                                                                            
Eppure è su quell’irritante senso di vaga ignoranza che Louis preferisce concentrarsi, piuttosto che le vere emozioni a cui non riesce dare un nome e che occupano il suo cuore in quella fredda mattina di gennaio, troppo fredda per la sua giacca di jeans, nonostante sia imbottita. Ha voluto metterla lo stesso, sebbene l’inconscia – o forse no – consapevolezza del freddo che l’avrebbe di certo investito.                                            
Perciò si stringe ancora di più in essa, nel tentativo disperato ma meccanico di trovare un minimo di conforto nel calore. Non lo trova, è il suo cuore ad essere congelato. Non si muove di là, rimane fermo, sulla panchina del binario 9. I treni corrono spediti, chi in partenza e chi in arrivo; le persone partono, si ritrovano, si abbracciano. Louis invece rimane là, fermo, un solo, piccolo pensiero che gli s’insinua nella mente. Lo ricaccia subito.                                                                                                                                                           
Fa freddo. E non sarebbe dovuta finire così.

Il primo pensiero dei genitori di Louis era stato che il loro primogenito fosse autistico. Lo portarono da mille dottori, mille specialisti diversi, quasi non volessero rassegnarsi al fatto che loro figlio non fosse malato: era semplicemente un bambino silenzioso, schivo e forse troppo intelligente, per avere cinque anni.                         
Non erano genitori che ricercavano l’unicità, il genio, la diversità: volevano solo un bambino normale, che si sporcasse di fango giocando con gli altri bambini nel parco e che piangesse per avere più giocattoli. Erano persone meramente ordinarie, Johanna e Mark, e non si rassegnarono mai a quello che era il loro unico figlio, ovvero quel bambino strano che invece di giocare a palla si esercitava a leggere i cartelli di divieti del parco e i giornali dei vecchi signori che ormai si erano abituati a quel bambino curioso dagli occhi azzurri. Che non chiedeva giocattoli, ma libri, sin da quando aveva sei anni. Libri di narrativa, s’intende, non credete che fosse chissà quale genio. A otto anni ebbe il suo primo romanzo da grande e forse se glielo chiedete, vi dirà che è ancora lì, conservato come una reliquia nella sua libreria stracolma ma pulita, manco fosse un santuario. Per lui, comunque, un po’ lo è.                                                                                                                                      
A nove anni, quando la nascita di Lottie aveva inaugurato l’entrata della famiglia Tomlinson nel mercato delle bambole e dei vestitini da principessa, Louis aveva capito. Forse non era un genio, ma era precoce. Louis capiva. Che la madre preferiva occuparsi dei capricci di Lottie che accompagnarlo in biblioteca oppure comprarle la nuova e richiestissima bambola piuttosto che sentirlo parlare dell’ultimo libro che aveva letto. Persino suo padre, sfatando il mito dei papà che desiderano tanto un figlio maschio, preferiva Charlotte a lui, e non era solo perché era l’ultima arrivata. Louis era cosciente, quando l’avevano portato da mille specialisti, quasi implorandoli di dire loro che in lui c’era qualcosa di sbagliato. Aveva cominciato a confrontare i propri comportamenti con quelli di Lottie, e aveva capito. Capito che non andava bene, che se i suoi genitori non lo amavano come dovevano era solo colpa sua. Perciò, aveva appoggiato Viaggio al centro della terra sulla scrivania, piegando l’angolo della pagina a cui aveva deciso, a malincuore, di fermarsi. Aveva recuperato un vecchio pallone dal giardino – chissà di chi era poi – e si era avvicinato al padre, seduto a lavorare nel suo studio, cercando di assumere la più speranzosa delle espressioni. Al solo vederlo, Mark si era illuminato. Anzi, forse gli erano quasi venute le lacrime agli occhi, ripensandoci. L’aveva subito portato in giardino per giocare. Ironia della sorte, Louis aveva anche una sorta di talento naturale.                 
Quindi, quel ragazzino che aveva avuto la grande sfortuna di nascere senza maschera alcuna, dalla mente sveglia e curiosa, disinibita alle convenzioni e interessata solo a essere ciò che voleva essere, aveva iniziato a mentire. Per l’amore dei suoi genitori.                                                                                                               
Aveva continuato a mentire per anni. Andava in biblioteca dicendo i suoi di avere un appuntamento con amici che non aveva e che non sentiva il bisogno di avere. Leggeva fino a tarda notte, grazie a una torcia che aveva comprato con i soldi della paghetta. Aveva cominciato a scrivere. Scriveva, scriveva, riempiva pagine di frustrazione e odio. Perché, sì, aveva imparato a odiarli, quei genitori che lo costringevano a essere ciò che non era. Forse costringere non è il termine adatto, perché in realtà era tutta opera di Louis. Forse quell’odio, cominciava a provarlo più per se stesso.                                                                                                     
A scuola non parlava con nessuno, sebbene qualche ragazzina cercasse di avvicinarlo e qualche ragazzo di invitarlo a giocare a calcio nel campetto del paese nel pomeriggio. Semplicemente rimaneva in silenzio fingendo di essere l’autista che a volte avrebbe voluto essere davvero, oppure rifiutava cortesemente. Tutto si poteva di Johanna e Mark, ma non che avessero tirato su un maleducato. O forse è meglio dire cinque maleducati, di cui Louis rappresentava l’unico motivo di un plurale maschile, vista la schiacciante maggioranza femminile di quattro a uno. Charlotte ormai era una scocciante ragazzina di sette anni, affiancata da Fizzie, con i suoi timidi cinque e da Phoebe e Daisy,  le gemelle ancora intrappolate nell’età in cui ogni cosa è buona per strozzarsi. Forse ci si aspettava che tutte queste piccole principesse urlanti oscurassero la faccenda Louis. E invece no, affatto. Mark era sempre puntuale nell’accompagnarlo alla scuola di calcio che aveva iniziato a frequentare neanche un mese dopo quella fatidica partita nel giardino di casa loro. Johanna non mancava nemmeno una partita ed era sempre pronta ad accogliere qualche compagnuccio di squadra che Louis portava a casa per non destare sospetti. Perché, a dirla tutta, lui le qualità per essere socievole le aveva tutte: aveva sempre la battuta pronta, era sarcastico, gentile e altruista. Il problema è che non aveva mai trovato nessuno per cui valesse la pena.                                               
Alle superiori, quando stava per perdere ogni speranza e stava per cedere alle richieste del padre di entrare anche nella squadra di calcio della scuola (“Ma papà, sono già capitano della squadra locale!” “A scuola c’è più possibilità di farsi notare da uno scout, fidati di papà, Louis.”), aveva incontrato Zayn.                                             
Facendo riferimento alla piramide sociale che spesso si vede rappresentata nei film americani per teenager, Zayn era lo sfigato. Non lo sfigato classico, non fraintendetemi. Stava sempre da solo, mangiava seduto sul bancone della signora della mensa e chiacchierava con lei, per farle compagnia, e lei gli dava sempre la fetta di torta più grossa e lo copriva quando usciva fuori a fumare. Era il preferito di qualsiasi professore nella scuola, sebbene nessuna delle due parti lo avrebbe mai ammesso, nemmeno sotto tortura. Sempre preparato, sveglio e acuto: Zayn rappresentava la tenue luce di speranza nel lavoro, a parer di Louis, spesso degradante di quei poveri insegnanti. Vestiva sempre di nero e non faceva mai educazione fisica, anche se nessuno sapeva il perché: c’erano molte voci che giravano sul suo conto, ovviamente, e Louis mentirebbe se dicesse di non aver posto l’orecchio ad alcune di esse. C’era chi diceva che suo padre fosse un malavitoso, che aveva pagato la scuola per l’esonero o che avesse addirittura corrotto i medici, e che anche i suoi buoni voti fossero dovuti a questo. Louis però l’aveva visto in azione, dato che condividevano parecchie lezioni, e poteva affermare che la voce era campata in aria: probabilmente, solo il delirio di qualche secchiona delusa di non essere al primo posto nel cuore della prof di matematica, una di quelle che studiavano e basta, senza capir nulla e che dimostravano la propria stupidità fin troppo gratuitamente, per i gusti di Louis. La peggior specie, dopo le stupide che credevano fosse figo essere stupide.                               
Un’altra voce diceva che si drogasse, per questo era così magro e aveva sempre profonde occhiaie a circondargli gli occhi dorati. Questa Louis l’aveva subito ignorata, riconoscendo in essa il seme profondo della gelosia: Zayn era bello, troppo bello. L’aria orientale conferitagli dalla forma degli occhi e dalla pelle ambrata ben si sposava con la sua aria da cattivo ragazzo, con tanto di ciuffo biondo tra i capelli neri e orecchino dorato. Aveva anche un  bel po’ di tatuaggi, lasciati scoperti da maglie a maniche corte e leggermente scollate e Louis avrebbe scommesso che aveva anche il torace pieno.                                               
L’unica voce che poteva dirsi fondata, anche se non confermata, era quella che riguardava la sua sessualità. Si diceva – Louis l’aveva sentito negli spogliatoi prima dei provini per la squadra di calcio, perché sì, aveva ceduto al padre – che fosse gay. Inizialmente aveva pensato ad un’altra sciocchezza pensata per frenare l’immaginazione delle ragazze di quegli energumeni che di certo sbavavano dietro Zayn. In seguito però, aveva iniziato a farci caso: il cappotto lungo di Zayn, quello nero, presentava un vago taglio femminile e anche le sue movenze delicate, eleganti, da pantera, non potevano dipendere tutte dal suo sangue orientale. C’era un altro ragazzo a scuola, dal nome impronunciabile e lo stesso asiatico, che era sì slanciato e bello – non quanto Zayn, ovviamente – ma si muoveva come un qualsiasi altro ragazzo sedicenne: con le gambe divaricate, leggermente storte per il calcio, piedi a papera. Zayn aveva l’eleganza di una regina d’Inghilterra e la sinuosità di un animale della giungla, di quelli di cui Louis aveva letto nei romanzi di Emilio Salgari. Degno di un personaggio di uno dei migliori romanzi, di quelli che leggi troppo in fretta perché il finale fa gola, ma che non vorresti mai finire per paura che il sogno finisca.                                                            
Perciò sì, aveva deciso che per Zayn ne valeva la pena.    

