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Autore: Ink Voice    18/10/2015    1 recensioni
Come reagireste alla scoperta dell’esistenza di un mondo celato agli occhi della “gente comune”? Eleonora, credendosi parte di questa moltitudine indistinta di persone senza volto e senza destino, si domanderà per molto tempo il motivo per il quale sia stata catapultata in una realtà totalmente sconosciuta e anche piuttosto intimidatoria, che inizialmente le starà stretta e con la quale non saprà relazionarsi. Riuscirà a farci l’abitudine insieme alla sua compagna Chiara, che vivrà con lei quest’avventura, ma la ragazza non saprà di nascondere un segreto che va oltre la sua immaginazione e che la rende parte fondamentale di quest’universo nascosto e pieno di segreti. Ecco a voi l’inizio di tutto: la prima parte della serie Not the same story.
[RISTESURA+REVISIONE - Not the same story 1.2/3]
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga, Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Not the same story'
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XI
Nuove conoscenze

I mesi di gennaio e febbraio mi diedero a malapena la possibilità di realizzare che, in un modo o nell’altro, li avevo trascorsi e vissuti. Volarono via silenziosi e tanto velocemente che mi stranii molto quando la data segnata dal PokéGear, a cui facevo riferimento, indicò che era arrivato il terzo mese dell’anno.
All’interno dell’Accademia non c’erano grosse differenze di temperatura tra una stagione e l’altra, ma a marzo l’ambiente interno riprese a riscaldarsi: per molti facili al prendersi un raffreddore fu un problema, perché bastava uscire un momento fuori per essere colpiti da una ventata d’aria congelante e saltare tre giorni di lezione a causa di una febbre improvvisa. Successe anche a me: non fui molto malata, il picco che arrivai a toccare non superò i trentanove gradi, ma di certo fu una bella seccatura.
Stando a quanto dicevano le schede dei miei Pokémon sul Dex, la mia June era momentaneamente diventata la caposquadra, essendo arrivata al livello 28; poco più sotto di lei si trovavano Altair e Rocky a parimerito, mentre gli altri tre erano al 26. Volevo aspettare ancora un paio di livelli per far evolvere Aramis in Gallade, ostinandomi contro la parte di me stessa che non vedeva l’ora di avere un Pokémon completamente evoluto; pensai, invece, di chiedere una Pietrabrillo per Roselia, così da farla crescere prima degli altri.
Talvolta Aramis si comportava in maniera incomprensibile per me e per quanti mi stavano attorno, perché non gradiva affatto il suo aspetto femminile; era parecchio irritato nei miei confronti poiché ancora volevo aspettare del tempo per farlo evolvere. Dopo un paio di settimane dall’inizio di marzo, June era già una Roserade a cui avevo insegnato delle belle mosse sfruttando qualche MT; però l’isteria di Aramis arrivò a livelli talmente critici che, appena il Pokédex lo confermò al livello 27, gli appioppai tra le manine una Pietralbore e qualche momento dopo mi ritrovai a guardare negli occhi un Gallade più alto di me.
«Piacere, mi chiamo Eleonora. Per caso hai visto in giro un Kirlia maschio con pesanti crisi d’identità? È uno dei miei Pokémon ma non lo vedo più…» feci con un filo di voce. Aramis mi guardò male.
Gallade si dimostrò essere un Pokémon tanto forte quanto bello. Mi piaceva davvero tanto e anche a lui feci imparare mosse niente male. Finalmente il suo portentoso Attacco si sviluppò, tutto insieme con l’evoluzione, e dei Pokémon dei miei compagni di classe, che fino a qualche giorno prima mi avevano dato parecchio filo da torcere, furono sbaragliati dalla potenza della creatura umanoide, la cui combinazione di tipi mi piacque molto - Psico e Lotta. Anche Roserade ebbe modo di farsi valere, i due erano praticamente alla pari; però dopo qualche combattimento smisi di approfittarmi della loro superpotenza per riprendere con Altair, Rocky, Diamond e Pearl.
Anche i Pokémon dei miei amici crescevano e si evolvevano, ed ebbi sempre più spesso modo di combattere pure con Sara, Angie e Melisse. Non ero ancora al loro livello ma di tanto in tanto riuscii a spuntarla; tenni testa anche a Gold, il quale dovette industriarsi con attenzione, vedendo i progressi che avevo fatto. Provai pure una lotta con Daniel ma mi stracciò tanto malamente che non mi rimase altra possibilità che ridere sconsolata.
«Ehi! Mica ti sarai offesa?» mi chiese apparentemente preoccupato.
«No no. Assolutamente» dissi mentre continuavo a ridere.
Nonostante gli impegni scolastici più o meno gravosi, comunque, trovai spesso il tempo di ripensare al fatto che i miei genitori non mi avessero scritto mezza riga per sapere come stavo. Non ero disposta né ad essere offesa, ma anche arrabbiata e preoccupata, per il resto dei miei giorni, né a perdonare questa “mancanza” da parte dei miei: com’era possibile che non avessero saputo nulla dai genitori di Chiara? Perché questi non mi avevano nominata nella loro lettera? Non potevano non sapere che me n’ero andata, peraltro insieme alla loro figlia: frequentandosi abitualmente con i miei genitori era impossibile che non fossero venuti a sapere nulla di me e che non avessero sospettato che io e Chiara fossimo finite nella stessa situazione.
Mi dovetti rassegnare ad aspettare una risposta che, se mai fosse arrivata, mi sarebbe stata mandata da mamma e papà stessi; smisi di preoccuparmi perché, anche se fosse successo loro qualcosa, mi aspettavo che Aristide e la sua compagnia avessero la decenza di sorvegliare le nostre famiglie e informarmi. Il dubbio di quanto accaduto rimase per parecchio tempo e passai molti altri mesi ad arrovellarmi su quel pensiero che mi impegnava molto.
