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Autore: Adeia Di Elferas    21/10/2015    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Cosa vuol dire 'no'?” chiese Caterina, a voce tanto bassa che solo suo marito la poteva sentire.
 L'arrivo di Girolamo aveva sollevato molte chiacchiere, e placato gran parte degli applausi. Il nuovo signore della città era entrato in città completamente circondato da uomini armati e per tutto il tragitto non aveva mai né sorriso né dedicato uno sguardo alla folla che invocava il suo nome con sempre minor convinzione.
 Quando Caterina aveva spiegato la questione della corsa in piazza, con il Novacula che le dava manforte, l'uomo non aveva fatto altro che scuotere il capo e dire di no.
 Erano nascosti al popolo, in quel momento, dalla siepe di guardie armate che avevano seguito Girolamo e che non accennavano a mollarlo nemmeno un momento, quindi Caterina non si curava troppo di dare segni di inquietudine.
 Girolamo si sistemò la casacca di velluto sotto cui teneva nascosta una pesante cotta di maglia, che, con quel caldo, lo stava facendo dannare: “Darò loro il corrispettivo in oro del mio cavallo, se proprio ci tengono, ma non mi metterò in ridicolo e in pericolo mettendomi a galoppare in mezzo alla polvere come fossi un...”
 “E va bene.” fece allora Caterina, acciecata dalla rabbia.
 Non riusciva a capacitarsi di essere abbinata a un uomo tanto stolto e tanto pauroso. Che ci voleva a fare tre giri di piazza stando a cavallo? Cosa gli costava prestarsi per pochi minuti a un'usanza tanto semplice da osservare?
 “E va bene.” ripeté Caterina, prendendo un respiro profondo, mentre dentro di sé sentiva crescere uno strano calore. Euforia, forse? Senso di potere?
 “Correrò io la piazza. Preparate il mio cavallo!” ordinò ai due scudieri a cui era stato momentaneamente affidato il suo destriero.
 “No!” esclamò allora Girolamo, afferrandola per il braccio, sotto gli occhi spaventati del Novacula, che non sapeva se intervenire o meno.
 Caterina lo incenerì, sillabando, la voce appena un sussurro: “Ricordate quello che vi ho detto molto tempo fa.”
 Così dicendo, tra loro scese quella minaccia fatta da Caterina molti mesi addietro: 'la prossima volta che alzerai le mani su di me, non mi fermerò'.
 “Siete incinta.” gli ricordò Girolamo, come ultima preghiera.
 “Non ricordatemelo!” ribatté lei, esasperata: “E comunque il mio stato non vi ha impedito di farmi viaggiare a cavallo con il caldo dell'agosto, mentre ora dovrei rinunciare a una cavalcata di appena tre giri di piazza?!”
 Girolamo non disse più nulla, mentre Caterina andava a prendere il suo cavallo e ordinava di annunciare a tutti i presenti che sarebbe stata lei a correre la piazza al posto del marito, che era, purtroppo, indisposto.
 La folla accolse con grida di sorpresa e di incitamento la strana notizia e Andrea Bernardi osservava da dietro le quinte le reazioni di Girolamo, che sembrava tanto un'esca che si contorceva nella rete del pescatore.
 Caterina montò in sella con leggiadria e sorrise raggiante, prima di dare il primo sprone al cavallo.
 L'animale reagì immediatamente, partendo rapido come un fulmine, mentre la gente si scostava all'ultimo minuto per lasciarlo passare.
 Caterina lo spronò ancora, mentre le grida festose e il battere di mani dei Forlivesi la incitavano ad andare sempre più veloce, sempre più veloce...
 Gli zoccoli della bestia sollevavano un gran polverone, e mentre il suo ventre sembrava protestare per tutto quel movimento, Caterina si godette il suo momento di gloria. Respirava a pieni polmoni quella girandola di odori e profumi, che la inebriavano così come l'avevano inebriata quelli di Imola.
 Stavolta, però, rispetto al suo incontro con Imola, c'era un che di più sanguigno, di più viscerale. Correre la piazza era come gettarsi a capofitto in una nuova realtà.
