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Autore: Carme93    19/10/2015    1 recensioni
Una nuova generazione alle prese con la propria infanzia ed adolescenza, ma anche con nuove minacce che si profilano all'orizzonte. I protagonisti sono i nuovi Weasley e Potter, ma anche i figli di tutti gli amici che hanno partecipato alla decisiva Battaglia di Hogwarts. Da quel fatidico 2 maggio 1998 sono ormai trascorsi ventun anni...
Genere: Avventura, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alastor Moody, Famiglia Dursley, Famiglia Malfoy, Famiglia Potter, Famiglia Weasley
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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Capitolo diciottesimo.
Curiosità. Attenzione maneggiare con cura.


«Jamie, mi raccomando».
«Certo, capo!».
James sorrise malandrino in direzione del padre, che annuì con mezzo sorriso. Merlino, quanto erano agitati tutti! Dopotutto perché i nuovi cattivi avrebbero dovuto attaccare proprio loro? Insomma l’Inghilterra è enorme! Ma si guardò bene da esternare ad alta voce queste considerazioni: avevamo fatto una fatica terribile a convincere i genitori a lasciarli andare da soli alla pista di pattinaggio sul ghiaccio a Bristol, a nemmeno quaranta minuti di autobus da lì. Mica stavano andando dall’altra parte dell’oceano! Apprensivi ed iperprotettivi, ecco cosa erano i loro genitori! E dire che a quattordici anni suo padre aveva partecipato al Torneo Tremaghi! Ma appunto era meglio tenersi questi pensieri per sé. In più era il più grande del gruppo e ciò aveva fatto ricadere su di lui ogni responsabilità. Il che lo esaltava parecchio, doveva ammetterlo. Osservò la sua squadra: Albus era imbacuccato nel suo giubbotto blu, guanti, cappello e sciarpa rigorosamente rosso-oro proprio come i suoi e degli altri. Inoltre sotto i giubbotti o cappotti avevano tutti i maglioni marca Weasley. Nessuno avrebbe fatto fatica a riconoscerli come parenti, se non addirittura fratelli. Lily ed Alice avevano accettato a fatica che sarebbe stato lui a comandare in assenza dei genitori, ma alla fine non avevano avuto scelta. Rosie lo stava soppesando maliziosamente e ricambiò il suo sguardo con un ghigno: per quanto la cugina stesse appiccicata ad Al, avevano molto in comune. A differenza di Lily ed Alice, sapeva di poter ottenere da lui quello che voleva, se l’avesse preso per il verso giusto. Frank confabulava con Albus e non voleva sapere che cosa entusiasmasse tanto i due secchioni ed Hugo osservava divertito le sue migliori amiche che ancora sbuffavano. L’unica nota stonata era che la piccola Augusta, cui naturalmente voleva bene, si era appiccicata al suo braccio e non dava segno di volersi staccare. Tutti sapevano che la piccola aveva una cotta per lui. Il Natale dell’anno prima gli aveva confessato il suo amore davanti a tutti. Merlino! Era stato il momento più imbarazzante della sua vita. Rose ancora lo prendeva in giro e da buona cugina, cui toccava il titolo di Miglior Stronza dell’anno, aveva raccontato alla bambina di Benedetta. Si può essere gelosi a nove anni? A quanto pare sì. Sua mamma gli aveva detto di stare tranquillo, perché era una cosa passeggiera: una cotta infantile di cui poi non si mantiene nemmeno il ricordo. Detto da colei che si era innamorata per la prima volta a dieci anni ed aveva sposato il fortunato, nonostante una guerra… beh non era per niente consolante. Finalmente dopo un milioni di raccomandazioni, i genitori li lasciarono andare. E Merlino c’era mancato poco che perdessero il pullman! Jamie pazientemente si premurò di obliterare anche i biglietti di Lily, Alice ed Augusta, che erano più che in grado di far da sole ma a quanto pare sua sorella ed Alice stavano complottando per rendergli un inferno il pomeriggio, mentre Augusta pretendeva che si comportasse da buon cavaliere. Cominciava a pentirsi, forse non sarebbe sopravvissuto od avrebbe ammazzato sua sorella. Durante il tragitto si avvicinò a Samuel, l’unico rimasto in silenzio da quando erano partiti. Prima che la madre li chiamasse perché erano arrivati i Paciock loro stavano per litigare. Era entrato nella sua stanza mentre inviava una lettera. In ciò non vi era nulla di anormale naturalmente, ma non aveva mai visto quel gufo. Era certo che non fosse uno di quelli della Scuola e quindi era da escludere che il destinatario fosse un compagno rimasto ad Hogwarts per le vacanze; non era di Amber Steeval, che possedeva una bellissima civetta bianca né di Arthur che era terrorizzato dai gufi. Così gli aveva chiesto spiegazioni. Semplice curiosità? Non sapeva dire che cosa l’avesse spinto ad impicciarsi negli affari del ragazzino, insomma non era davvero suo fratello e non aveva avuto il tempo di affezionarsi a lui. Ed allora? Non era in grado di spiegarselo, ma aveva avuto una cattiva sensazione. Samuel aveva reagito in modo strano, assumendo l’aria di chi si sente in colpa per qualcosa.