Mi occupavano altrettanto anche altre cose con cui convivevo ogni giorno: la cotta che m’ero presa per Daniel e che non accennava a scemare, la gestione della mia squadra di Pokémon, le amicizie e anche il lavoro che stavo facendo con me stessa, soprattutto fisico. Prendendo spunto dall’impegno e dalla capacità dei Pokémon di crescere imparando a combattere e potenziandosi, un minimo di spirito agonistico era nato addirittura in una come me, seppur prettamente limitato al campo dello sport. Scoprii di essere piuttosto versata per la corsa in velocità anche se avevo parecchio da lavorare sulla resistenza; migliorai molto anche quell’aspetto, comunque, con l’aiuto della severa Sandra e di altri deputati all’allenamento di noi ragazzi, come Rocco, Camilla e il temibile generale Surge.
Mi ero rafforzata parecchio, sia dal punto di vista caratteriale che da quello fisico, in relativamente poco tempo. Eppure mi sembrava un sogno che fossero passati già sei mesi dall’entrata, mia e di Chiara, in quel nuovo mondo: ero soddisfatta di essermi ambientata tanto bene, forse pure più della mia compagna di stanza e migliore amica. Certi ricordi brillavano fulgidi e vividi nella mia memoria e ancora mi emozionavano; ma intere settimane, se non mesi, già erano stati liberati dalla mia mente e non sapevo più dire cosa fosse successo in un certo arco di tempo. Pure allora, in quel marzo sferzato dal vento, non avrei ricordato bene cosa avessi fatto negli ultimi due mesi; solo alcune cose spiccavano, come il problema della lettera mai scritta e i sentimenti per Daniel.
Le sensazioni a proposito della guerra, dopo il sondaggio-intervista che mi aveva dato molto su cui rimuginare verso metà dicembre, si erano nuovamente volatilizzate. Le attività intense e impegnative nell’Accademia miravano sicuramente, tra le altre cose, a distogliere le menti di noi ragazzi dall’aspetto più crudo della guerra. Fu, questo, un pensiero che realizzai solo tempo dopo, quando ebbi modo di riflettere più attentamente, e con più conoscenze, maturità ed esperienza, sulla mia permanenza in quella specie di collegio delle Forze del Bene.
Tuttavia non sempre potevamo evitare di sbattere il naso contro il muro della realtà, soprattutto quanto la sera venivamo richiamati nell’aula sotterranea, o più spesso nella mensa, perché Aristide o qualcun altro ci fornisse delle novità riguardanti l’intera organizzazione. Di solito i ragazzi la chiamavano “l’ora di attualità” perché in effetti venivamo informati anche a proposito di eventi riguardanti il pianeta intero, non solo il mondo Pokémon. Non sempre avevamo modo di vedere la televisione: le novità che ci venivano date erano sicuramente filtrate e selezionate e, le prime volte che ci ragionai, mi chiesi se quella forma di controllo fosse buona o meno.
Presto arrivai a chiedermi a quali livelli d’insensibilità stessi arrivando per non preoccuparmi di basi nemiche scovate e affondate, ma scandalizzarmi se a perdere la vita erano gli uomini delle Forze del Bene in un attacco del Nemico. A quattordici anni, senza aver mai incontrato il Team, chiusa nella fragile campana di vetro e fidandomi ciecamente dell’organizzazione che mi aveva presa sotto la sua ala protettiva, non avevo idea di cosa potesse nascondersi nel banco di nebbia che celava il Nemico stesso. Non sapevo a cosa mirasse, né tantomeno ero a conoscenza di quali ideali fossero perseguiti dalle Forze del Bene.
L’ingenuità di quel periodo sorprese molte volte la me di qualche tempo dopo. Ma forse era inevitabile: ci era stato imposto, come obbiettivo, di amare i Pokémon e allenarli, preparando sia loro che noi ad un eventuale futuro nella guerra. Se essa proseguiva da otto anni senza significativi avvenimenti, i motivi dovevano esserci e dovevano trattarsi di cose serie; neanche allora mi chiesi cosa tenesse le due fazioni in una situazione di stallo, ma ricordo chiaramente che non posi la questione a nessuno, allora, sia temendo di ficcare il naso dove non avrei dovuto, sia perché ero sicura che non avrei capito niente. La materia in questione era la guerra, la strategia e tutto ciò che era loro relativo: ignorante in materia, volli passar sopra anche su quello, e continuai ad accontentarmi di allenare la mia squadra - a cui mi affezionavo sempre più, ogni giorno che passava - e a proseguire con la mia routine.
Le notizie peggiori arrivarono in quel periodo invernale: la cosa che più mi rimase impressa fu la morte di tre ex Capipalestra di Kalos, ovvero Violetta, Lino e Ornella. Erano stati giovani ragazzi, alleati delle Forze del Bene, ma irrimediabilmente vulnerabili: non avendo i tre una base segreta come punto di riferimento, il Nemico li aveva assassinati simultaneamente, nonostante fossero in luoghi estremamente diversi nella regione di Kalos. Aristide ci diede la notizia con molto rammarico, aggiungendo che quella mossa doveva essere stata un avvertimento per noi del Bene. Se ci fossimo ostinati a combatterli, la fine che avevano fatto Violetta, Lino ed Ornella sarebbe toccata pure a noi; il Nemico voleva spaventarci in quel modo, agendo come se potesse mettere in atto ogni suo volere.
In quelle situazioni la Morte si figurava implacabile sopra tutti noi, per quanto io cercassi di percepirla lontana. Solitamente riuscivo a evitare anche solo di pensarla, ma era inevitabile che essa fosse onnipresente in tempo di guerra. Si poteva fingere di non vederla e dimenticarsi momentaneamente della sua esistenza, del suo arrivo che avrebbe potuto essere prematuro ed inaspettato; ma notizie come quella riportavano tutti i piedi per terra.
