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Autore: Ink Voice    25/10/2015    1 recensioni
Come reagireste alla scoperta dell’esistenza di un mondo celato agli occhi della “gente comune”? Eleonora, credendosi parte di questa moltitudine indistinta di persone senza volto e senza destino, si domanderà per molto tempo il motivo per il quale sia stata catapultata in una realtà totalmente sconosciuta e anche piuttosto intimidatoria, che inizialmente le starà stretta e con la quale non saprà relazionarsi. Riuscirà a farci l’abitudine insieme alla sua compagna Chiara, che vivrà con lei quest’avventura, ma la ragazza non saprà di nascondere un segreto che va oltre la sua immaginazione e che la rende parte fondamentale di quest’universo nascosto e pieno di segreti. Ecco a voi l’inizio di tutto: la prima parte della serie Not the same story.
[RISTESURA+REVISIONE - Not the same story 1.2/3]
Genere: Avventura, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga, Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Not the same story'
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XII
Un anno passato

Il rapporto con Camille non migliorò affatto, ma forse è meglio dire che fu la sua situazione a non riscontrare alcun progresso. La ragazza si teneva a distanza da tutti come al solito, durante i pasti stava con Sara, ugualmente senza proferir parola; con me ci parlava ogni tanto solo se strettamente necessario - io le chiedevo qualcosa, come al solito cercando di non darle troppa confidenza vista la scarsa simpatia che provavo nei suoi confronti - o per le cose più banali - domandarmi l’ora o se sapevo quale professore avrebbe potuto esserci dopo la lezione in corso.
Però non sapevo ancora dire perché, nonostante non mi andasse affatto a genio, Camille mi impensierisse così tanto. Non potevo fare a meno di notare che fin troppo spesso mi facevo parecchie domande sui comportamenti di quella ragazza o mi ritrovavo a guardarle, incantata, la bella chioma di capelli rossi. Oppure, ancora, mi chiedevo quale potesse essere il suo passato, che forse l’aveva fatta diventare così fredda e distante da ogni essere umano. Da una parte ero rosa dalla curiosità che nemmeno riuscivo a spiegarmi - perché era così forte?, dall’altra volevo far di tutto per disinteressarmene, fallendo miseramente ogniqualvolta incrociavo la ragazza, anche di sfuggita.
Gli altri rapporti interpersonali rimasero sugli stessi piani e di giorno in giorno mi rendevo conto di quanto fossi stata fortunata ad incontrare persone come Ilenia e Daniel, che mi facevano stare bene anche in un contesto che avrebbe dovuto essere pesante ed insopportabile; ma grazie a loro il pensiero della guerra spariva. Le giornate si susseguivano con tanta tranquillità che non sapevo dirmi se essere esasperata dall’equilibrio in cui vivevo, che talvolta sapeva eccessivamente di finzione, o se ringraziare il cielo per quel periodo di serenità; così, con la routine scolastica - definita così sempre per modo di dire, altri mesi passarono.
Si arrivò agli inizi di giugno e tagliai il traguardo dei quindici anni; com’è ovvio non ci fu alcun festeggiamento, non ce n’era la possibilità, ma pur non ricevendo regali fu una delle giornate che più mi piacquero, nonostante fosse passata inosservata agli occhi di quasi tutti. Mi fecero gli auguri i miei amici, tra l’altro informati da Chiara, i quali altrimenti se ne sarebbero giustamente dimenticati; non mi aspettai nient’altro, a parte un po’ di affetto e di attenzioni in più da parte di chi era stato messo a conoscenza dell’insignificante particolarità, e fu proprio così che andò. La cosa che rese quel compleanno speciale fu, semplicemente, il fatto che fosse il primo passato nel mondo dei Pokémon: per questo l’avrei ricordato per tutti i giorni a venire. Ero con la mia squadra e con gli amici che mi ero fatta in quella situazione sempre nuova, e questo bastò a rendere il mio quindicesimo compleanno più speciale di molti altri, in cui magari avevo ricevuto regali e una maggiore quantità di belle parole per me.
«Ci sarà una pausa estiva come c’è stata quest’inverno?» chiese Chiara qualche giorno dopo.
«Ovvio» disse Ilenia. «Per tutto luglio e agosto ce ne stiamo tranquilli, ragazzi. Ma a volte trovano il modo di rendere un po’ più speciali le “vacanze”, quelli che gestiscono l’Accademia.»
«Del tipo?»