«Allora a chi hai scritto prima? A qualche bella Tassorosso?» chiese cercando di fare lo sbruffone, parte che gli riusciva abbastanza bene.
«Non sono affari tuoi» rispose lapidario.
James lo squadrò sorpreso e si trattenne dal prenderlo per il bavero e ricordargli che il capo era lui.
«Sembra che tu voglia nascondere qualcosa» disse, non riuscendo a trattenere l’irritazione. Il ragazzino fuggì al suo interrogatorio andando a mettersi accanto ad Albus e Frank e trascorse il resto del viaggio fingendo di interessarsi ai loro discorsi. James strinse i denti, si fidava ciecamente di suo padre ma quel ragazzino nascondeva qualcosa. Cavoli, quella cattiva sensazione non lo mollava.
Mancava poco alle cinque del pomeriggio quando arrivarono a Bristol, avevano almeno tre ore di libertà assoluta, poi avrebbero preso il Nottetempo che li avrebbe portati fino a casa Paciock. Lì avrebbero cenato tutti insieme. James fece fatica a radunare fratelli e cugini (nella definizione potevano essere annoverati anche i Paciock, tanto erano cresciuti come tali). Tirò un sospiro di sollievo quando Al si mise in coda al gruppo con Rose e Frank, almeno non avrebbe dovuto controllare i più piccoli da solo. Merlino, se adorava suo fratello. Certo non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura.
«La pista di pattinaggio è quella» disse James, indicando un punto tutto illuminato poco distante. Avvicinandosi videro che era molto affollata. La pista aveva una forma quadrata: tre lati del perimetro erano circondati da porticati, sotto i quali si trovavano a destra la biglietteria, a sinistra un bar ed i bagni. Il quarto lato era occupato da un maestoso albero di Natale, completamente illuminato. James sorrise come un bambino, adorava le vacanze natalizie per le luci e i colori. Gli altoparlanti mandavano canzoni natalizie di sottofondo. Si ricordò di quando suo padre li aveva portati lì per la priva volta: all’epoca aveva circa otto anni e non aveva mai pattinato sul ghiaccio. Nemmeno loro papà era in grado di farlo ed era stato divertente vederlo scivolare in continuazione. Il più bravo era stato senz’altro Al quel giorno, dopo la mamma s’intende. Sua madre sembrava portata per tutti gli sport, magici o babbani che fossero. Per un attimo si perse nei suoi ricordi, ma fu subito richiamato al presente da Al.
«Ti stai perdendo la squadra» gli comunicò tra il divertito ed il preoccupato.
James si guardò intorno e si rese conto che erano rimasti in tre: lui, Al e Frank.  Per sua fortuna gli altri non si erano allontanati molto. Li trovò mentre assediavamo la biglietteria.
«Chi vi ha detto di allontanarvi senza dirmi niente?!».
Un coro di chi credi di essere?, ma fammi il piacere? e paga veloce, fu di certo una risposta abbastanza appagante da zittirlo. Adesso capiva perché i genitori rompevano in continuazione. Avere più responsabilità? Ma chi gliel’aveva fatto fare? Comunque pagò e lasciò che ognuno scegliesse i pattini della misura giusta, a parte Al che ne aveva chiesto ed ottenuto in regalo un paio tutto suo.