Letteratura era sicuramente la sua materia preferita. In primis, perché aveva letto quasi tutti i libri di cui la professoressa parlava ed era avvantaggiato sul resto della classe – non che non li rileggesse, a volte – e in secondo luogo, perché in quell’aula i banchi erano disposti a due a due e poteva avvicinare Zayn. E lo aveva fatto, facendogli cenno di sedersi vicino a lui. La risposta del ragazzo era stata un sopracciglio alzato, ma aveva acconsentito, buttando lo zaino – nero, che sorpresa – sopra alla sua parte di banco, prima di sedersi.   
“Louis Tomlinson” si era presentato, sorridente, porgendogli la mano. Zayn l’aveva guardato, prima con sufficienza e poi divertito.                                                            
“Lo scrittore rinnegato” aveva affermato “sì, ho capito chi sei.” All’aggrottamento della fronte di Louis, aveva riso, il che non aveva fatto altro che confondere ancora di più il giovane Tomlinson.                                   
“Che intendi?” aveva chiesto, curioso come non mai, affascinato da quella voce e da quelle affermazioni. Anni più tardi, rendendosi conto che Zayn sarebbe stato una delle più grandi dannazioni della sua giovane vita, si sarebbe maledetto per aver posto quella domanda la cui risposta l’avrebbe fatto definitivamente innamorare. In quel momento, invece, voleva solo sapere. Forse, il suo difetto più grande.                                                          
 
“Porti le lenti a contatto, ma in biblioteca te le togli sempre con un sospiro di sollievo che probabilmente sentono fino in Scozia. Sei nella squadra di calcio, ma non siedi con loro, né con nessun altro. Hai sempre i capelli spettinati e il viso e le dita sporche di inchiostro. O sei autista o sei uno scrittore.”                                            
“Credo di essere entrambi.”                                                                                                                                                  
“Uno scrittore autista. Un piccolo genio.”                                                                                                                            
“In realtà potrei fingere di essere uno dei due. Sta a te scoprire quale.” Il piccolo ghigno di Louis si riflesse in quello di Zayn e quello fu solo l’inizio di tutto.                                                                                                                               
“Brutta razza, gli scrittori.” Ma quello fu solo un sussurro e sfortunatamente, Louis non lo sentì.   