Io conoscevo poco e niente del Nemico. I nomi dei Comandanti erano conosciuti da tutti: Giovanni, Max e Ivan, Cyrus, Ghecis ed Elisio; sei uomini, perseguenti obbiettivi a me sconosciuti, i quali una decina d’anni prima erano stati a capo rispettivamente dei Team Rocket, Magma e Idro, Galassia, Plasma e Flare. Nonostante le diversità affatto indifferenti tra le loro prime mire, su sfere differenti della società e del mondo - o dell’universo intero nel caso dei Galassia, i sei erano riusciti a trovare un accordo e si erano uniti sotto il nome - sconosciuto - del Nemico. Come avessero fatto a trascinare dalla loro parte anche personaggi del vecchio mondo Pokémon, che si erano, in linea di massima, sempre dimostrati pronti a collaborare con i “buoni”, per me rimaneva un mistero.
Su quello avevo fatto qualche domanda ma le risposte non mi avevano del tutto convinta: i miei amici davano la colpa alla sete di potere, al desiderio di farsi un nome e, se mai si fosse stati tanto sventurati, avere un posto nel possibile governo instaurato dal Nemico. Sullo stesso piano potevano esserci ragioni di altro tipo, economiche o simili, ma ne sapevo talmente poco che mi ridussi anche io a parlare di potere, uniformandomi alle idee comuni di tutti gli altri. Eppure non mi negai di essere poco sicura a tal proposito; secondo me c’era qualcos’altro, che forse aveva anche a che fare con le ragioni per cui le Forze del Bene non organizzavano un attacco consistente e decisivo che distruggesse il Nemico. Magari un’arma nelle mani avversarie che minacciava di essere usata con conseguenze semicatastrofiche, qualsiasi cosa potesse impedire ai nostri di aggredire una volta per tutte il Nemico. Mancanza di informazioni? Probabilmente, ma il mio sesto senso mi suggeriva che ci fosse qualcos’altro sotto.
Dopodiché i miei pensieri sui Victory smettevano di moltiplicarsi. Continuai ad ignorare i loro obbiettivi e le ragioni che potevano spingerli a fare del male ai Pokémon, che a quanto avevo capito erano spesso sfruttati come cavie o come armi; questo bastò, probabilmente, a farmi quasi dimenticare che le Forze del Bene combattevano dei nemici umani, tanto fui sconvolta all’idea delle condizioni di quelle creature nelle mani avversarie.
Chi componeva le fila del Nemico? A quel tempo per me si trattava solo di ombre pronte a trascinare il mondo nell’oscurità, non di umani, se mai fossero riusciti nel loro intento di dominare il pianeta. Chi erano Cyrus, che era stato l’uomo più temuto a Sinnoh, e gli altri Comandanti? Non lo sapevo e a quel tempo immaginai che non avrei mai avuto un confronto diretto anche solo con una recluta nemica; i volti e le fisicità di ogni persona della fazione avversa per me non esistevano. Se trattavano male i Pokémon - e sicuramente anche gli umani - altro non erano che bestie impregnate dall’oscurità e dalla crudeltà.
Non chiesi mai a Chiara - né alla maggior parte dei miei amici - che idea si fosse fatta del Nemico e di quanti facevano parte di quella organizzazione. Era sgradevole parlarne; direi che era troppo difficile cercare di guardare oltre la campana di vetro dalle pareti appannate per dare uno sguardo alla realtà. La loro idea me la diedero spontaneamente Sara ed Ilenia, che condividevano lo stesso pensiero: il Nemico si era unito sotto un intento comune, che sarebbe forse culminato con la conquista di almeno buona parte del mondo, e teneva in scacco le Forze del Bene - magari con l’arma segreta a cui io stessa avevo pensato. La cattiveria verso i Pokémon, per loro, era il minimo in confronto a quello che i sei Comandanti avrebbero potuto fare insieme: ambiziosi, spavaldi, intelligenti, spregiudicati… avevano tutte le carte in regola per dare sfogo alle loro folli manie di grandezza.
Perché forse era di questo che si trattava: un ego spropositato unito a una buona dose di instabilità mentale era sufficiente perché i sei uomini potessero fomentarsi vicendevolmente, accrescendo a dismisura il loro desiderio di provare l’ebbrezza di avere tra le mani ogni sfera del potere.

«June, usa Laccioerboso!»
Il Wartortle di Gold, prossimo all’evoluzione, risentì non poco della mia prima mossa; l’Allenatore lo spronò e riuscì a farlo replicare con Geloraggio. Fu troppo lento, però, perché June si spostò agilmente e attaccò una volta ancora, stavolta con Energipalla. A tempo record mandò K.O. un Pokémon del mio rivale per eccellenza.
«Non hai fatto un cattivo lavoro» borbottò il ragazzetto. Era rimasto piuttosto bassino e mingherlino; in effetti fisicamente era ancora quasi uguale alla prima volta che l’avevo conosciuto.
«Direi che battere un Pokémon superiore di qualche livello e pure appartenente a qualcuno che è avanti a me… no, non è proprio un lavoro fatto male!» sogghignai. «Ma mi ricordo quello che mi dicesti mesi fa, e sono certa che adesso manderai in campo il tuo Quilava.»
«In genere preferisco evitare di soddisfare le aspettative dell’avversario di turno… però sì, direi che è il turno del mio Pokémon Fuoco» sorrise. Capii il motivo per cui non l’aveva chiamato Quilava anche lui non appena sul campo si presentò un maestoso, inquietante Typhlosion. Si era evoluto e Gold, ovviamente, non aveva detto nulla per non rovinare l’effetto sorpresa; io non avevo più la possibilità di cambiare Pokémon senza perdere un turno, perché stando alle regole avrei dovuto cambiare June non appena avessi mandato al tappeto Wartortle.