«Bella pattinatrice, vuoi fare pattinaggio artistico da grande?» lo apostrofò.
Al lo guardò malissimo, mentre si allacciava le stringhe dei pattini e rispose tagliente: «Immagina quanto sarebbero contenti mamma e papà di sapere che non ti ascolta nessuno».
James fece per rispondere a tono, ma Augusta attirò la sua attenzione: «Jamiejamie, aiutami ti prego».
«Su, va’ ad aiutare la tua fidanzatina Jamiejamie» gli disse Al, con un ghigno che non gli si addiceva per nulla. SI trattenne dal tirargli un pugno e a malincuore raggiunse la bambina. Quando finalmente furono tutti in pista, James ebbe modo di pentirsi ulteriolmente: Augusta non aveva intenzione di mollarlo.
«Jamie, sei bravissimo a pattinare. Insegnami» gli intimò la dolcissima bambina.
Al di là di questo il tempo trascorse tranquillamente, almeno finché pattinavano non avrebbe dovuto preoccuparsi troppo e bene o male sulla pista riusciva a tenerli tutti sott’occhio. Ben presto iniziò persino a rilassarsi e dopotutto assecondare Augusta aveva i suoi risvolti positivi: tutte le ragazze presenti sulla pista lo guardavano come se fosse la cosa più dolce del mondo.
James cominciava a convincersi che badare a fratelli e cugini fosse più facile di quanto avesse pensato fino a quel momento, quando un urlo riempì la pista. Ci mise un secondo per rendersi conto che gli altoparlanti si erano ammutiti, neanche fossero stati silenziati con un incantesimo tacitante. O forse era stato davvero quello.  Scorse degli uomini con una veste nera che si facevano largo tra la folla. No, non potevano essere loro. Che cosa avrebbero potuto cercare in un centro babbano il 30 dicembre? E guarda caso dove si trovavano loro! Lui non credeva alle coincidenza. Quando però vide la maschera argentata che li copriva il volto e la bacchetta che brandivano, non ebbe più dubbi: non che ne avesse avuti ma la speranza è l’ultima a morire. Sguainò la bacchetta e senza perdere di vista i tizi in nero, tentò di cercare ed avvicinarsi agli altri, ma non era facile: c’era troppa gente.
«Periculum!» disse sicuro e la sua bacchetta sparò scintille rosse verso l’alto; certo niente di meglio per dire ehi sono qui, ma la regola d’oro di suo padre era: “Se siete in pericolo, chiedete aiuto, non siete Auror”. C’erano sempre della pattuglie della Squadra Magica in giro, qualcuno avrebbe visto le scintille. I tizi schiantarono molti Babbani od almeno sperò che fosse schiantesimi.
James tentò di concentrarsi su gli uomini che venivano verso di lui, non poteva fare nulla per quelle persone e non aveva senso che si prendesse in giro da solo: lampo verde significa una sola cosa. Quelli non erano lì per discutere. Con il cuore in gola comprese immediatamente che volevano loro. Molti babbani fuggirono e non li rincorsero, altri caddero inerti sulla pista di ghiaccio, ma i suoi fratelli e gli altri furono sospinti verso di lui, quasi a bordo pista. Li volevano vivi, almeno per ora. In caso contrario quanto ci avrebbero messo a tacitare dei maghi di nemmeno tredici anni? Nulla. Un brivido gli percosse la schiena.
«Non avrete mica intenzione di sfidarci?» chiese ironico quello che doveva essere il capo.
Ormai erano stati spinti ai bordi della pista e tutti avevano le bacchetta puntate sugli aggressori. «Oh giusto dimenticavo, nella vostra famiglia c’è la mania di fare gli eroi».
Gli uomini accanto a lui risero. James ne approfittò per osservarlo: era il capo senz’altro, appeso al collo aveva un ciondolo, che ci avrebbe scommesso tutta la sua paghetta fosse quell’urocoso di cui parlavano suo padre ed gli zii.
«Vogliamo solo Samuel, su Samuel vieni con me. Non farò del male ai tuoi amici».
Si come no, pensò James, la frase più vecchia del mondo!
«Non ti muovere» lo apostrofò con durezza, ma il ragazzino era terrorizzato: qualunque cosa centrasse o sapesse, non aveva previsto quello.