                                    

Inutile dire che Zayn mandò a monte anni e anni di pratica in maschere e bugie. Con lui Louis poteva essere vero e si rifiutò di essere qualcun altro per gli altri. Ritornò ad essere il taciturno di prima, quello che seduceva la bibliotecaria per poter portare via più libri di quanto concesso, la sua stanza diventò un caos di fogli scritti e libri aperti ovunque. Zayn lo chiamava dono, Louis a volte lo definiva maledizione.                                
Creava mondi, quando scriveva, e non esisteva più nulla. Aveva il controllo di tutto, anche se spesso riferiva a Zayn di personaggi che si ribellavano alla sua volontà, facendolo ridere. Non poteva farci niente. Ognuno di loro respirava e viveva all’interno della sua testa e scalciava, piangeva e urlava per venire fuori, per essere considerato e venire al mondo. Ognuno di loro voleva la sua storia, voleva vivere e affascinare. Il bisogno di Louis di scrivere era quasi ossessivo, malato: ne aveva bisogno. Per lui era come respirare. Era come se per vivere avesse bisogno di descrivere le vite degli altri.                                                                            
Zayn una volta gli disse che stava anche in questo, la sua bellezza come persona: l’esser capace di entrare nelle menti di mille persone diverse, di immedesimarvisi, di farle vivere attraverso una penna. Louis era semplicemente arrossito perché no, non credeva di essere nulla di che e la sua penna non avrebbe mai sognato di creare qualcuno tanto perfetto quanto Zayn, fin che Dio non gliel’aveva mandato a liberarlo dal suo quotidiano opprimente. Ma i pomeriggi passati con Zayn, trascorsi a fumare, ridere, vedere film, andare sullo skate o semplicemente in silenzio, con Louis che scriveva o leggeva mentre l’altro disegnava, mandarono in bestia i genitori di Louis. Gli proibirono di vedere Zayn, lo bandirono da casa, gli confiscarono lo skate e il computer. Louis non veniva scalfito da nulla. I suoi erano troppo occupati con quattro figlie e due in arrivo per accorgersi di Zayn che entrava dalla finestra, delle sigarette in fondo al cassetto o del secondo skate che aveva nascosto sotto il letto. Non gli serviva un computer per scrivere. Bastavano le sue mani. E un po’ era contento che avessero reagito così: un po’ perché era comunque un adolescente in piena fase di ribellione e un po’ perché quel dolore che non poteva evitare di sentire a stringergli il petto era aria pura per la sua ispirazione. Uno scrittore senza ispirazione è una persona felice, lo aveva imparato a sue spese, specialmente a causa di Zayn.                                                                                                                                      
 
Il fatto era questo: Louis ne era innamorato perso, ovviamente. Zayn era tutto, l’inizio e la fine del mondo, l’est e l’ovest del sole, l’alfa e l’omega di se stesso. Perché Zayn l’aveva riportato alla vita, lo aveva reso libero. Zayn era la sua musa: se c’era una cosa che Louis sapeva, era che non avrebbe mai smesso di scrivere di Zayn, dei suoi occhi dorati, del suo modo buffo di sorridere, con la lingua a farsi strada tra i denti. Non avrebbe mai smesso di descrivere il rumore del suo cuore che si zittiva quando Zayn gli parlava di Liam. Lo aveva conosciuto in chat, in un gruppo su Facebook di appassionati di fumetti e film Marvel. Zayn ne era letteralmente ossessionato e aveva vista riflessa in questo ragazzo dall’aria vagamente etero e da cucciolo bastonato la sua stessa passione. Avevano cominciato col parlare fino a tarda notte, tanto che era capitato più di una volta che Zayn crollasse senza forze sul banco durante la lezione o con la faccia immersa nel budino al cioccolato di Louis (che in teoria avrebbe giurato di non rivelarlo mai, ma gli scrittori non sono il massimo per quanto riguarda la segretezza, perlomeno non questo.) Dopo neanche un mese di conoscenza erano iniziate le chiamate su Skype: Zayn aveva iniziato a disegnare Liam ovunque e a parlare continuamente di lui, della sua gentilezza e del suo sorriso. Zayn innamorato era qualcosa che la natura pareva non poter concepire, o almeno non poteva Louis: per lui Zayn era il sole, Zayn era immune, Zayn era al di sopra delle debolezze umani, di quei sentimenti che Louis era capace di rivolgere solo ed esclusivamente a lui. Liam aveva fatto l’impossibile: aveva riportato Zayn sulla terra, l’aveva distolto dal suo essere straordinario e l’aveva reso una persona ordinaria. Cosa che Louis non poteva sopportare. Ci aveva provato, sì. Ma lui non era fatto per essere ordinario e stare con cui lo era, no: Louis era straordinario, Louis voleva vivere per scrivere e scrivere per vivere.                                                                                                                                                                 
Decise che per Zayn non ne valeva più la pena, e per un po’ la loro amicizia fu in crisi. Continuavano a vedersi, certo, ridevano e scherzavano insieme, ma Louis aveva posto un muro tra loro e Zayn se n’era accorto, sin da subito. All’inizio dispiaciuto – e per inizio intendo circa due secondi, di fondo rimaneva la persona fuori dal comune di cui Louis si era innamorato – aveva poi riso, scuotendo la testa.                                     
“L’ho sempre detto che voi scrittori siete una brutta razza.”                          

                                                             