Così la piccola Roserade dovette correre ai ripari dopo una sola mossa - Lanciafiamme, per la precisione - senza aver avuto il tempo di attaccare nemmeno una volta. Contro Typhlosion non sapevo proprio chi schierare, ero già certa che mi avrebbe fatto rimpiangere di aver chiesto a Gold di venire durante una sessione di allenamento per farmi lavorare un po’ insieme a lui. Mandai Rocky nella speranza che riuscisse a indebolirlo a sufficienza per poi finire l’avversario con Aramis; ma sbagliai, perché forse conveniva che facessi il contrario. Avrei dovuto indebolire Typhlosion per rallentarlo e lasciare che il Cranidos, quando fosse arrivato il suo turno - perché Aramis certamente non avrebbe retto l’intero round, lo finisse con una mossa Roccia.
Typhlosion volle menare con Breccia: un solo colpo bastò, ma Rocky si oppose con Bottintesta. Andò al tappeto inevitabilmente, ma pure il Pokémon Fuoco rimediò parecchi danni - nonostante fosse al primo stadio evolutivo, Cranidos aveva una forza forse pari a quella di Gallade. Alché mandai in campo proprio Aramis; sopportò un Lanciafiamme arrivato in risposta ad un veloce Psicotaglio, quindi a sorpresa Typhlosion finì al tappeto con una Zuffa. Rinunciai a cambiare Pokémon: ad Aramis mancava poco per finire le energie e avrebbe usato le ultime che aveva per attaccare il Dragonair di Gold appena sceso in campo.
Aramis attaccò di nuovo con Zuffa, dopodiché si rassegnò a subire l’Idrondata di Dragonair e ad andare K.O.. Il drago non sembrava ben messo dopo quel duro colpo: ero fiera del lavoro svolto da tutti i miei Pokémon, che in quelle lotte molto veloci dovevano impegnarsi moltissimo.
Aspettai per mandare Altair ed optai per Diamond, il mio prepotente e bellicoso Staravia. Intimidì il nemico grazie alla sua abilità, che per l’appunto era Prepotenza; poi colpì subito con Attacco d’Ala. Gold, prudentemente, fece usare a Dragonair Codadrago. Non falliva una mossa, l’avversario, nonostante ne conoscesse di poco precise. La mossa non causò molti danni a Staravia. Avevo tra le mani la sua Poké Ball e quasi mollai la presa quando essa si spalancò all’improvviso, a causa dell’effetto secondario di Codadrago. Diamond vi fu risucchiato dentro; contemporaneamente, nella cintura si spalancò proprio la sfera della mia Swablu.
«Vai con Volo» ordinai; bastò quella mossa a finire una volta per tutte Dragonair. Subito richiamai Altair, che non mancò di protestare in seguito per il suo ruolo marginale nella lotta, e mandai nuovamente Diamond.
Manectric si presentò, prevedibilmente, come suo avversario. Diamond non poté fare nulla, se non subire una forte Scarica mentre aveva tentato, invano, di colpire l’altro con Attacco d’Ala. Andò istantaneamente al tappeto; anche Gold cambiò Pokémon e capii che sarebbe arrivato il turno di Marowak. Poiché Gold di Pokémon ne aveva cinque e io sei, mi rassegnai a mandare Altair sperando che riuscisse a battere almeno la creatura di Terra. Pearl avrebbe avuto l’onore di combattere un’altra volta.
Marowak, fresco di evoluzione, alla fine non rappresentò un grosso ostacolo per Altair. «Usa Canto» dissi non appena riuscì a schivare una Frana, e senza difficoltà la mossa ebbe effetto. Quindi usò ripetutamente Geloraggio, mossa che le avevo insegnato per “sfizio”, non perché mi aspettassi che tornasse utile; Marowak, dopo due o tre colpi, svenne nel sonno e Gold lo sostituì con il suo ultimo Pokémon, Manectric.
Com’era prevedibile, Altair nulla poté contro il Pokémon di tipo Elettro, che anche in quel turno mandò K.O. la mia compagna con una sola mossa, senza alcuno sforzo. Strinsi la mano di Gold appena il combattimento terminò, come si era soliti fare dopo una lotta, e andammo in infermeria.
Facemmo appena in tempo a ritirare i nostri Pokémon, curati rapidamente dal macchinario che troneggiava nell’ampia stanza dell’infermeria, che Sandra bussò alla porta per richiamare l’attenzione dei ragazzi presenti - tutti coloro i quali avevano appena finito una lotta, l’ennesima in due ore di allenamento, e aspettavano di mettere in sesto la propria squadra. La donna ci disse di tornare in classe non appena avessimo finito; il mio amico - ormai lo definivo così senza farmi problemi - tornò dal suo gruppo, salutandomi allegramente. I mesi erano passati per tutti e il ragazzino si era sciolto molto di più; la cosa mi aveva fatto molto piacere. Aspettai Chiara per tornare nella nostra aula e, appena entrate, trovammo la stessa sorpresa che aveva suscitato tanti mormorii e sguardi interrogativi nei nostri compagni, che ci avevano un po’ perplesse.
Una ragazza che non avevo mai visto era seduta, ironia della sorte, dove fino ad un paio d’ore prima io avevo occupato il mio posto. Non mi soffermai subito più di tanto sul suo aspetto in generale: quel che mi stupì furono i suoi occhi azzurri, o forse era meglio dire color ghiaccio. Esattamente come quell’elemento, in un solo scambio di sguardi la sua espressione mi comunicò imperturbabilità e freddezza; mi costrinsi a non continuare a guardare quelle iridi così belle e magnetiche. Chiara mi indicò un banco rimasto libero: una della classe si mise seduta accanto alla ragazza, alla quale si rivolsero i suoi nuovi vicini.