Il capo parlò in una lingua sconosciuta e uno degli uomini si fece avanti e James prima di capire cosa stesse accadendo si ritrovò a terra urlando per il dolore. Non ne aveva mai provato tanto in vita sua. Mai. E lui faceva regolarmente a botte con Parkinson, che menava forte. Non aveva provato tanto dolore nemmeno quando era caduto dalle scale o quando aveva preso la Firebolt del padre ed era andato a sbattere contro la libreria che gli era rovinata addosso. Mai. Urlò con tutto se stesso, sembrava che gli stessero incidendo il corpo con tante lame. Poi come era arrivato il dolore cessò, senti un mugugno di dolore e il suo aggressore cadde all’indietro. A terra a bocconi non capì molto, aveva la vista annebbiata e tutti il corpo doleva anche se non quanto prima. Riconobbe a malapena Albus che si inginocchiò accanto a lui e non riuscì nemmeno ad urlare quando vide uno degli uomini sul punto di colpire il fratello. Ma una serie di crack familiari riempirono l’aria e un gruppo di uomini in divisa separò lui e gli altri dai Neomangiamorte, perché non aveva alcun dubbio che si trattasse di loro. Mentre gli altri lo circondavano poté sentire solo qualche ordine urlato. Ad un certo punto un uomo si fece largo tra i ragazzini e lo osservò.
«Ora voi ci darete una spiegazione» disse in tono aspro. Se James ne avesse avute le forze si sarebbe messo ad urlare: insomma li stava incolpando di qualcosa?! Il tono era lo stesso che avrebbe usato con dei bambini disubbidienti.
«Se avete bisogno di spiegazioni, perché vi siete fatti sfuggire i tizi che ci hanno aggredito?» domandò irritata Rose.
James gemette: se li erano fatti sfuggire! Che incapaci! Aveva ragione zio Ron a prendersela sempre con quelli della Squadra Speciale Magica.
«Ragazzina, modera il tono!» sbottò quello.
«Signore», una ragazza con la stessa divisa beige entrò nel suo campo visivo, «credo sia il caso di chiamare il Capitano. Questo caso non è di nostra competenza e bisogna avvertire gli Auror».
«Ma sei impazzita?! Mi pare che qui ci siamo noi e non gli Auror! E fino a prova contraria sono io che comando e non ti permettere mai più di dirmi quello che devo fare! Portate il prigioniero al Ministero ed anche questi bambini perché devono essere interrogati. Chiamate anche una squadra di obliaviatori e tenete lontani i giornalisti babbani o meno che siano!» abbaiò l’uomo in risposta.
 
Quando finalmente raggiunsero la sede della Squadra Speciale Magica al secondo livello del Ministero della Magia, James capì che non avrebbe fatto un altro passo senza svenire e si buttò sulla prima sedia che trovò.
«Ragazzino», abbaiò l’agente, «Alzati, nessuno ti ha dato il permesso…».
«Credo che lei sia davvero tonto!», sbottò Rose, «Mio cugino è stato cruciato! Trascinarlo qui di peso è stato già un abuso di potere! Adesso non ne posso più! Quindi mi ascolti bene. Se non si dà una regolata, le giuro che domani mattina potrà andare a cercarsi un altro lavoro!».
«Ragazzina, maleducata! Come ti permetti!?».
«Come? Ha appena trascinato come dei delinquenti nove minorenni senza avvertire i loro genitori o tutori legali! Ma vuole sapere cosa mi dà la certezza che se non si dà una mossa perderà il posto? Molto semplice. Io sono figlia di Hermione Jane Granger giudice effettivo del Wizengamot! Se lei si è dimenticato qualche piccola legge per strada, le assicuro che mia madre conosce anche le clausole minori scritte nella prima costituzione del mondo magico!».
L’agente stava boccheggiando con grande soddisfazione di tutti.
«Credo che possa bastare così», disse una voce autoritaria che costrinse tutti a voltarsi, «Agente Smith, non ho idea del perché questa ragazzina la stia minacciando mettendo in mezzo addirittura il Wizengamot, ma le assicuro che faremo due chiacchere appena qualcuno avrà la decenza di farmi rapporto».