Quando, nelle lunghe notte insonni che non erano così rare per una persona pensierosa come lui, trascorreva le ore scrivendo o guardando serie tv o leggendo libri consigliatogli da Zayn, Louis si era reso conto di avere una particolare preferenza per certi tipi di serie e di sceneggiature: adorava quelle in cui il protagonista aveva un segreto da nascondere, spesso sporco o riguardante qualcosa di sovrannaturale. Andava matto per i segreti, certo, ma nel momento in cui venivano svelati: la reazione che ogni personaggio aveva era per lui motivo di studio, d’interesse. Le reazioni umani erano per lui una fonte di conoscenza incommensurabile, infinita. Le adorava, adorava tutte le piccole sfaccettature che rendeva una persona tale. Ognuna con le proprie manie, le proprie ossessioni, piccoli particolari che rendevano unico qualcuno. E la sensazione, l’eccitazione del segreto che sveniva svelato era talmente devastante per lui da essere quasi orgasmica, forte quasi quando, grazie a un’ondata d’ispirazione, riusciva a scrivere in una sola tirata un racconto. Era una specie di droga, per lui.                                                                                                                      
Zayn diceva spesso che Louis funzionava a specchio: diventava ciò che amava. Ormai era diventato come i protagonisti dei suoi amati film o serie tv: un disadatto che nasconde fin troppo cose ai suoi genitori e con  un solo amico, talentuoso ma schivo e insicuro, ambizioso ma silenzioso.                                                                      
“Non avrai mai il coraggio di dirglielo” aveva detto Zayn, quel famoso giorno in cui tutto era cambiato.          
Louis lo aveva ignorato, continuando a contare i soldi che doveva versare per l’affitto di un appartamento a Londra.                                                                    
“Lo farò invece” il tono era rabbioso, trafelato “dovresti credere in me.”                                                                                      
“Io ci credo, Lou” aveva replicato Zayn, addolcendo la voce “ma sei tu che  non lo fai. E poi Doncaster è uno sputo in confronto a Londra, come farai da solo?”                                                                                                           
“Cristo!” aveva quasi urlato, sbattendo le banconote sul legno del tavolo “Sai, se tu non andassi a Manchester dal tuo fottuto ragazzo non dovresti preoccuparti in questo modo! Ci hai pensato? Ci hai pensato anche solo per un momento che io potrei aver bisogno di te?”                                                                                              
Non l’aveva mai visto così: Louis non aveva mai pianto, in quattro anni di amicizia. Sempre al riparo dietro a uno sguardo gelido e disinteressato, un sorriso dolce ma troppo cortese per esser vero, ad eccezione di pochi giorni buoni o di quando Zayn lo faceva fumare troppo. Avrebbe giurato di sentire il rumore di un muro crollare, bombardato dalla paura. Perché Louis amava i segreti, ma non era un personaggio dei suoi amati libri o serie tv. Non poteva reggere, soprattutto considerato ciò che stava per fare. Un cattivo presentimento s’insinuò in Zayn, già preoccupato per quello che era il suo migliore amico. Quel ragazzino snob, egocentrico, disadattato, ma che lui aveva imparato ad amare. Aveva imparato a sorridere alle sue imprecazioni colorite quando non riusciva in un trik sullo skate o quando non prendeva il voto in cui sperava, ad amare la sua mania di perfezione in netto contrasto con quell’anticonformismo che tanto andava predicando che era radicato nella sua natura di scrittore. Aveva imparato a rispettare i confini che imponeva a se stesso per non affezionarsi troppo, a non dare peso agli insulti cinici che spesso Louis gli sputava contro. Ad amare la sua ambizione, i suoi piccoli gesti d’affetto tanto significativi quanto rari.                                                                                            
“Lou, ti prego.” E il suo tono era quasi implorante, e anche tutti i suoi muri erano caduti, perché Louis, il cui solo desiderio era essere straordinario, stava cedendo ai sentimenti come una qualsiasi persona ordinaria e allora, allora doveva cedere anche lui, come faceva con Liam, perché se lo meritava. E piansero, piansero, perché sapevano. Sapevano che il sogno era finito, che era ora di dividersi, che non sarebbero stati più ZayneLouis, che non sarebbero più potuti correre l’uno sotto casa dell’altro se aveva bisogno, perché a dividerli ci sarebbero stati chilometri. E allora piansero, piansero senza guardarsi in viso.

Londra era una gigantesca cartolina. Di quelle che Louis appendeva in numero spropositato in camera sua e che ora non era più sua, che mostrava ai genitori in continuazione perché il suo unico desiderio era quello di recarvisi. Nemmeno tre giorni in quella città, e Louis se ne innamorò completamente. Si innamorò del cielo sempre plumbeo, della marea di turisti che popolavano ogni giorno le strade; s’innamorò dell’aria fredda e del suo respiro che si condensava in piccole nuvole di gelo. S’innamorò del Big Bang di notte e della vista del London Eyes, di quel piccolo negozietto nascosto che vendeva vecchi libri. S’innamorò dell’università, della passione della sua insegnante di lettere e del caldo bar dove andava a studiare.                               
Perciò, il secondo amore di Louis fu Londra, e questo quasi lo ricompensò di ciò che aveva perso, anche se per chiunque altro sarebbe stato troppo. I suoi genitori non avevano reagito molto bene al suo coming out e alla decisione di frequentare la facoltà di lettere al King’s College, ma detta così è quasi un eufemismo.             
Che accidenti vuol dire che sei gay?Johanna è sbiancata e si è accasciata sulla sedia, manco Louis le avesse detto di avere una qualche malattia mortale. Il viso del padre invece è paonazzo: l’ha visto così arrabbiato solo quando gli aveva riferito di aver appeso le scarpette al chiodo.                                  
“Beh, in termini volgari” dice Louis “significa che mi piace il cazzo. Che mi piace succhiarlo. In realtà sono anche piuttosto bravo.*” E a quel punto anche il padre si è seduto, completamente sconvolto.                     
“Vuoi dire che non sei vergine?!” ed eccolo lì, l’urlo disarmato della madre.                                                                  
“Avevi dubbi?” Il tono di Louis è beffardo, ma dentro di sé crolla nel vedere i suoi genitori crollare, per normale empatia. Vorrebbe sotterrarsi, ma non lo fa. Rimane impassibile, sfacciato e sicuro.                              
“Chi.” Non è una domanda, quella della madre, e a Louis fa quasi paura. “Chi è stato?”                                               
“Zayn” rivela, con calma e la madre ride, prendendosi con due dita la radice del naso e chiudendo gli occhi.   “Io l’ho sempre saputo che quel ragazzo non ti fa bene. Ti ha deviato” sputa Mark, con cattiveria.                    
“Sono nato così, papà, accettalo!” urla Louis “E poi gliel’ho chiesto io. Non avrei concesso a nessun altro la mia prima volta e lui ha capito, accettando nonostante sia fidanzato.”                                                                           
“Sì, certo” Johanna lo sbeffeggia, quella per lui è una cosa seria e vorrebbe quasi prenderla a schiaffi, quasi “e cos’è questa storia che frequenterai lettere? Tu farai economia.”                                                                              
“No, farò lettere. Ho già confermato l’iscrizione e trovato un appartamento, è tutto fatto.” 
Louis ama il silenzio, generalmente, lo rilassa. Ma il silenzio che segue che la sua affermazione è pesante, austero.                                      
Fuori da questa casa.” Le parole di Mark fanno male, rompono il silenzio nel peggiore dei modi e sono pronunciate da una tale rabbia che Louis sa che la conversazione è finita lì. Perciò, con il suo cuore che si zittisce ancora una volta, prende la sua borsa, già pronta, e se ne va.                                                                            