«Ma chi è?» chiese subito la mia compagna di banco e di stanza. «Non ha una faccia simpatica.»
«Non lo so» risposi distrattamente.
La ragazza aveva la pelle piuttosto scura, in forte contrasto con gli occhi grandi e chiari da sembrare bianchi per intero - la pupilla, notai in seguito, sembrava sul punto di essere soffocata dal bagliore glaciale delle iridi. La carnagione, spruzzata di quale lentiggine sul naso un po’ schiacciato, contrastava pure con i capelli rossi, o meglio color carota. Erano lisci e sorprendentemente lunghi, raccolti in due semplici codini bassi. Una frangetta ordinata e tagliata con precisione, anch’essa affatto corta, le copriva tutta la fronte e pure le sopracciglia.
«Sarà una nuova arrivata? Chissà se conosce i Pokémon da sempre» disse ancora Chiara, mentre io continuavo a guardare l’ospite della nostra classe. Aveva un fisico molto asciutto, sembrava abbastanza alta. I nostri compagni non si fecero intimidire dal suo sguardo severo e dalla sua diffidenza; mi parve un po’ imbronciata, come se non volesse parlare a nessuno. “Be’, in effetti l’idea di essere nel mezzo di una guerra non deve farla scoppiare di allegria… ma non penso sia questo il motivo, soprattutto nel caso in cui sapesse già dei Pokémon.”
Era seduta composta ma, come ulteriore messaggio di voler tenere a distanza gli altri, aveva sia le braccia che le gambe incrociate. Dopo un po’ intercettò i miei occhi che la fissavano con fin troppa insistenza, quindi mi affrettai a distogliere lo sguardo dal suo, che mi diede l’idea di accusarmi di qualche colpa che non avevo. Mi dissi che era una bella ragazzina, se non fosse stato per il suo naso un po’ schiacciato e per l’espressione che la rendeva meno gradevole di quanto avrebbe potuto essere in realtà.
La prima immagine di Camille, questo il suo nome, rimase impressa nella mia mente per sempre; molto tempo dopo capii il perché la rossa mi avesse impressionata tanto da ricordarmi con inaudita precisione il suo arrivo all’Accademia. Il professore che succedette a Sandra le chiese di presentarsi.
«Mi chiamo Camille e vengo da Kalos. Ho quattordici anni. La mia famiglia è parte del mondo dei Pokémon da sempre… sono stata mandata qui per servire le cause delle Forze del Bene.»
Parlò a voce bassa, con il flautato accento della lontana regione da cui proveniva, ma le sue parole erano state tanto decise quanto sintetiche. Non le fu chiesto altro, eppure di solito ai nuovi arrivati si faceva qualche domanda in più per agevolare le nuove conoscenze all’interno del gruppo. Bastarono quelle poche frasi, insieme al suo modo di presentarsi, a farmi capire che tipo fosse Camille.
«Sembra un po’ snob» dissi a mezza voce rivolta a Chiara.
«Vero? L’ho pensato anche io. Spero che sia solo perché non sa come comportarsi nel nuovo ambiente e quindi fa la difficile, ma se tiene quella faccia per il resto dei giorni a venire non si farà tanti amici. Hai visto che naso?»
Ridacchiai. «Sì, è schiacciato… però è molto carina, dai.»
«Ha dei bei capelli…» fece lei con disinteresse.
«Ah, ora fai tu la difficile!»
Effettivamente i capelli di Camille erano davvero molto belli. Nonostante la lunghezza - le arrivavano più o meno oltre la vita - apparivano perfetti: appena appena mossi, i riflessi del timido Sole di marzo le indoravano la chioma folta. Mi resi nuovamente conto di starla guardando con troppa insistenza; se avessi continuato non avrei fatto una gran figura con la diretta interessata, che di certo avrebbe sentito la nuca pizzicare - eravamo un banco dietro a lei, su un’altra fila - se non avessi smesso di osservarla.
Con il suo atteggiamento scostante e freddo, come aveva previsto Chiara, nel giro di una settimana scarsa svanì l’interesse per Camille da parte della classe. Una ragazzina un po’ più piccola di me che faceva parte del gruppo, stuzzicata da molti perché era parecchio timida e insicura, mi disse che la nuova arrivata la intimidiva addirittura e che non aveva il coraggio di provare a parlarle, temendo di essere scrutata con diffidenza e di non ricevere una risposta, se non un’occhiata di gelida superiorità.
Io non capivo perché da una parte ci fossero le persone, come Chiara, che già non sopportavano più la presenza della silenziosa ragazza, e dall’altra quelli che semplicemente non volevano neanche provare a perderci tempo. Ad essere sincera ero parecchio incuriosita dai suoi comportamenti, così in contrasto con l’atmosfera spensierata, che di rado si incupiva, dell’Accademia, rallegrata dalla vitalità comune a tutti i suoi giovani abitanti.
L’aspetto fisico di Camille e il suo carattere ne facevano un soggetto molto singolare a cui bastò poco tempo per attirare le attenzioni di quanti non avevano già capito che era inavvicinabile. Immaginai che avesse fallito il suo tentativo di passare inosservata, l’unica giustificazione che trovai al suo comportamento. Forse aveva voluto mostrarsi scontrosa perché non aveva voglia di fare nuove conoscenze, ma non riuscii ad ipotizzare una forte timidezza: mi sembrava impossibile che si potesse arrivare a tanto per paura di farsi vedere dagli altri.
Così, tra gli altri, anche Daniel, senza che glielo dicessi io, si accorse del nuovo giovane membro delle Forze del Bene. Mi aspettavo che facesse qualche commento sul bell’aspetto - che certamente non aiutava la ragazza a non farsi vedere né sentire - di Camille, invece non ebbe una particolare reazione. Gli confidai che ero stupita dai suoi modi di fare e incuriosita, proprio per questo motivo. Lui scrollò le spalle dopo aver passato qualche secondo a guardarla. Solo allora notai, e mi chiesi il motivo, che non era seduta da sola come mi sarei aspettata, ma era in compagnia di Sara e delle altre. Non che parlasse con loro, ma almeno era con qualcuno.