«Mi scusi, signore», Albus, fino a quel momento rimasto in silenzio, attirò l’attenzione del nuovo venuto su di sé, «Mio fratello è stato cruciato e non sta bene».
James alzò gli occhi al cielo, condivideva i metodi di Rose totalmente; Al ancora credeva nell’aiuto degli adulti nonostante avesse visto con i suoi occhi il comportamento dell’agente Smith.
«Smith, chiami un guaritore. Robinson», ordinò chiamando la ragazza che prima si era opposta all’agente, «Convochi i genitori dei ragazzi e voi accomodatevi nel mio ufficio».
Con sua sorpresa James l’uomo gli si avvicinò e lo aiutò ad alzarsi.
«Immagino che troverai la poltrona del mio ufficio decisamente più comoda… Ah, chiedo scusa non mi sono presentato: Terry Steeval».
James strinse la sua mano ed accettò il suo aiuto.
«James Potter» replicò.
«Magnifico», borbottò il Capitano, «tuo padre e tuo zio vorranno la testa di Smith… Sai, non si potevano vedere neanche a Scuola».
Li fece accomodare in un piccolo ma ordinato ufficio, evocò altre sedie oltre le due di fronte alla scrivania, che non sarebbero state sufficienti per tutti ed aiutò James a sedersi nell’unica poltrona in un angolo della stanza.
«Se sta facendo il gentile solo perché ha paura dei nostri genitori, sappia che loro non sopportano gli adulatori» polemizzò Rose con la sua conclamata diplomazia. Il Capitano si accigliò e la fissò per un attimo prima di rispondere: «Io non ho paura di nessuno, mi dispiace deluderti. Sto facendo il gentile perché siete dei ragazzini e sembra che abbiate appena visto un mostro e considerando che James è stato cruciato, direi che sono abbastanza intelligente da dedurre che non abbiate avuto una bella esperienza».
Pochi secondi dopo Harry Potter e Ron Weasley fecero irruzione nella stanza, seguiti dalle rispettive mogli e da Neville. L’agente Robinson entrò subito dopo in compagnia di un uomo alto, che i ragazzi conoscevano vagamente. Terry Steeval si alzò al loro ingresso.
«Signore, è arrivato il Guaritore Goldstain».
A quelle parole tutti fecero silenzio. Neville era stato circondato dai figli, così come Hermione si era subito premurata di verificare le condizioni di Hugo, in quanto Rose era in evidente posa da battaglia e stava più che bene; Harry si rese conto dell’inattività del figlio maggiore e si avvicinò a lui seguito a ruota dal Guaritore, che al di là del cenno del Capitano non ci aveva messo molto a realizzare per chi dei ragazzi era stato chiamato.
«Jamie?» fece interrogativo Harry con apprensione.
«Sto bene», assicurò lui con un sorriso che però risultò più una smorfia, «Ho fame».
Harry cercò di sorridere e gli scompigliò i capelli, rendendoli più disordinati di quanto non fossero già.
«Lascia che ti dia un’occhiata» s’intromise Goldstain. Harry si spostò per lasciargli spazio e cinse la vita di Ginny che si era avvicinata. Ci fu silenzio per qualche minuto, poi Goldstain si raddrizzò e si avvicinò ai due.
«È stato cruciato, ma possiamo dire che sta bene».
«Possiamo?» fece eco Harry terreo in volto.
«Sì, non ha riportato alcun danno, né fisico né mentale. Tuo figlio è forte, ma è sempre un ragazzo. La maledizione l’ha sfiancato, con un bel po’ di riposo tornerà come nuovo».
«Grazie, Anthony».
«Dovere. Devo farvi avere qualche relazione che attesti le condizioni di James?» disse guardando interrogativo da Harry a Terry Steeval, non sapendo chi dei due comandasse in quel momento.
«Sì, grazie» rispose Steeval.
Goldstain annuì e si congedò, promettendo che avrebbero avuto tutto la mattina seguente.
«Che cavolo è successo?» tagliò corto Ron, che in fatto di diplomazia poteva far concorrenza alla figlia.
«Lo vorrei sapere anche io» replicò il Capitano.
Rose prese la parola e raccontò loro di come improvvisamente erano stati attaccati dagli uomini incappucciati; descrisse ogni cosa nei minimi particolari senza che le fosse richiesto, insomma suo padre era un Auror e lei sapeva perfettamente che ogni cosa era utile ad un’indagine! «Quello che non riesco a capire è perché volessero Samuel» concluse.