«Oh, negli anni passati se ne sono inventate parecchie» sorrise Cynthia. «Mi ricordo quando due anni fa fecero visitare a quelli degli ultimi due gruppi alcune basi segrete. O meglio, ve li trasferirono per più di un mese. Non tornarono tutti… nel senso che qualcuno rimase lì a lavorare!» ghignò nel vedere che io e Chiara ci eravamo già scambiate un’occhiata a dir poco preoccupata e che eravamo state sul punto di sbiancare. «Nessuno dei ragazzi qui all’Accademia è mai morto, che io sappia. Comunque, dicevo: fecero vedere loro come funzionavano le cose negli ambienti più seri e le Forze del Bene se ne tennero qualcuno che non avevano giudicato affatto male. Erano degli studenti già con le idee chiare e qualche ambizione per il futuro nella guerra.»
«Voi sapete già cosa vorreste fare?» domandai.
Ci fu un piccolo coro di “combattere” da parte di Ilenia, Cynthia, Daniel e Lorenzo. Inarcai le sopracciglia e poi ridacchiammo un po’ tutti; Lorenzo spiegò: «Sì, abbiamo qualche ispirazione per la nostra carriera… qualcuno chiama le persone che vorremmo diventare reclute, altri guerrieri, altri combattenti - che è la definizione che mi piace di più. Ci sono cinque grandi gruppi di lavoratori nelle Forze del Bene: i combattenti che sono esperti di lotte Pokémon e devono anche essere in grado di lottare da soli, corpo a corpo con un nemico insomma; le spie, lavoro che in genere affibbiano a gente molto magra e molto agile… non guardatemi così, è vero! Sono tutte magrissime, le spie, è proprio una categoria a parte. Poi ci sono i tecnici che sono esperti con i computer, in linea di massima; gli inventori, che fabbricano strumenti e simili, e infine gli esploratori, che come dice il nome vanno a caccia di tracce del Nemico o di altre cose sul posto designato per una missione.
«Tecnici e inventori si muovono raramente dalle basi delle Forze del Bene, al contrario di spie, esploratori e combattenti che vengono mandati sempre in giro, anche in regioni lontane. Nelle missioni si partecipa in gruppi formati da persone che hanno professioni diverse, tutti parlano sempre dell’accoppiata migliore che è quella tra le spie e le reclute… ma sinceramente non so troppo bene quello che riguarda l’ambiente delle basi segrete e così via. Nessuno può dire di conoscerlo finché non ci è in mezzo.»
Al pensiero di dover passare anni e anni nell’Accademia, se la guerra fosse proseguita, lo stomaco mi si strinse in una morsa fastidiosa. Peggiorò all’idea di dovermi trovare un ruolo nel conflitto, sempre se mai avessi dovuto prendervi parte, e di rischiare la vita ancor di più mettendo piede fuori da una base segreta. Non sapevo cosa avrei potuto fare, pensandoci velocemente: per essere una spia non ero certo magra né agile o snodata, di chiudermi in una base a fabbricare apparecchi di chissà quale genere o lavorare con codici e computer non avevo intenzione - anche perché immaginavo che servisse un quoziente intellettivo fuori dalla norma. Combattere mi spaventava e pure esplorare, addentrandomi in territorio nemico, non era una scelta che mi ispirava fiducia e voglia di mettermi in gioco. “Posso sempre fare l’inserviente in una base, se non riesco a trovare qualcosa che sia in grado di fare…”
«Comunque, quali altre cose si erano inventati?» chiesi per cambiare discorso.
«Uhm… questa cosa delle basi segrete mi pare siata stata fatta un paio volte» intervenne Ilenia. «L’anno scorso non è stato organizzato nulla e siamo rimasti confinati qui a sudare ed annoiarci. Anche un’altra estate non si fece nulla, e siamo a quattro su cinque che ho passato qua dentro…»
«Mi stupisco che non ti ricordi proprio quella» fece Cynthia. «Ci concessero il lusso di starcene una settimana con le nostre famiglie.»