«Non saprei dirti, Ele. In effetti sembra un po’ strana, la sua faccia non è quella di una facile da avvicinare e con cui parlare» borbottò. «Non ti ci fissare troppo, secondo me è uno dei tipi peggiori in questa Accademia.»
«Certo che ti sei fatto presto un’opinione, eh?»
«Chiamala come vuoi! Pure tu non le sei indifferente; c’è qualcosa che dovresti dirmi?»
«Ma va’, che idiota!» sbottai, senza capire bene perché mi fossi irritata subito. Mi ripresi cercando di far capire che stavo scherzando e fortunatamente ci riuscii, non osando pensare a quanti problemi mi sarei fatta se avessi avuto una brutta reazione in presenza di Daniel.
Ad ogni modo, Camille mostrò altrettanto in fretta di essere una ragazza piuttosto intelligente e precisa. Non riuscii a trovarle un difetto - a parte il naso, spesso preso in giro da Chiara, che l’aveva presa molto in antipatia - finché, durante un’ora di allenamento Pokémon, non lottai con lei. Capii che i combattimenti erano il suo punto debole già dopo poche mosse dall’inizio del primo round: Pearl contro il suo Meowstic maschio.
«Bruciapelo» ordinò Camille. L’avversario era più veloce ed era di qualche livello superiore alla mia Luxio, quindi inaugurò anche il turno successivo con Fascino.
«Usa Morso, Pearl!» esclamai io. Nonostante la forte riduzione dell’Attacco, la mossa fu accusata duramente da Meowstic, che ribatté lentamente con Psicoshock; ma un altro Morso bastò per finirlo. Non mi aspettavo mica che bastasse così poco per mandarlo al tappeto, quindi già da lì immaginai che la lotta non sarebbe stata difficile. Non richiamai Pearl e aspettai l’arrivo del Pokémon successivo, una Braixen. “Forse lui sarà più tosto” pensai.
Un Turbofuoco che si ravvivava ad ogni turno imprigionò Luxio, la quale riuscì ad attaccare con Scintilla; poi Braixen piazzò uno Schermoluce. Allora dissi: «Insisti con Scintilla, finché puoi!»
Ero solita dare, insieme alle indicazioni per le mosse o per gli spostamenti, quanti più incoraggiamenti potevo, soprattutto se un mio Pokémon era in difficoltà. Camille non lo faceva; dava un ordine e basta. Non pensavo che questo stesse a significare una noncuranza da parte sua nei confronti dei suoi compagni; mi limitai a credere che le lotte non facessero per lei. Ciononostante, Braixen era superiore a Pearl: gli attacchi non le avevano causato molti danni ed era anch’essa più cresciuta della mia Luxio. Così una Nitrocarica mi costrinse a ringraziare Pearl per il buon lavoro svolto e a sostituirla con Rocky.
Braixen usò Psicoraggio e di nuovo mi ritrovai in difficoltà a causa delle scarse difese di Cranidos. Gli feci usare Garanzia, sfruttando i danni appena rimediati, e fu come se Rocky avesse attaccato con Rimonta: entrambi erano parecchi stanchi. L’avversario, con il vantaggio della velocità, mandò K.O. il mio secondo Pokémon con un altro, banale Psicoraggio. “Braixen è uno starter… quindi forse è il suo Pokémon più forte” ragionai. “Se è così, adesso mando Altair. Camille ha una squadra completa come me, è tutto da vedere. Spero di non averla giudicata troppo in fretta…” Alché mandai Altair, come avevo già deciso.
Nitrocarica non la infastidì, fortunatamente. Un solo attacco Volo bastò per concludere il round; purtroppo Camille mandò in campo un Honedge, scelta che subito mi mise in crisi. “Vuoi vedere che ora si gioca tutto sui vantaggi di tipo?! Ma non voglio perdere, non contro di lei, almeno per la prima volta! Quel Meowstic era allenato da schifo e…” Continuando a sbraitare mentalmente contro la nuova arrivata e contro me stessa, mi accertai qualche turno di sicurezza con Canto: Honedge, troppo lento, non evitò la dolce ninna nanna di Altair, la quale poi lo tempestò di Sgomento per parecchi turni. Si risvegliò quando buona parte del lavoro era stata fatta e usò Danzaspada. Volli proseguire con Sgomento, che con la superefficacia non mi stava deludendo: anche se l’Aeroassalto successivo di Honedge fece molto male, un ultimo attacco fece vincere Altair.
Decisi di cambiare Pokémon, tenendo la Swablu come riserva. Camille, avendo perso per ultima, per prima dovette mandare in campo un membro della sua squadra dimezzata e scelse una Floette dal fiore rosso. Così chiamai a lottare June, che ci avrebbe messo poco a finire l’avversaria.
Le mie previsioni - e speranze - si avverarono: Fangobomba tolse subito di mezzo il Folletto. Non potei fare a meno di notare il disappunto di Camille, che non si mostrò del tutto indifferente all’andazzo della lotta. Mi parve di aver tagliato un bel traguardo, attirando la sua attenzione sulla piega che stava prendendo il combattimento. In campo scese un Pancham. «June, usa Energipalla!»
Un altro duro colpo per la squadra della ragazza; Pancham attaccò con Lacerazione, ma scattò il Velenopunto di Roserade, che era una delle mie caratteristiche preferite. Così l’avvelenamento gli diede il colpo di grazia.