«Non lo so» rispose Harry perché la nipote l’aveva guardato aspettandosi una risposta da lui.
«Signore!», Smith aveva spalancato la porta senza bussare e si era catapultato nella stanza, «Il prigioniero è morto».
L’aria nella stanza divenne più greve, ma prima che qualcuno potesse replicare Albus disse: «Io non volevo ucciderlo, io…».
Sembrava non riuscisse più nemmeno a respirare. Harry lo circondò con le sue braccia tendando di calmarlo, gettò smarrito un’occhiata alla moglie, che seduta vicino a Jamie ricambiò allarmata: Al era sempre stato il più sensibile dei tre figli, quello che piangeva più facilmente anche al minimo rimprovero ma mai aveva reagito in quel modo.
«Potter, non lo stringere in quella maniera. È una crisi di panico, già non respira di suo» disse Goldstain rientrato nella stanza a seguito di Smith, «Albus quell’uomo è morto avvelenato. Non è colpa tua» aggiunse avvicinandosi a loro. Il ragazzino sembrò calmarsi e lo guardò, sorpreso che ricordasse il suo nome.
«Io non volevo fargli del male… io…».
«Respira», replicò il medimago con voce calma e pacata, «la ferita che aveva in fronte non era minimamente grave. Stai tranquillo».
Al riprese a respirare quasi regolarmente e poi spiegò al padre quasi cercando la sua approvazione: «Ci hanno disarmato appena uno di loro ha cominciato a cruciare Jamie. Non l’avevo mai sentito gridare così, mi sono sentito impotente senza bacchetta… ma non potevo rimanere a guardare, così mi sono tolto un pattino e ho mirato alla faccia… volevo che la smettesse… ho sbagliato avrei dovuto mirare alla mano… io…».
Harry scosse la testa e lo abbracciò.
«Sei stato bravissimo» gli sussurrò all’orecchio.
«Che vuol dire che è morto avvelenato?» s’informò Steeval.
«Aveva del veleno nascosto nell’orlo della tunica» spiegò Goldstain. «Letale. È di quei veleni che entra in circolo in pochissimo tempo. Non potevo salvarlo, l’antidoto è raro e non serve a nulla nemmeno il bezoar».
«Avrai una bella gatta da pelare» concluse Ron, che non sembrava dispiaciuto per nulla.
«Scusate. Capitano permette una parola?» s’intromise Robinson.
«Ti ascolto».
«Non so se il Guaritore ha già avuto modo di guardare il corpo del prigioniero».
«No, non l’ho fatto. Mi è stato chiesto di visitarlo perché era ferito, ma quando sono arrivato stava già leccando il veleno in polvere dall’orlo del colletto», replicò Goldstain serio, «Non avete bisogno che io faccia adesso l’autopsia, vero? Perché sono le otto di sera, il mio turno è finito da un pezzo e la mia famiglia mi sta aspettando».
Anthony Goldstain era un ottimo Guaritore, non per niente era stato nominato primario del San Mungo, ma non poteva fare più nulla per quell’uomo e per lui a quel punto decisamente la sua famiglia veniva prima.
«Non volevo dire questo», intervenne la ragazza, «Ho notato che sul braccio ha lo stesso simbolo che il Capitano Potter ci ha fatto vedere qualche settimana fa… cioè sono andata a guardare apposta perché erano vestiti in modo sospetto».
«Il loro Capo aveva una catenina appesa al collo con quel simbolo» disse James con voce fioca.
«Ron, allora è un problema nostro» sospirò Harry, stringendo più forte Al a sé.
 
*
 
«Rosie».
«Stai zitto, Al» replicò lei.
«Rose!».
«Che diavolo vuoi?» sbottò la ragazzina voltandosi verso di lui giusto il tempo per gettargli un’occhiataccia.
«Ti sei dimenticata che mio padre non vuole che entriamo nel suo studio senza permesso?».
«È preso dalla festa in questo momento. Nessuno si accorgerà della nostra assenza. È un momento perfetto per scoprire qualcosa».
«Ma è una cosa sbagliata, Rose! Anche se non lo saprà, ci stiamo comportando male».