Era riuscito ad ottenere, grazie a una telefonata monosillabica, il permesso di vedere le sue sorelle. Grazie al lavoro part time al bar e alla borsa di studio, i suoi non gli sarebbero mancati per nulla, ma non potevano togliergli la felicità di vedere Lottie alle prese con la scuola da estetista, di ascoltare Fizzie che gli raccontava della sua cotta del mese e di assistere alle scenette delle gemelle o alle prime parole dei nuovi arrivati, Ernest e Doris. Loro erano parte di lui.                                                                  
Con Zayn era andata meglio di quanto avesse sperato. Non lo andava a trovare, no, sarebbe stato troppo, anche se probabilmente si sarebbero visti a Capodanno: era tradizione festeggiare i loro compleanni la notte del nuovo anno, che era quasi equidistante da entrambe le date. Se c’era una cosa che Louis era sicuro che Zayn non avrebbe lasciato perdere erano le loro tradizioni. Il giorno della loro partenza, perché sì, era partiti insieme per renderla meno dolorosa, gli aveva detto, testuali parole “Sai, quel coglione fissato del mio ragazzo il giovedì sera fa almeno un’ora e mezza di esercizi.” Inutile dire che quell’ora e mezza era diventata l’ora e mezza in cui cercavano di riassumere  la settimana passata, le persone incontrate, le storie scritte e le cose da coppietta terribilmente melense che finalmente Zayn e Liam potevano fare e che Zayn urlava nelle orecchie di Louis, anche se lui tentava di urlargli sopra e di farlo stare zitto, perché Zayn sapeva benissimo che in realtà Louis stava sorridendo.                                                                                                              
A dir la tutta, era l’unica ora e mezza durante la settimana nella quale Louis sorrideva, tralasciando quando lo faceva attraverso i suoi personaggi. All’università non c’era nessuno di interessante e al lavoro erano tutti sempre di fretta o stressati, per una semplice canna o una birra in compagnia.                                                                       Louis invece, oh, Louis si riconosceva. E non per i capelli che per sfizio aveva deciso di tingere di rosso, non per i tatuaggi che, sempre per sfizio, gli coprivano solo il braccio destro o per lo skateboard su cui si ostinava ad andare in giro nonostante il clima della città. Si riconosceva, tra mille, per le occhiaie che tentava di coprire con la montatura quadrata degli occhiali da vista. Per lo zaino che portava ovunque e che conteneva solo un vecchio quaderno nero su cui annotava di tutto. Per le maglie troppo grandi, la barba di qualche giorno, il callo tra indice e medio che compare quando si tiene troppo a lungo la penna in mano. Per i segni di penna sulle maniche delle camice e sulle dita, per lo sguardo costantemente perso, per il parlar poco e lo strofinarsi costantemente le mani quando necessitava di scrivere. Per i modi di dire a volte anacronistici, le risate senza motivo e i riferimenti comprensibili solo a lui.                                                              
Lo avrebbe riconosciuto chiunque. O almeno, chiunque con una buona capacità di osservazione e dall’animo discretamente romantico. Un qualcuno che notasse i particolari. Qualcuno un po’ come Zayn, che avesse letto troppi libri e visto troppe serie tv, magari dall’animo meno cinico. Qualcuno che alla sola vista sorridesse e scuotesse la testa, sussurrando:                                                                                                            
“Brutta razza, gli scrittori.”                                                                                                                                                     
Quel qualcuno non era Harry, ma lui ci provò lo stesso.

“Che cosa pensi della frase Amor omnia vincit?” Quella voce era roca, ma sottile, un tenue bisbiglio.                              
“Nei Triumphi di Petrarca” a Louis non importava di chi fosse quella voce, fin che poteva citare il suo amato Petrarca “figure simboliche vanno a rappresentare entità astratte in continuo conflitto tra loro. Sull’Amore vince la Castità, sulla Castità vince la Morte. Non pensare che finisca con la Morte, però, perché sulla Morte trionfa la Fama, che però viene sconfitta dal Tempo, a cui però l’Eternità non lascia scampo. Ci sono un mucchio di cose che vincono sull’Amore, è inutile ostinarsi a credere che sia la forza più grande di tutte.”       
“Un po’ cinica come idea, non credi?”                                                                                                                           
“Il cinismo è tra i miei più grandi pregi.”                                                                                                                            
“È anche curioso che tu mi abbia citato uno scrittore piuttosto che darmi la tua opinione.”                                            
“Sono piuttosto bravo anche a sviare i discorsi, lo ammetto.”                                                                                                      
“Ti va di uscire con me?”                                                                                                                                                                     
Non fategliene una colpa, se aveva detto di sì. Quando si era girato, si era ritrovato davanti a un paio di occhi così verdi da far male e a una coroncina di fiori poggiata su riccioli scuri.                                                    
No, Louis non poteva dire di no a qualcuno che sembrava un personaggio di un libro.

Il mercoledì prescelto da Harry, il cui colore preferito è il rosa e che gli aveva comunicato luogo e orario con un biglietto laccato di ceralacca e profumato di rose lasciato sul suo bancone al bar, era un giorno di pioggia. A Louis non era importato gran che, aveva sempre ritenuto che la pioggia su Londra avesse un che di mistico. Perciò, contro le leggi della fisica e della logica, era uscito a bordo del suo skateboard, con tanto di vans nere e maglietta a maniche corte, perché la pioggia era sua amica.                                                          
Harry lo stava aspettando, sotto la pioggia, con i ricci bagnati a  sfiorargli le spalle e la bocca socchiusa, ad ammirare il cielo. Aveva addosso una giacca di jeans dal collo di pelliccia, ormai appiccata alla pelle a causa dell’acqua che gli scivolava sul corpo come se lo stesse venerando.                                                                            
“In una vita passata sei stato un personaggio di Thomas Mann.” Giorni più tardi, Louis si sarebbe rimproverato per la scelta dell’autore, nonostante l’amore con cui Mann descrive personaggi come Inge o Hans in Tonio Kroger, perché la bellezza di Harry era pari a quella del dannato Dorian Grey di Oscar Wilde.                  
Avrebbe cambiato idea ancora pochi giorni più tardi, perché aveva letto troppi libri ed Harry era troppo per qualsiasi autore.                                                         
“Io mi vedo più come un Tassorosso imbranato ad Hogwarts” aveva confessato Harry, arrossendo, sebbene l’acqua gelida avesse portato il suo corpo a uno stato rasente l’ipotermia “ma me lo farò andar bene.”             
Harry non capiva i riferimenti di Louis. Lui era innamorato di romanzi fantasy, di saghe interminabili ed eroi meravigliosi. A Louis non importava, perché lui leggeva di tutto.                                                                             
“E io che sono? Il Serpeverde per il quale ti prenderai una polmonite? Vieni dentro, idiota.”                                        
“Avevo paura che non mi vedessi, e poi mi piace la pioggia.” Harry continuava ad arrossire e Louis si chiede, ancora oggi, come diavolo fosse possibile.                                                                                                                   
“Io ti vedrei anche in mezzo a mille persone” aveva ammesso, senza vergogna, perché se c’è una cosa che Louis non fa, è vergognarsi. Gli era stato insegnato dalla vita che a vergognarsi di se stessi o dei propri sentimenti ci si rimette il proprio io, la propria integrità, cosa che per Louis era fondamentale.                               
“Lo sapevo” Harry lo aveva preso per mano, trascinandolo dentro al bar che sarebbe diventato il loro posto “sei un grintoso Grifondoro, in fondo in fondo.”