Quasi trasalii nel sentir pronunciare la parola “famiglie”. Da quando, mesi e mesi prima, avevo avuto la grossa delusione di non aver ricevuto alcuna lettera dai miei genitori - al contrario di Chiara, ogni cosa che rimandasse al campo semantico della famiglia mi riconduceva, inevitabilmente, al pensiero di essere stata lasciata a me stessa - di questo si trattava, niente di più e niente di meno. Era già passata la prima metà dell’anno dopo quel brutto colpo; ciononostante la cosa bruciava ancora e spesso mi faceva star male. E dire che di tempo ne era trascorso, avrei dovuto farci l’abitudine! Invece no; la mia corazza aveva iniziato a svilupparsi e da parecchio ero meno timida e introversa rispetto a quando ero arrivata all’Accademia. Ma quell’avvenimento ancora mi colpiva duramente.
«Ah, già!» si stupì Ilenia. «Sì, è vero: tornammo una settimana ognuno dalle rispettive famiglie ma furono pochi quelli ad andare i cui genitori non sapevano dell’esistenza dei Pokémon. A qualcuno di loro infatti furono date spiegazioni fatte bene, altri ragazzi dovettero rassegnarsi a rinnovare l’addio per sempre alle proprie famiglie.»
«Certo che parli in maniera… arzigogolata, eh?» sogghignò Cynthia.
«Ma statti zitta, tu, persona di poca cultura!»
Ilenia stava ridendo ma io avrei voluto alzarmi e andarmene per stare da sola, e penso che avrebbe voluto farlo anche Chiara. “Furono pochi quelli ad andare i cui genitori non sapevano dell’esistenza dei Pokémon. A qualcuno di loro infatti furono date spiegazioni fatte bene, altri ragazzi dovettero rassegnarsi a rinnovare l’addio per sempre alle proprie famiglie.” Era questo, evidentemente, ciò che avrei dovuto fare anch’io: arrendermi al non avere più la possibilità di incontrare i miei genitori - per quanto non avrei saputo dire come avrei agito nel fronteggiare le persone che nemmeno avevano cercato di contattarmi. Ilenia aveva detto la cosa con leggerezza, non pensando al fatto che al suo stesso tavolo fossero sedute due ragazze che avevano vissuto sulla propria pelle ciò che lei aveva detto. Non era colpa sua, poteva pure starci che se ne fosse dimenticata; ma sentirmi dire che dovevo farmi una ragione della mia perdita non fu affatto indolore.
Quella chiacchierata non stava certo toccando argomenti piacevoli. “L’ho sempre saputo che non avrei mai più potuto fare ritorno a Nevepoli, nonostante avessi pure la remota speranza di poter rivedere la mia casa, anche solo per salutare e abbracciare mamma e papà… ma allora, se già l’avevo capito, perché non mi sento bene? Non riesco a rassegnarmi. Non ho mai ammesso apertamente a me stessa di aver detto loro addio per sempre… forse è questo il motivo per cui ora sto male. E anche perché non so cosa succederebbe se rivedessi i miei genitori, che sembrano essersi dimenticati della mia esistenza; possono anche aver avuto ragioni valide, ma se così non fosse, come temo io? È una domanda che mi faccio dall’inizio di gennaio e ancora non trovo una risposta…”
La conversazione stava proseguendo e feci finta di non sentire le esperienze di Ilenia e Cynthia, che si erano messe a raccontare le loro giornate quella volta che poterono rivedere i propri cari, ma ogni singola parola mi fece sentire dolore - fortunatamente non ne ricordai, in seguito, neanche una. Avrei voluto scambiare un’occhiata con Chiara e capire se anche lei pensava e provava le mie stesse cose, ma non ce la feci; mi concentrai sul mio pranzo, piuttosto, e parlai poco e niente per il resto di quell’ora.
Mi stupii parecchio quando Daniel, appena uscimmo dalla mensa, mi raggiunse e mi chiese di potermi parlare un po’ in disparte. Dissi a Chiara che sarei venuta in classe di lì a poco: i suoi occhi brillarono maliziosi. Le risposi con una linguaccia e se ne andò sorridendo. Non sembrava turbata dalle chiacchiere fatte a pranzo.
«Cosa c’è?» gli chiesi.
«Non avevi una gran bella faccia mentre Ilenia e Cynthia parlavano» disse schiettamente. Abbassai lo sguardo, non troppo desiderosa di parlarne con lui, per quanto soddisfacesse il mio ego ricevere attenzioni dal ragazzo. «Era per i tuoi genitori, vero? Ilenia non deve proprio averci pensato.»
«Sì, era per loro. Comunque non è colpa sua, le sarà passato di mente di avere vicino due persone che hanno, appunto, dovuto dire addio alle proprie famiglie e che possono stare ancora male per questo» strinsi i pugni, istintivamente ma con poca forza. «Comunque, come stava Chiara invece?»