«Sei una piaga, Albus. Comportati da Grifondoro per una volta, e non da Tassorosso!».
Albus accusò il colpo in silenzio, odiava quando l’altra gli ricordava che probabilmente il Cappello Parlante era sbronzo quando l’aveva smistato. Spesso e volentieri si sentiva inadeguato a vestire i colori rosso e oro, di cui però andava enormemente orgoglioso. La seguì senza più alcuna lamentela. Come sempre lei comandava, lui obbediva. Rose cominciò a rovistare tra le carte sulla scrivania e poi ad aprire i cassetti. Lui si bloccò sulla porta cercando di quietare in qualche modo i suoi sensi di colpa. Sua cugina emise un sospiro soddisfatto quando tirò fuori dal penultimo cassetto una cartellina scarlatta. Anche dalla sua posizione poteva leggerne l’etichetta, che recitava: “CASO FAWLEY”. Rose l’aprì e iniziò a spulciare con un certo interesse i documenti contenuti.
Al sentì una mano sulla sua spalla e sussultò. Alzò gli occhi abbastanza per incrociare quelli irritati di suo padre.
«Uffi Al, ma qui non c’è nulla di nuovo! Ma tuo padre non le aggiorna le cartelle?».
«Le aggiorno eccome, ma evidentemente non è stato necessario» replicò il diretto interessato. Rose sobbalzò ed assunse per un attimo un’aria colpevole, ma si riprese subito e sorrise allo zio con la sua miglior faccia da schiaffi.
«Papà, scusaci davvero… noi…».
«Volevamo avere informazioni!», concluse Rose ed Al la fulminò con lo sguardo, «Voi non volete darcele!».
«Se non lo facciamo ci sarà un motivo, no Rose?», sospirò Harry, «Magari è pericoloso? È ieri ci è già venuto un infarto per quello che vi è successo! Ora fila di sotto, i tuoi si chiedevano dove fossi. Non manca molto a mezzanotte».
Rose sbuffò, ma obbedì. Harry aspettò che la nipote lasciasse la stanza, poi si rivolse al figlio:
«Albus, quante volte vi ho detto che non dovete entrare qui dentro senza dirmelo?».
«Tante. Davvero mi dispiace. Scusami» replicò lui.
«Al, so benissimo che la curiosità alle volte spinge a comportarsi in maniera irresponsabile. Io ed i tuoi zii abbiamo infranto le regole un numero infinito di volte, mettendoci in mezzo a cose più grandi di noi. Non voglio fare l’ipocrita rimproverando te e Rose, però statene fuori, ok? Io non ho potuto scegliere un’infanzia spensierata, a voi invece nessuno ve l’ha mai negata».
Al annuì mortificato. Harry gli scompigliò i capelli affettuosamente per fargli capire che non era troppo arrabbiato. «Per favore, non farti trascinare sempre da Rose. Ragiona con la tua testa. Me lo prometti?».
«Sì, promesso».
«Bene, ora scendiamo. Si staranno chiedendo che fine abbiamo fatto».
*

 
«James, sbrigati è quasi mezzanotte!».
«Arrivo, mamma. Vado a chiamare Samuel».
James salì lentamente le scale per non far rumore. Entrò in camera di Al e chiamò Ombrosus, il gufo del fratello. Strappò un pezzo di pergamena da quelle di scorta, che Al aveva ordinatamente impilato sulla scrivania e scrisse rapidamente.
«Ehi amico, Lione è a caccia. Fammi un piacere, ok?».
Il gufo tubò, quasi ad annuire, e gli porse la zampa. Legò il foglietto e poi si avvicinò alla finestra. La aprì ed attese. Probabilmente il gufo del fratello, in attesa di sapere a chi dovesse consegnare il messaggio, lo stava prendendo per pazzo.
Non ci volle molto che un altro gufo volò fuori dalla finestra di Samuel, James si voltò verso Ombrosus ed ordinò:
«Seguì quel gufo e consegna il messaggio al suo padrone».
James osservò il gufo del fratello sparire nella notte e strinse stretto il davanzale della finestra, incurante dell’aria fredda che gli frustava il volto. Il messaggio era breve e semplice:
“Chi sei? Rispondimi!
James Sirius Potter”.
 
   
 
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