Cercando di controllarsi e di farsi vedere indifferente, Camille schierò l’ultima sua risorsa, uno Skrelp. Niente al mondo mi avrebbe costretta a sostituire Roserade proprio all’ultimo: subito ordinai una potente Energipalla a cui l’avversario rispose placidamente con Muro di Fumo. Il campo fu coperto dalla coltre scura e June lanciò nel vuoto un altro attacco uguale al precedente. La situazione peggiorò ulteriormente quando sentii la voce di Camille dire, non senza una nota di soddisfazione: «Usa Doppioteam.»
Si succedettero parecchi turni irritanti; Skrelp usò la stessa mossa per altre due volte e June lo colpì per miracolo dopo aver fallito entrambe le occasioni. Fu presa in pieno da una Finta, ma prima che Skrelp si inabissasse una volta ancora nella nuvola di fumo nero, pose fine alla lotta con un’altra Energipalla. La nube si dissolse istantaneamente e mi avvicinai alla metà campo per aspettare la stretta di mano con Camille.
«Ehi! Ma cosa?!» sbottai nel vedere la ragazza richiamare Skrelp, esausto, e girare i tacchi senza filarmisi. Corsi dietro a lei e mi guardò di sottecchi. Decisi che era meglio evitare di rimproverarle qualcosa quando neanche ci conoscevamo, anche perché ero sicura che a malapena mi avrebbe risposto.
«Ehm… vengo in infermeria con te» borbottai.
Il suo sguardo mi rispose “Se proprio devi”, la sua voce disse: «Va bene.»
Percorremmo il tragitto in silenzio ed iniziai a pentirmi di esserle venuta appresso. Ma decisi che valeva la pena di provare a parlarle appena arrivammo in infermeria, anche perché la fila era piuttosto lunga.
«Senti… Sandra te lo ha detto prima, quando ci ha detto di lottare insieme; comunque io mi chiamo Eleonora. Vengo da Nevepoli. Al contrario tuo non sapevo dell’esistenza dei Pokémon, non facevo parte di questo mondo, quindi è stato un gran colpo ricevere la notizia della guerra e di tutto il resto!» Cercai di essere amichevole.
I suoi occhi incontrarono i miei brevemente, ma il suo sguardo fu intenso. «E quindi come stai ora?»
La sua domanda mi sorprese, perché non mi aspettavo un minimo d’interesse da parte sua. «Adesso sto bene. Mi piacciono i Pokémon e la loro natura, tutto ciò che li riguarda… ma agli inizi è stata davvero dura ambientarmi e fidarmi di loro. Ero molto spaventata, mi sentivo inetta ed indifesa, credo sia comprensibile… però vedere quanta fiducia riponessero i miei amici nei miei confronti, fare nuove conoscenze e imparare tutto ciò che c’è da sapere su questo mondo… queste sono state le chiavi per farmi perdere ogni riserva.»
Camille per qualche secondo non rispose nulla ma doveva avermi ascoltata con attenzione. Stavo per chiederle qualcosa, volevo farla parlare un minimo, ma mi anticipò: «Ma hai capito in che situazione sei finita?»
Inarcai le sopracciglia; intimamente trasalii, perché insieme a quella domanda mi guardò con gli occhi brillanti. La sua espressione non era severa né dura, ma mi stava mettendo alla prova: non capivo come facesse a sembrare così matura e sicura di sé stessa quando aveva la mia età, soprattutto se paragonata a me. Aveva le labbra serrate e le sottili sopracciglia erano leggermente corrugate, mentre cercava di capire se valesse la pena parlarmi o no, se ritenermi una sciocca che non capiva la gravità della guerra o se sorridevo per non mostrarmi debole e triste.
Non ero né debole né triste. La prima delle due cose se n’era andata appena avevo imparato a contare sulla mia squadra. La seconda non si era ancora presentata nella sua interezza e avrei avuto ancora del tempo di tregua. Così, imitando l’espressione di Camille, dissi semplicemente: «Siamo in guerra.»
«Sì, è vero.» La ragazza spostò lo sguardo altrove. Mi chiesi come fosse possibile che si stesse rendendo partecipe della presenza di qualcun altro, perché da quello che avevo notato nei giorni precedenti non mi era mai sembrata affatto desiderosa di parlare agli altri. Invece mi stava addirittura facendo delle domande - “Quale onore.” Disse poi: «Sei sicura di non sentirti più inetta ed indifesa, come hai detto prima?»
«Sì, perché le Forze del Bene mi hanno definitivamente preso sotto la loro ala protettiva. Non so cosa potrà comportare questo, se farò una brutta fine o riuscirò ad evitare la guerra; però un modo per combattere, almeno per me, è fidarsi dei propri alleati e fare di tutto per non credersi più inetti ed indifesi» continuai ad usare quei due aggettivi. Volevo digrignare i denti: Camille non mi interessava più molto, con la sua aria di saperne una in più di tutti e, di conseguenza, di sentirsi in diritto - o in dovere - di giudicare la mia posizione.
«Non mi sembra granché» mormorò.
«Infatti non lo è.»
Mi guardò leggermente stranita. «E allora che senso ha?»
«Ha più senso riporre le proprie speranze in qualcuno, anziché rendersi inavvicinabili credendo di combattere inutilmente» dissi, «come credo che tu stia facendo.»
Camille ci mise un po’ a rispondermi. Non sapevo come mi fosse uscita una frase del genere. La ragazza stava alimentando la mia irritazione: avevo sperato di poterle parlare in tranquillità, ma la seconda volta che mi aveva rivolto la parola era bastata per smontare tutto. Con ciò che dissi, però, ammisi di aver fatto molta attenzione ai suoi comportamenti di quei giorni. Ero sicura che se ne fosse accorta subito.
«Non dovresti giudicare persone che non conosci» ribatté poi, non sembrando affatto turbata.