«Ah… non ci ho fatto molto caso» ridacchiò con un po’ d’imbarazzo, «però non mi sembrava tanto turbata, ad essere sincero.»
Credo che entrambi, senza parlare ad alta voce, completammo quella frase: “In fondo lei una lettera dai suoi genitori l’ha avuta, può anche darsi che potrà essere ricontattata una volta ogni tanto.”
Daniel mi chiese: «Come stai, allora?»
Scrollai le spalle. «Al momento non benissimo, ma… non dico che non importa, perché non è vero, però ci farò l’abitudine e non sarà un dramma. Spesso mi metto a rimuginare sul fatto che i miei non mi abbiano scritto nulla, e sono passati tanti di quei mesi!… ma altrettante volte ho altro per la testa, quindi non è proprio un problema. Non lo sarà, almeno, fin quando riceverò spiegazioni, se mai succederà.»
«E che spiegazioni ti aspetti che ti diano?»
«Non so cosa potrebbero dirmi, ma ho un paio di idee. La prima è che i miei genitori, per qualche motivo, si siano decisi a lasciarmi perdere e a rifarsi una vita, anche se di avere altri figli non hanno più la possibilità.» Stupii anche me stessa per il tono fermo con cui dissi quella cosa. «L’altra possibilità che ho immaginato è che, pure qui per chissà quali ragioni, anche se penso sia meglio parlare di equivoci… non si sono confrontati con i genitori di Chiara e stanno dando di matto per non avere alcun modo per trovarmi. Non so, forse hanno tagliato i ponti con un sacco di persone dopo la perdita, a questo punto non voglio immaginare la loro situazione… insomma, non sono più in contatto con i genitori di Chiara e pensano di avermi persa per sempre. Non so se sia meglio pensarli sull’orlo della follia o se più felici, ma senza di me.» La voce mi si abbassò di tono.
«Puoi sempre andare a chiedere spiegazioni» fece Daniel. Non rispose a ciò che avevo detto prima, d’altronde non sapevo nemmeno io se ci fosse qualcosa di appropriato da replicare.
«Da Aristide? Credi che il vecchio marine mi direbbe qualcosa?» ribattei in modo polemico. «Non credo che si disturberebbe per una cosa che sicuramente le Forze del Bene considerano tanto futile! Penso che nemmeno Bianca si degnerebbe di darmi una spiegazione decente. Meglio evitare di perdere tempo, no?»
«No» sorrise lui dandomi una leggera pacca sulla spalla. «Non è una perdita di tempo. È una prova che devi fare se ci tieni davvero, quindi, a meno che non te ne freghi niente… perché non vai a chiedere a qualcuno?»
«Ci proverò, ma già so che non riceverò risposta» borbottai.
Armandomi di coraggio, un po’ in soggezione - avendo deciso di parlare da sola al preside, riuscii a chiedere qualcosa ad Aristide la sera del giorno successivo; fui abbastanza fortunata da andarci in un momento libero quando, stranamente, non ne aveva approfittato per abbandonare “l’ufficio del preside” - sempre che così si potesse chiamare, essendo nel particolare contesto dell’Accademia. Come al solito non mi guardò amichevolmente, d’altra parte i suoi occhi non erano gentili con nessuno, ma mi consentì di porre una tra le domande che mi impegnavano da qualche mese a quella parte: «Ai miei genitori è successo qualcosa?»
Lui aggrottò le sopracciglia folte rendendosi ancora più arcigno. «Perché fai questa domanda?»
Gli dissi che ero l’amica della ragazza che aveva ricevuto una lettera dai suoi genitori e che mi pareva strano, essendo le nostre famiglie in rapporti di amicizia - o almeno così pensavo fossero rimaste - e abitanti della stessa città, che mio padre e mia madre non avessero avuto alcuna notizia. «Vorrei solo una rassicurazione» balbettai, per niente a mio agio alla presenza dell’anziano preside. «Capire se devo preoccuparmi o no, ecco.»
Aristide ci mise un po’ a rispondermi ma, per tutto il tempo, tenne gli occhi fissi nei miei, tant’è che li abbassai dopo poco ed esplorai superficialmente l’ambiente della presidenza con lo sguardo. Ripresi a guardarlo quando parlò: «Non sono cose di cui sono stato messo a conoscenza, pertanto dubito che sia successo loro qualcosa. Non credo, comunque, che le Forze del Bene andranno mai ad indagare. Non è una priorità e non avrebbe tanto senso, cerca di capire anche se si tratta dei tuoi familiari: quale motivo dovrebbe esserci, a meno che non si sospetti che il Nemico approfitti della situazione, per qualsiasi motivo? Non ci si espone mai per qualcosa del genere.»