 I volti cui passava accanto si confondevano nella velocità e il calore del sole scompariva, sostituito dal fuoco che le si stava aprendo in petto.
 Per tre giri di piazza, Caterina si dimenticò di suo marito, del papa, di tutti quelli che le angustiavano i giorni e le notti da anni.
 In quei minuti c'erano solo lei, il suo cavallo, i Forlivesi e la polvere della piazza. 
 Era ormai all'ultimo giro e sentiva le urla più distintamente. Se prima solo alcuni pronunciavano il suo nome, ora tutta Forlì ripeteva una sola parola. E non era 'Riario', e nemmeno 'Girolamo'.
 Tutta Forlì gridava, come una sola persona: “Sforza! Sforza! Sforza!”
 Stava per fermare il cavallo, quando il grido si trasformò improvvisamente in “Caterina! Caterina! Caterina!”, come se in quei tre giri la popolazione l'avesse davvero conosciuta a fondo, potendo quindi ora appellarsi a lei con il suo nome di battesimo.
 Dal canto suo, anche a Caterina parve di conoscere finalmente i Forlivesi e accolse quel loro entusiasmo con altrettanto slancio, lanciando di nuovo baci e ringraziando con la voce più alta che le riusciva.
 Capì in quei tre giri di piazza che il padrone della città non sarebbe mai stato suo marito Girolamo.
 Il padrone della città era lei.
 “E ora il furto del cavallo!” cominciò a esclamare qualcuno.
 Caterina si lasciò letteralmente trascinare giù di peso dal proprio cavallo, ridendo di gusto mentre le mani della sua gente se la passavano come fosse un prezioso pacchetto.
 Un gruppo di forzuti giovanotti la prelevarono dalle braccia della folla e la portarono in trionfo su per le scale del palazzo signorile. Caterina li ringraziò, senza fiato per le risate e si mise in piedi con una mano sulla pancia, che le aveva dato qualche piccolo dolore.
 Intanto il pubblico si contendeva i finimenti di oro puro del cavallo della loro nuova signora e Caterina, per evitare disordini, decise di donare ai presenti anche il soprabito dorato che aveva indossato per gran parte della giornata.
 Mentre la sera si avvicinava sempre di più, il Novacula fu incoraggiato a raccontare anche a Girolamo qualche notizia di Forlì, ma l'uomo non era molto interessato alle parole del barbiere-storico.
 Da parte sua il Novacula era ancora interdetto per la scena a cui aveva assistito prima della corsa della piazza. Aveva colto i dissapori, che dovevano essere profondi, tra Caterina e suo marito, ma si stava convincendo sempre di più che non ne avrebbe fatto parola – per quanto gli sarebbe costato tacere – coi clienti curiosi della sua bottega.
 Quando i signori si ritirarono nella loro nuova dimora, le musiche e i balli non erano ancora terminati e proseguirono fino all'alba del giorno seguente.

 “Massimo due settimane e ce ne andiamo da qui.” sentenziò Girolamo, quella notte stessa, dopo che il medico ebbe lasciato la stanza.
 Caterina aveva avuto ancora qualche fastidio all'addome, suo marito se n'era accorto e aveva chiamato subito un medico, per accertarsi della salute del bambino.
 “Il piccolo è un guerriero.” aveva assicurato il medico: “Malgrado la fatica del viaggio e la corsa in piazza, sta bene. Deve avere una fibra molto forte.”
 “Ma che stai dicendo...?” disse Caterina, stanca per la giornata interminabile, ma abbastanza soddisfatta.
 “Dico che questa città non mi piace e non ci voglio restare.” rispose Girolamo, ottuso.
 “Non la conosci nemmeno... Facci un giro, domani. Vaga un po' per le strade, parla con qualcuno...” fece Caterina, passandosi una mano sulla fronte. Oh, quanto era stanca...
 “E non voglio conoscerla! Due settimane. Festeggiamo, partecipiamo alle cene che non possiamo evitare e poi ce ne torniamo subito a Roma!” sbraitò Girolamo, lasciandosi travolgere dalla tensione che aveva cercato di contenere da tutto il giorno.