Il fatto era questo: Harry aveva le fossette e una coroncina di fiori. Una coroncina di fiori, accidenti.                      
"Ma perché la metti?”                                                                                                                                                                    
 
“Non ne ho idea” aveva riso. La risata di Harry riusciva a bloccare i suoi pensieri, a far riposare la sua mente, cosa che non era mai successa, mai. Nella sua mente c’erano sempre personaggi urlanti, frase che fremevano per essere scritte, storie desiderose di un finale degno di nota.                                                                                                                                      
Se in poche settimane avevano cominciato a uscire ogni giorno, a discutere su libri che Harry avrebbe dovuto leggere e che Louis avrebbe voluto scrivere e se Louis amava quando Harry lo interrompeva e cominciava a parlare del nuovo libro di una qualche saga fantasy dal nome impronunciabile, nessuno deve saperlo. Se Louis aveva baciato Harry una settimana dopo avergli spiegato che ci sono forze infinitamente più grandi dell’amore, nessuno, eccetto il lampione che li sovrastava severo, quasi a rimproverare uno dei due – chi, ancora non è dato saperlo – deve saperlo.                                                                                                            
Louis aveva smesso di fumare, perché a Harry non piaceva. Il suo piccolo appartamento aveva cominciato a profumare di rosa, perché nei pomeriggi di pioggia lui e Harry si chiudevano lì, a guardare vecchi film della Disney e a giocare alla play. Harry era un totale disastro.                                                                                                            “Perché mi proponi sempre di giocare se sei una tale frana?” aveva riso un giorno Louis.                                         
“Perché a te piace.” Se Louis poi l’aveva baciato con le labbra piene di grazie che non sarebbero mai stati pronunciati e gli occhi brillanti di promesse che non sarebbero mai state mantenute, non è dato saperlo.      
Quella era stata la prima notte che Harry aveva passato da Louis, perché dopo quel bacio durato ore – o forse minuti o forse secondi, ma che importa? -  si erano addormentati abbracciati l’uno all’altro, come naufraghi che hanno finalmente trovato qualcosa a cui aggrapparsi per sopravvivere.                                            
L’amore lo avevano fatto poche sere dopo, perché Harry ha una farfalla tatuata sulla pancia e Louis ha gli occhi azzurri e sono fatti per essere. Lo avevano fatto sul divano, perché il letto è sopravvalutato, e avevano pianto, avevano riso, avevano sorriso l’uno sulle labbra dell’altro; erano diventati uno solo, ma forse lo erano già, le loro anime si erano incontrate in un universo di gemiti mal trattenuti, lenzuola strette e bocche spalancate da orgasmi travolgenti come uragani spietati.                                                                                
Se Louis era rimasto sveglio a guardarlo dormire, ammirando quella bocca che definirla di rose era troppo poco, quella pelle che definirla etera era fin troppo scontato, quel corpo perfetto che definirlo opera scultorea era un clichè, non ci è dato saperlo.                                                                                                                    
Da quella notte Louis si svegliava con odore di pancakes e the caldo, ma con i piedi freddi, perché Harry si muoveva troppo durante la notte. Si copriva di più, perché Harry aveva sempre paura che prendesse qualche malanno. Per di più usava la sua giacca, quella di jeans, perché se ne era innamorato.                     
Passava la sua pausa pranzo, all’università, sotto una quercia del parco poco distante anche dal liceo di Harry, sotto la quale il riccio sgattaiolava per avere la sua dose di “Louis giornaliero.”                                            
“È che ti amo così tanto, Lou.”                                                                                                                                             
 
Louis non gli diceva ti amo, perché non pensava servisse. I suoi baci, i suoi sospiri, le sue carezze, parlavano, urlavano il suo amore per quel bambino ingenuo e innamorato dell’idea della vita.                                                  
 
I suoi tatuaggi gli urlavano ti amo. Un mese dopo aver fatto l’amore per la prima volta, una bussola svettava sul braccio di Louis, avvolta nella plastica, così come il bicipite sinistro di Harry, a coprire un maestoso veliero. Così, accanto al Far Away che gridava la sua voglia di scappare da una vita che non sentiva sua e i tatuaggi fatti con Zayn, la pelle di Louis aveva il carico di un’altra promessa: l’amore per Harry.                                
E forse era troppo presto, forse avrebbero dovuto aspettare per farsi una promessa del genere. Louis però non era mai stato molto razionale e diavolo, Harry portava una coroncina di fiori.

Louis e Zayn avevano scoperto Skype. O meglio, grazie al migliore amico di Harry, un brufoloso irlandese di nome Niall, avevano scoperto che nell’appartamento di Louis connessione sufficiente per un collegamento Skype c’era solo nel bagno. Era stato imbarazzante dovergli presentare Harry in quel luogo stretto e ancor di più lo era chiamarlo ogni giovedì per un’ora e passa mentre Harry e Niall guardavano un film nel salone adiacente: si poteva pensare che facesse tutt’altro. Non era una bella situazione, soprattutto perché quel biondino provava un forte odio nei confronti di Louis: Harry lo giustificava con un prepotente senso di protezione, ma Louis li aveva sentiti. A Niall non piaceva.                                                                                                
“Come fa a non piacerti? È il principe azzurro.”                                                                                                                
“Il principe azzurro dei punk stronzi.” Harry aveva riso, di quella risata esasperata che tirava fuori ogni volta che Louis diceva, a suo parere, qualche stupidaggine.                                                                                                                        
“Non mi dirai che non ti piace per il suo look. Io lo trovo un sacco sexy.”                                                                           
“Lo sai che non è per quello. Non mi piace e basta. Lo sai che ho un sesto senso per queste cose.”                                      
“Solo perché hai previsto la fine di un paio di mie relazioni non vuol dire che tu abbia i superpoteri, Nialler.” 
“Tutte” aveva rettificato Niall “io ho previsto la fine di tutte le tue relazioni, Haz. Dalla prima all’ultima. Anche quando eri convinto che tu e Nick sareste stati insieme per sempre.”                                                                           
“Con Louis è diverso” aveva affermato Harry, concludendo la conversazione, ma anche un sordo avrebbe capito che un dubbio terribile si era insinuato in lui.                                                                                                                     
“Oh, andiamo Tommo, non darai peso alle parole di un marmocchio!” aveva esclamato Zayn, incredulo.      
“È il suo migliore amico, Zay.” Non era nel panico, no. Forse solo un po’.                                                                            
“Non significa nulla! Io mica ti ho ascoltato quando mi hai detto che Liam non ti piaceva!”                                          
“Solo perché sono un sociopatico e perché mi consideri un coglione.”                                                                            
“Perché tu sei un coglione e un sociopatico” il tono di Zayn era divertito, ma quasi intenerito “e perderai altri punti nella mia scala delle amicizie se ti lascerai sfuggire Harry per una paranoia. Lui ha un’influenza fin troppo positiva su di te.”                                                                                                                                                                    “Che intendi?” Alla domanda Zayn si era come bloccato, come se fosse indeciso se dargli o no la risposta. Come se da quella risposta dipendessero troppe cose.                                                                                                                       
“Ti rende felice” aveva ceduto, alla fine, più per correttezza che per amor di Louis “spensierato. Come se non avessi nessun pensiero in mente.”                                                                                                                                            