Non fui affatto stupita della risposta ricevuta. Annuii più volte facendo capire che era chiaro il suo discorso, anche se non avevo idea del perché il Nemico avrebbe dovuto approfittare della situazione - ma probabilmente era solo un veloce esempio di Aristide a cui non dovevo dar peso.
«Va bene. Ma se alla famiglia di un ragazzo accadesse qualcosa, verrebbe informato o non ne sarebbe messo mai a conoscenza?» domandai, per avere almeno lì una risposta chiara.
«Certo che sì» disse lui, «esattamente come la tua amica ha potuto rispondere ai suoi genitori.»
Alché lo salutai e uscii, pensando che non fosse andata male come mi aspettavo: il severo Aristide avrebbe potuto non accogliermi nemmeno, oppure mandarmi via dall’ufficio dopo aver chiesto di mia madre e mio padre, rimproverandomi di averlo disturbato per una sciocchezza quando aveva di meglio da fare rispetto ad ascoltare una ragazzina che si lamentava per non avere più notizie da mamma e papà. “Andrò a dirlo a Daniel” pensai. “Io alla fine sono stata in torto, perché ero sicura che nemmeno mi avrebbe fatta entrare, Aristide. Lui si aspettava, forse, che mi desse una risposta chiara… invece è stato un po’ vago, ma ho capito che le Forze del Bene, a parte controllare le barriere di Nevepoli, certo non si mettono a guardare nelle case di due ragazzine entrate nel mondo Pokémon mesi e mesi prima. Non che me lo aspettassi, poi.”
Riferii al mio amico, appena mi fu possibile, quanto detto da Aristide. Ne parlammo per un po’: si mostrò sinceramente dispiaciuto per non aver ottenuto risultati ma forse avrebbe dovuto valutare seriamente anche quella possibilità. Gli dissi che probabilmente non avrei mai saputo perché i miei genitori non mi avessero più contattata e, tra me e me, aggiunsi che avrei dovuto farci l’abitudine; non ebbi la forza di dirlo ad alta voce, perché ad essere sincera era più difficile trattare l’argomento di quanto volessi dare a vedere.
Poi Daniel mi abbracciò. Non era certo la prima volta che lo faceva, d’altronde lo chiamavo “migliore amico” - e lui ricambiava - per qualche ragione; ma quella mi emozionò particolarmente. Sentii tutto il suo affetto e la sua comprensione grazie a quella stretta sicura e gentile, e per l’ennesima volta mi toccò pensare che Daniel aveva davvero un cuore d’oro. Era un ragazzo più sensibile di quanto cercasse di apparire per darsi un tono. Mi erano sempre piaciute le persone buone e le ammiravo profondamente, anche se in effetti non adoravo propriamente gli eccessi di bontà che spesso sfociavano in un’ingenuità abbastanza pietosa.
Daniel non era ingenuo. Era vero che a volte si dimostrava un po’ impacciato e in difficoltà in certe situazioni, avevo dovuto dare ragione a Ilenia su questo punto, anche se mai me lo sarei aspettato. Un suo grande difetto era proprio nascondere il suo carattere, che a mio parere poteva piacere a molti, sotto la maschera del menefreghismo che aveva indossato per i primi mesi in cui ci eravamo conosciuti. Non sapevo ben dire perché lo facesse, forse si credeva debole a voler essere troppo altruista e faceva di tutto per impedirselo con più persone possibile. Mi chiesi a quante persone potesse stare antipatico per quel suo modo di presentarsi, nascondendo il vero sé stesso.
Mentalmente mi lamentai quasi addolorata quando sciogliemmo l’abbraccio. Mi uscì una risatina imbarazzata che mi risultò subito odiosa, quindi cercai di rimediare: «Grazie mille per il tuo aiuto, Dani. Sei sempre molto comprensivo e mi ascolti con attenzione… non è da tutti…» mi ritrovai a balbettare, leggermente rossa in viso.
«Non faccio niente che un migliore amico non dovrebbe fare» sorrise.
“Migliori amici…” mi ritrovai a pensare.