«Tu non vuoi farti conoscere, è evidente! Ma ti converrebbe accettare l’aiuto che le Forze del Bene ti offrono. Io non mi aspetto che in ogni momento di difficoltà accorreranno per aiutare me o qualcun altro, i piani alti avranno cose molto più importanti a cui pensare… non mi aspetto nemmeno che sappiano della mia esistenza, ovviamente. Però se ti tieni lontana da tutto questo… ti fai solo del male. Come me agli inizi, finché non mi sono convinta della natura pacifica dei Pokémon e della buona fede di chi combatte il Nemico.»
Camille avrebbe potuto chiedermi tranquillamente come facessi a sapere che le Forze del Bene erano in buona fede, se non avevo idea di quale fosse il loro scopo. Erano contro il Nemico, ma senza sapere le intenzioni di questi come si sarebbero potute capire le intenzioni della mia fazione? Se avessero combattuto ideali che, se solo li avessi conosciuti già da allora, non mi fossero dispiaciuti… avrei tradito anche io, come tanti, le Forze del Bene? Camille però non me lo domandò e io risposi ai quesiti che mi ero già posta tempo prima con un misero: “Ci penserò.” Ancora  una volta rimandai ad un momento futuro il faccia a faccia con la mia ignoranza.
In effetti, Camille non mi disse nulla. Però mancava ancora un po’ al macchinario per rimettere in sesto i propri Pokémon, quindi misi da parte l’astio che la ragazza mi ispirava e le chiesi: «Hai mai incontrato il Nemico, tu?»
«No.»
«Ma come mai sei venuta fino a Sinnoh e non sei andata ad un’Accademia nella tua regione?»
«Non ce n’è una a Kalos.»
Passarono alcuni secondi di silenzio. Sospirai, sciogliendo la tensione, perché Camille mi guardò un’altra volta - quello di scoccare occhiate difficilmente decifrabili era un suo difetto - e credetti di aver rimediato a quanto detto prima, che effettivamente non doveva essere stato l’approccio migliore per una possibile amicizia.
«Scusa se te lo dico, e scusami pure se prima ti ho urtata,» mi sottomisi a lei, sperando che si rilassasse un po’, «ma non mi sei mai sembrata molto interessata a parlare con gli altri, quindi mi stupisce che tu ti sia interessata, almeno minimamente, a chiedere qualcosa di tanto personale a me. Come mai?»
Lei fece spallucce. «Parlo con le persone che mi interessano.»
«Eh?» mi stupii. «Perché ti interesso?»
Lei non rispose. Stavo per insistere ma l’infermiera ci invitò a consegnarle i nostri Pokémon. Grazie al momento di esitazione che mi fu concesso, decisi di evitare di domandare di nuovo quella cosa a Camille: ero sicura che fosse molto ostinata, quindi non mi avrebbe detto nulla. “Ma perché ha detto che la interesso? Che sia in cerca di attenzioni? Può darsi… allora significa che ha voluto alimentare le osservazioni su di lei anche comportandosi in modo scostante e freddo? Quindi ora non mi risponde per farmi sentire più curiosa e magari confondermi… davvero un bel tipo” conclusi mentalmente con disapprovazione, chiudendomi anch’io in un testardo silenzio.
Uscimmo dall’infermeria poco dopo. «Ci vediamo» mi disse Camille.
La salutai a mezza voce e tornai nell’aula sotterranea, qualche passo dietro di lei. Il professore di turno quasi aprì la porta della stanza sotterranea in faccia a Camille, perché dovevamo tornare in classe. “Attento, prof, poi il suo naso crea una rientranza sul viso…” borbottò una vocina nella mia mente.
Evitai le lezioni successive ed andai in camera a leggere per distrarmi dal pensiero di Camille, aspettando che Chiara mi raggiungesse. Infatti un paio d’ore dopo già mi stavo sfogando con lei: le riferii brevemente il contenuto della conversazione, soffermandomi però su commenti personali, alquanto irritati, sulla sua aria di superiorità. «Ma tu guarda! Solo perché ritiene di essere l’unica a capire che razza di situazione sia la guerra… allora vuole che tutti gli altri la pensino come lei, altrimenti sono solo cretini! Non credevo fosse così antipatica ed intrattabile, ma il fatto è che lei stessa non vuole parlare con gli altri, a meno che non lo faccia solo per farsi notare…»
«Wow» mormorò Chiara. «Be’, a me fin da subito non era sembrata granché… ma scusami, perché te la prendi tanto? Secondo me stai esagerando. Sei fin troppo indispettita per una perfetta sconosciuta.»
Ci misi qualche secondo a rispondere. «Non lo so… mi dà fastidio il suo comportamento. Mi sembra strano che all’inizio fossi così incuriosita da lei; fatto sta che non mi dispiacerebbe affatto se fosse un po’ più naturale, perché di questo si tratta: penso che stia solo recitando la parte che le fa comodo, e non mi piace.»
Non le dissi che “interessavo” alla ragazza nuova, perché avrei continuato a confondere le mie idee, oltre a far stranire non poco Chiara. Camille mi turbava parecchio e non sapevo ancora dire perché, forse erano i suoi occhi cristallini e al contempo profondi e insensibili, lontani, affatto empatici. Diceva che la interessavo e quindi aveva sopportato l’idea di parlare a qualcuno; immediatamente mi venne in mente Sara, accanto alla quale la rossa si era seduta stabilmente durante le ore dei pasti.
Il giorno dopo chiesi all’albina qualche spiegazione, se ne aveva, ma fu molto vaga e mi diede una non-risposta. Mormorò di non avere idea di cosa stessi sparlando e che aveva conosciuto quella ragazza da poco, che non si parlavano praticamente per niente. Non mi convinse granché; mi chiesi se Camille sarebbe mai stata in grado di sciogliersi e se sarebbe stato possibile costruire un rapporto, magari un’amicizia, con lei.
  
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