Quella notte, dopo che Harry si era addormentato, Louis si era seduto alla scrivania, con una tazza di the. Aveva preso il suo quaderno, quello nero, quello che ricomprava sempre uguale all’originale, regalo di Zayn, perché ne finiva uno ogni due mesi. Quello lì durava da più di quattro, da quando conosceva Harry.                  
Lo aveva aperto, impugnato la penna. E niente.                                                                                                                     
Le voci nella sua testa erano rimaste in silenzio. O forse erano scomparse. Louis preferiva la prima opzione, la meno dolorosa e la meno ovvia. Non c’era niente. Né una storia, né un volto, né un misero dialogo. Nulla. Quelle voci che gli avevano fatto compagnia per tutta la vita, quelle storie che lo avevano tenuto sveglio fino a che non fossero state trascritte per intero su carta, quei personaggi che tanto aveva amato, odiato, non c’erano più. Vedeva tutto bianco e non sentiva nulla. Aveva un tappo sulla fantasia, un qualcosa che bloccava la sua natura di scrittore, un qualcosa che non andava. E capì immediatamente cos’era.                         
Aprì cassetti, sfogliò quaderni, rilesse appunti. Trovò quella frase, scritta in un moto di solitudine e consapevolezza, sulle pagine del suo primo quaderno, l’originale, quello che aveva dato inizio a tutto.                       
Uno scrittore senza ispirazione è una persona felice.

Successe come con Zayn. Un giorno prima Louis c’era, il giorno dopo non c’era più. Era assente, scostante, freddo: nei suoi baci non c’erano più grazie e nei suoi gemiti non c’erano promesse. Era diventato tutto spento, meccanico, abitudinario. E Harry poteva anche avere una coroncina di fiori sui ricci, ma non era uno stupido. Si era accorto che Louis aveva ricominciato a fumare. Che mancava i loro appuntamenti sotto la quercia. Che non lo stringeva quando dormivano, ma si alzava e andava a mettersi alla scrivania, passando anche ore sveglio a fissare un foglio bianco che non veniva mai riempito.                                                                                    
Aveva capito che soffriva, Aveva notato i singulti mal trattenuti quando quel foglio si rifiutava di farsi riempire, quando le sue preghiere non venivano esaudite. Aveva visto i suoi occhi spegnersi, e quel blu brillante era diventato un azzurro gelido. Non lo guardava più come prima, aveva posto un muro.               
Harry aveva smesso di mettere la sua coroncina di fiori.

“Almeno guardami in faccia quando ti parlo, cristo!”                                                                                                  
Harry non era mai stato il tipo che sta zitto. Che subisce le angherie e rimane indifferente. Harry è un uragano, Harry è passione, Harry è straordinario. Era l’uragano che aveva travolto Louis e lo aveva strappato alla sua vita sociopatica, che lo svegliava alle due di notte per fare l’amore o che in pieno novembre gli chiedeva di accompagnarlo al mare. Harry rappresentava per Louis tutto ciò che era fuori dagli schemi, tutte le eccezioni che la sua razionalità non gli permetteva di accettare con scioltezza. Per dirla come Oscar Wilde, rappresentava tutti i peccati che non avrebbe mai avuto il coraggio di commettere. Harry era la felicità di Louis e la sua dannazione. Perché Louis era uno scrittore, e accidenti se gli scrittori sono una brutta razza. Hanno bisogno di vivere per scrivere, ma se vivono non hanno tempo per scrivere. Hanno bisogno della felicità, come tutti gli essere umani, ma la loro penna si nutre di dolore. La felicità non è una cosa che possono sopportare per sempre. Ovviamente dipende da soggetto a soggetto, ma Louis era uno di quelli. Uno di quelli che si nutriva della solitudine, della malinconia, perché i suoi personaggi vivevano di esse. Può apparire morboso, ma è così, purtroppo. Quel tocco di magia che Harry gli aveva regalato sarebbe rimasto per sempre a colorire i suoi scritti, permettendogli di scrivere meravigliose racconti, ma per altri, non per sé. La natura di Louis gli impediva di avere un lieto fine.                                                                                   
“Io ti sto guardando” era stato il sussurro, appena percepibile di Louis. Il rumore di un paio di ali che si aprono sarebbe stato più udibile e più conciso di  quelle parole.                                                                              
“Non è vero.” Era un singhiozzo e costrinse Louis ad alzare lo sguardo. Harry non stava piangendo, Harry non piangeva mai, perché niente ferisce una forza della natura. Qualcosa però, poteva scalfirla, e Louis stava facendo questo: lo stava allontanando, gli stava dilaniando il cuore, togliendogli la sua anima gemella. Perché forse erano stati fatti per essere, ma qualcosa in Louis non era d’accordo, in un terribile errore di produzione della creazione. Louis non aveva mai voluto essere un clichè, ma inconsapevolmente stava seguendo le orme di molti grandi artisti: quella della solitudine e della dannazione di una misantropia autoimposta da una convinzione quasi malsana.                                                                                                                 
“Harry, per favore…”                                                                                                                                                          
“Per l’amor del cielo Louis, almeno abbi il coraggio di dirmelo. Se vuoi lasciarmi va bene, anzi non va bene, ma tu vuoi farlo e io voglio sapere perché. Dimmi perché!” La voce si era spezzata nel pronunciare l’ultima parola e Harry aveva sospirato, chiudendo un attimo gli occhi. Erano sotto la loro quercia, in un appuntamento che stranamente Louis non aveva saltato.                                                                                                           
Louis aveva abbassato lo sguardo a terra, i suoi occhi di nuovo blu, di un blu feroce, pieno di rabbia rivolta a se stesso e del pizzico di follia di cui sarebbe stata intrisa quella frase, la frase che avrebbe messo la parola fine, che pronunciata da altri sarebbe parsa senza senso, ma che a entrambi parve terribile.                                    
“Io ti amo, Harry” ed era la prima volta che lo diceva e mentirei se dicessi che il respiro di entrambi rimase regolare “ma hai messo a tacere le voci nella mia testa, e io questo non posso accettarlo.”                                      
E poi fu solo silenzio, un silenzio durato anni, minuti, secondi, dopo il quale Harry aveva alzato la testa, gettato la sua coroncina di fiori a terra e lo aveva baciato. Con rabbia, passione, affondando le mani nei capelli color caramello di Louis e tirandoli ferocemente. Fu l’ultimo bacio, l’ultimo incontro di quelle lingue nate per danzare insieme e di quelle bocche complementari. Quando si staccarono e i loro occhi si fusero, quelli di Louis a guardarlo dal basso, perché Harry era sempre stato più alto, Harry sorrise.                                                    
“Quindi mi renderai immortale?” Perché Louis gli aveva citato qualcuno, una volta, che aveva detto “Fai innamorare uno scrittore e ti renderà immortale.” 
Louis aveva sorriso e gli aveva preso il volto tra le mani, baciandogli la guancia, prima di sussurrargli contro la pelle.                                                                                
“Renderò noi immortali.”