Gli ultimi giorni di lezioni furono più intensi del solito, perché i professori si erano messi in testa la sadica idea di sottoporci ai più svariati test ed esami, teorici e pratici. Non che fossero mai esistiti voti o valutazioni, nel senso scolastico del termine, all’Accademia; i professori davano sempre un giudizio sul nostro livello di apprendimento ma era una cosa molto sfuggente, quasi di poca importanza, anche perché c’era quella libertà di poter saltare senza giustificazioni le lezioni che non interessavano - altre erano quasi obbligatorie, ad ogni modo - e alla fine mancava parte della preparazione standard. Nessuno ne faceva una colpa a nessuno, finché quelle lezioni non trattavano le materie più importanti e rispettate - gli allenamenti soprattutto. Però era necessario controllare, dopo nove o dieci mesi di “scuola”, che la situazione di ogni studente fosse perlomeno accettabile.
Io andai bene, non eccezionalmente perché quasi mai mi ero messa a studiare sui testi forniti dall’Accademia e mi ero limitata ad apprendere tutto con la pratica, ma le mie conoscenze erano come minimo buone in quasi ogni materia. Sul piano della praticità, soprattutto in materia di allenamento fisico, non andai tanto bene quanto avrei sperato, ma mi accontentai e presto mi misi l’anima in pace, sentendomi dire che ero nella media, quindi non stavo messa male. Chiara andò, nel complesso, meno meglio di me ma ebbe comunque buoni risultati. Non ci eravamo preoccupate per quella faccenda degli “esami di fine anno” quindi non avemmo problemi di ansia o paura.
Realizzavo a malapena quanto tempo fosse passato dall’inizio della mia avventura. Erano già quasi dieci mesi! Da un lato mi parve un lasso di tempo infinitesimale, dall’altro lo sentii infinito e considerai che lo scorrere delle lancette degli orologi, in quei mesi, era stato poco più di una passeggiata di salute. 
Durante l’anno le notizie sul Nemico non erano state sconvolgenti. I primi tempi mi aveva colpita molto sentir parlare di basi affondate e di morti e feriti da una parte e dall’altra, soprattutto mi avevano stupita i toni quasi noncuranti con cui i dati ci venivano forniti durante le cosiddette “ore di attualità”. Poi, a forza di vedere i volti dei miei compagni affatto turbati da quelle notizie, capii che erano avvenimenti di routine di cui nessuno, ormai, si sorprendeva più. In particolare avevo cominciato a non curarmi più dei danni riportati dal Nemico - in un certo senso non provai più pietà, finché erano le Forze del Bene che vedevo a malapena ad agire. Mai nessuno si era sorpreso per qualche notizia, a parte per le morti simultanee di Violetta, Ornella e Lino che ci rimasero impresse, perché quello era stato un avvertimento del malvagio Team. Aveva potere a sufficienza per spaventarci e presto ci avrebbe messo alla prova nei modi peggiori, tanto che pure noi dell’Accademia avremmo iniziato a temerlo.
La domanda che sorse spontanea, a tal proposito, fu: “Ma è meglio protetta l’Accademia o una base segreta, sia essa piccola o molto grande?” La risposta arrivò pochi giorni dopo, quando capii quanto vulnerabile fosse. Forse le nostre vite erano molto più a rischio di quelle di chi lavorava. Eravamo in cortile durante un’ora di allenamento, una delle ultime prima che le lezioni fossero dichiarate sospese fino agli inizi del settembre successivo. Quel giugno non era particolarmente caldo, anzi: la brezza della metà del mese non era granché gentile e costrinse quanti di noi si stavano impegnando in lotte Pokémon all’aperto a non rinunciare a un paio di pantaloni lunghi e a, come minimo, un coprispalle o una leggera sciarpa con cui proteggersi da quel vento agitato.
Il professore di turno - l’unica che mi era rimasta impressa durante tutte le ore di allenamento, Pokémon e non, era Sandra - ci aveva chiesto di far pratica con le lotte in Doppio, che a me piacevano molto. I campi di lotta erano improvvisati sul prato erboso ben curato. Aveva diviso in coppie e io avrei dovuto lottare assieme a Camille contro Chiara e Gold - che, nonostante fosse un livello più avanti, non di rado prendeva parte alle nostre lezioni. Mi chiesi molto spesso se facesse qualcosa all’Accademia oltre a lottare, e la mia risposta fu negativa. Lui aveva chiesto al maestro di stare con noi, conoscendo me e Chiara, e il professore aveva tranquillamente acconsentito. Ero contenta che Gold venisse a trovarci durante i nostri allenamenti. Era un amico affidabile e un rivale corretto.