 Per quanto egli fosse un giovane dai muscoli guizzanti e dalle spalle larghe, Caterina non lo temeva più. Da lui aveva ricevuto troppo male per averne ancora paura. Sapeva di cosa era capace e sapeva di potervi sopravvivere. E sapeva che anche lui, in una qualche misura, temeva lei. Così gli fece segno di andarsene e lui, i pugni stretti lungo i fianchi, girò i tacchi e sbatté la porta.
 
 Nei giorni che seguirono, Girolamo si fece vedere pochissime volte, restando per lo più rinchiuso tra i muri del suo palazzo, sempre seguito da uomini in arme incaricati di proteggerlo a costo della vita.
 Caterina, invece, si rifiutò di avere una scorta e cominciò a farsi vedere in giro per la città. Parlava con loro del tempo, della città, si mostrava interessata ai loro problemi e di contro loro elogiavano la sua bellezza, ricordavano con piacere la sua corsa in piazza e si complimentavano con lei per la bellezza dei suoi due figli, augurandole che anche il terzo fosse così incantevole.
 Le persone con lei erano simpatiche e affabili, non poteva negarlo, tuttavia notava in tutti un velo di diffidenza, se non di aperta ostilità.
 Gli Ordelaffi, aveva sentito dire, non erano inclini a intrattenersi col popolino, ed erano temuti dai più, anche se in molti, in città, dovevano loro molti favori. I vecchi signori non si addentravano mai nelle strade più povere di Forlì, a meno che non fossero scortati da guardie armate. Vedere la semplicità con cui Caterina si presentava completamente sola e apparentemente priva di paura anche nei quartieri più pericolosi, li prese in contropiede, creando fronde di pensiero diametralmente opposte.
 Quando non era intenta a conoscere i Forlivesi, Caterina andava dagli architetti a cui aveva affidato il progetto di rafforzare la rocca di Ravaldino. Dava loro consigli e faceva proposte che venivano accolte con buonagrazia come fossero i dettami del miglior stratega d'Italia.
 Se davvero la città non era sicura, era fondamentale creare una rocchetta inespugnabile dove rintanarsi in caso di pericolo improvviso.
 Le spie le avevano detto che la fetta di popolazione che, malgrado tutto, teneva per gli Ordelaffi c'era ancora ed era ben numerosa.
 In più in molti non erano convinti dalla figura di Girolamo Riario, visto come un papista incapace di prendere decisioni, tanto debole da mandare a moglie incinta a correre la piazza, tanto pusillanime da entrare in città circondato da trecento soldati armati fino ai denti. Addirittura le spie avevano sentito chiacchiere su possibili rivolte, o congiure ai danni dei Riario.
 Le tasse degli Ordelaffi erano state – come aveva 'suggerito' Caterina – subito abolite, ma nemmeno questo provvedimento era bastato per ingraziarsi in modo definitivo la città.
 Il clima, insomma, era altalenante. Se c'erano momenti in cui Forlì sembrava raggiante e già fedele ai Riario, ce n'erano anche – e molti – in cui la diffidenza e l'ostilità si toccavano con mano.
 “Non partiamo.” disse Caterina, con fermezza, mentre già i loro bagagli venivano caricati sui muli: “Non dobbiamo andarcene adesso. Penseranno che siamo deboli o che non ci interessa nulla di Forlì.”
 “Infatti, non mi interessa nulla di Forlì. E poi dobbiamo andare a Venezia e a Roma ci aspettano importantissimi impegni...” disse Girolamo, sbrigativo: “Tolentino farà un ottimo lavoro, in nostra assenza.”
 Caterina, purtroppo, non poteva più far nulla per convincere il marito a rimandare la partenza: “Come vuoi.” concesse: “Ma sappi che se il tuo terzo figlio nascerà mentre siamo in viaggio e per questo motivo la sua salute ne risentirà, non ti perdonerò mai.”
 Girolamo sbuffò: “Arriveremo a Roma prima che nasca, è una promessa.”
 

   
 
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