No, non sarebbe dovuta finire così, ma tu l’hai fatta finire così.                                                                                      
“Louis?” Quella voce la riconoscerebbe tra mille, così bassa e roca, così perfetta. Dio, è diventato un clichè vivente e la cosa è alquanto irritante, ma non gli dispiace più di tanto.                                                                        
“In carne e ossa.” Harry ride, guardandolo dall’alto, con i capelli più lunghi e una strana camicia addosso.            
“E la mia giacca che cerco da quasi un anno.” Louis se la stringe addosso, possessivo.                                                        
 
“Ora è mia” ride Louis, di riflesso a Harry, e le loro risate si sono mancate così tanto che potrebbero scoppiare a piangere da un momento all’altro.                                                                                                                  
“Lo vedo. Allora, cosa ti porta qui? Vai da Zayn?” Louis scuote la testa. Ha visto Zayn solo una volta da quando è partito con Doncaster e si sentono sempre di meno, ma questo non glielo dice.                                    
“Ho letto la tua email e, a proposito, congratulazioni per il diploma” l’altro sorride, orgoglioso “Oxford, eh?” 
“Lo sai, ho sempre voluto andarci. E non solo perché ci hanno girato Harry Potter.”                                                           
Louis potrebbe piangere, perché Harry è sempre lo stesso. Con i riferimenti a Harry Potter e le spille di smile e arcobaleni a ricoprire la valigia rigorosamente rosa.                                                                                            
“E tu?” interrompe i suoi pensieri, sinceramente incuriosito “Ci stai rendendo immortali?”                                   
“L’ho già fatto” il sorriso di Louis è vero, luminoso: Harry non crede di averlo mai visto sorridere così, e capisce finalmente di aver fatto la cosa giusta a lasciarlo andare “ho consegnato il manoscritto stamane.”
“Come si chiama? Sarò il tuo primo lettore. E poi costringerò il resto della popolazione a comprarlo.”              
“Sempre se me lo pubblicheranno” ride ancora Louis “il titolo me l’ha suggerito Zayn. Brutta razza, gli scrittori.” Harry scoppia a ridere e davvero, prenderebbe un treno per Manchester solo per dare il cinque a quel ragazzo dal meraviglioso e cinico senso dell’umorismo.                                                                                 
“Azzeccato, direi. Beh, allora, buona fortuna, Lou.” Gli porge la mano, in un gesto formale a cui Lou, e nemmeno Harry, è abituato. Louis ghigna, scosta la sua mano e si slancia per abbracciarlo.                                   
È un abbraccio di quelli che fermano il tempo, che inebria della sensazione dei corpi allacciati l’uno all’altro, che assomiglia all’incontro di due pezzi di puzzle perfettamente incastrati. Fosse per Harry, rimarrebbe così per sempre ma Louis si stacca, con gli occhi un po’ lucidi e un nuovo sussurro che gli lascia a un soffio dalle labbra, ed è così vicino che Harry pensa a quello che potrebbe fare ma che non fa:                                              
“Ti amo da morire, Haz.”                                                                                                                                                                
Detto questo, e dopo aver depositato un bacio leggero sulle labbra di Harry, scappa via, a bordo dello skate e Harry vorrebbe quasi rincorrerlo, ma poi sorride e s’accontenta. Louis da solo sta meglio, per quando a lui possa far male. Ma se vuole che sia il suo miracolo, deve accontentarsi degli attimi di magia che quel pazzo di uno scrittore deciderà di regalargli. Perciò sospira, e sale sul treno, con un sorriso ebete dipinto sul volto.  
Dietro una colonna, Louis piange, ma è felice. Dopotutto, le contraddizioni sono sempre state il suo forte.  Mentre s’incammina, percepisce chiaramente una ragazza che, dopo averlo osservato e aver probabilmente assistito a tutta la scena, scuote la testa e sussurra qualcosa, che lo fa sorridere.                              
“Brutta razza, gli scrittori.”

 

*Queer as Folk, perchè lo infilo ovunque.

Allora donne, sono tornata, ma probabilmente voi non vi eravate nemmeno accorte che fossi sparita. Questa ff è il frutto di un’ispirazione arrivata circa un mese fa, mentre facevo greco. Che il greco mi abbia dato l’ispirazione, anche se non è propriamente così, per scrivere questo, è abbastanza strano, ma non ci rifletterò più di tanto per preservare la mia sanità mentale. Comunque, sarebbe rimasta in cantiere per un altro mese buono probabilmente, ma oops, il quindici ottobre è il compleanno della mia nana, e non potevo non farle almeno questo piccolo regalo. Spero che ti sia piaciuta, piccolina. Oh no aspetta, ora sei vecchia.   Un parere è sempre gradito, anche di più se è negativo, siate brutali, aw. 
Un'ultima cosa e poi me ne vado, giuro. Volevo citare la frase che mi ha ispirato in parte questa storia, dato che all'inizio non me la fa mettere. Viene dal libro di aforismi di Sara Cassandra, Scrivere fa rima con vivere: "Voglio continuare a scrivere, quindi rifiuto l'amore, perchè l'amore fa dimenticare le cose brutte ma la mia penna si nutre di esse."                                                                 

E ora scompaio.
                                                                                                                    
  
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