Lui e Chiara stavano avendo la meglio, poiché Camille non se la cavava bene con le lotte e il ragazzo era più bravo di noi; la sconfitta fu inevitabile ma mi battei bene. Controllando il Pokédex, esso mi diceva che Altair e June erano in testa al livello 32; gli altri erano tutti al 30 - Pearl si era da poco evoluta in una bella Luxray e pure Rocky era diventato un Rampardos dalla forza portentosa. La mia squadra stava prendendo forma definitivamente.
Ci avvicinammo e ci stringemmo sportivamente le mani. Poi Camille si sentì chiamare per nome; si voltò, il suo viso diceva chiaramente che non conosceva quella voce. Guardammo tutti: un ragazzino che doveva avere la mia età, dai capelli di un vivido, innaturale rosso, ci si avvicinò sorridendo amabilmente. Non lo avevo mai notato prima. Quello che doveva essere il suo Baltoy lo affiancava. «Ehi, ciao a tutti.»
Lo guardammo parecchio interrogativi. «Ehm… scusa, chi sei?» domandai. «Devi lottare contro uno di noi?»
«Oh, spero proprio di no» si mise a ridacchiare.
«Avete finito voi, laggiù?» udimmo dire il professore, che si stava avvicinando. Vidi chiaramente il viso del ragazzo assumere un’espressione che non mi ispirò affatto.
L’insegnante squadrò sospettosamente il ragazzino. «E tu chi sei?» fece, ponendo la mia stessa domanda.
Le mie sopracciglia si aggrottarono: “Possibile che non conosca uno studente?”
«Nessuno in particolare» disse candidamente il ragazzino. «Baltoy, usa Teletrasporto!»
Il prato e il cielo limpido furono sostituiti da un vortice di colori confusi prima che potessi realizzare cosa quello sconosciuto avesse fatto. Mi parve di udire un altro comando mentre viaggiavamo impotenti verso chissà dove, e subito dopo le palpebre mi si fecero pesanti. Era un’Ipnosi e noi stavamo andando sicuramente in pasto al Nemico.








Angolo ottuso di un'autrice ottusa
Non che abbia qualcosa di particolare da dirvi, cari lettori, ma qualcuno ha sentito la mancanza dei miei deliri in quest'angolo ottuso - ciao Moro - e mi sono sentita in dovere (?) di fare un piccolo monologo, dopo ben due capitoli sprovvisti di angolo ottuso - penso sia un record.
Come va, gentaglia? Da me non c'è male, potrebbe andare molto meglio ma ci accontentiamo. La scuola è sempre dittatrice, così come il tempo, e nel giro di qualche ora passata a scrivere o a disegnare mi ritrovo a dirmi "aspetta, ma avrei dovuto fare i compiti" prima il piacere e poi il dovere, mi sembra giusto accorgendomi come una babbuina beduina (?) che ops, le lancette girano. Tra l'altro spero che abbiate cambiato l'ora, stanotte, se non l'aveste fatto ora è il momento giusto #informazionidiserviziorandom
Btw ho iniziato a rivedere pure NTSS2, sto al terzo capitolo mi sembra - quello in cui la ragazzina scema va al Monte Luna con un po' di compagnia - e mamma mia se è incasinata pure quella storia. Mi viene voglia di tirare un par de schiaffi a quanti mi facevano i complimenti perché la prima metà di quella storia penso sia... meglio non dirlo. Quanto a Ribellione AHAHAHAHAHAH sto ancora raccogliendo le idee per così dire ahahahahahaha qualcuno mi uccida; e al momento è in dirittura d'arrivo il capitolo XIII di questa storia, spero di riuscire a scrivere anche quello successivo, che è breve, in settimana.
Direi che è un bel salto essere al capitolo XII e vedere i bambocci rapiti, quando nella prima versione succedeva nel diciottesimo capitolo se non sbaglio. Sinceramente non vedo l'ora di liberarmi della pubblicazione settimanale, con l'arrivo di NTSS3, e prendermela con molta più calma.
Alla fine di cose da dire se ne trovano, eh? Mamma mia se chiacchiero in abbondanza. Meglio salutarci ne'? Ci si becca il prossimo weekend!
Ink
  
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