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Autore: Nymeria90    27/10/2015    3 recensioni
La mia storia è una sorta di autobiografia di Hawke con qualche appunto di Varric.
L'intenzione è di ripercorrere tutta la sua vita: dal suo primo ricordo fino agli eventi di DA Inquisition.
" [...] Hawke tiene a te tanto quanto tu tieni a lei. Non ti ha dimenticato. Ma so che le parole non ti convinceranno, non le mie, almeno. Credo sia arrivato il momento che tu riceva la tua eredità.
Hawke me l’affidò prima che partisse per la fortezza dei Custodi Grigi, nel lontano Nord.[...] Mi ha affidato quest’oggetto perché io te lo consegnassi, cito testualmente “al momento opportuno”. Quel momento, secondo la mia modesta opinione, è arrivato. [...] L'eredità di cui parlo è il suo diario."
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hawke, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Hawke
 
Mantenni la parola data a mio padre e tornai ad essere la ragazzina spensierata che ero stata prima della nascita dei gemelli.
O, almeno, fu quello che tentai di essere.
I miei genitori cominciarono a considerarmi affidabile e, sempre più spesso, mi ritrovai a dover far da balia ai gemelli. Fu allora che il mio rapporto con Beth e Carver iniziò a crescere fino a diventare … beh quello che è diventato.
Li accompagnavo alla scuola del villaggio e iniziai ad accostarmi ad un mondo che, fino ad allora, avevo potuto osservare solo da lontano.
Dopo la solitudine delle foreste persino l’infima mondanità di Lothering mi intimidiva.
Le chiacchiere, le risate, i balli: per me erano cose nuove, sconosciute ed eccitanti. Più di una volta feci la figura della sciocca, anche se all’epoca nemmeno me ne accorgevo: non avevo idea di come ci si comportasse in compagnia di altre persone.
Le strette di mano, i saluti, i sorrisi e i cenni del capo … tutto ciò mi era estraneo e misterioso. Con mia grande vergogna dovetti accettare che fossero i gemelli, di tre anni più giovani di me, ad istruirmi sui misteri della vita sociale.
Assieme a loro entrai in una chiesa per la prima volta.
Era un giorno era freddo e nebbioso. Il sole era solo una macchia tonda e abbagliante che risplendeva stancamente dietro uno strato di nubi biancastre. L’intero villaggio sembrava cristallizzato in un eterno crepuscolo.
Le torce sfolgoravano davanti alle porte delle case e le fiamme ondeggiavano al nostro passaggio silenzioso. Carver ci precedeva di qualche passo con il mantello drappeggiato sulle spalle che si allargava come se stesse per spiccare il volo. In quel momento intravidi il guerriero che sarebbe stato.
Io e Beth lo seguimmo docilmente fino ai gradini della chiesa che salì con una sicurezza che non gli apparteneva: mi accorsi con una punta di disagio che quel luogo gli era più famigliare della nostra stessa casa.
Esitai mentre il mio giovane fratello apriva i battenti di quel luogo misterioso e sacro.
La chiesa di Lothering era un edificio squallido e spartano ma i miei occhi si rifiutarono di vedere le assi inchiodate malamente e i dipinti scrostati. Quel luogo era per me un miraggio, irradiava pace e serenità e io mi domandavo se fosse reale o solo un frutto della mia immaginazione. Era davvero il luogo benevolo che i miei fratello mi avevano descritto oppure i miei peccati mi avrebbero condannata a morte atroce appena varcata la sacra soglia?
Avevo paura. Una paura diversa da ogni altra cosa mai provata: non era l’angoscia dei sogni o il terrore suscitato dai demoni.
Era una sensazione più sottile e strisciante: era il fremito di fronte ad un ignoto meraviglioso e il terrore che mi fosse precluso.
Bethany fece scivolare la sua piccola mano nella mia. La sua pelle era calda e viva; quel gesto mi commosse e m’imbarazzò: la mia piccola sorella sentiva la mia paura e cercava di proteggermi.
Le rivolsi un sorriso incerto e feci il primo passo.
Varcai la soglia socchiudendo gli occhi, aspettandomi da un momento all’altro qualcosa di terribile. Mi stringevo a Beth come ad uno scudo che mi avrebbe protetto da ogni male.
Non accadde nulla.
Mi lasciai sfuggire una risatina nervosa che riecheggiò tra le navate vuote e, finalmente, cominciai a guardarmi intorno, gli occhi sgranati dalla meraviglia.
I pilastri della navata erano di legno chiaro, levigato dal lungo uso; le torce splendevano fioche negli angoli, fendendo l’oscurità con i loro aloni caldi e fumosi.
Sembrava di essere in una grotta. Una grotta meravigliosamente calda e accogliente che infondeva un senso di armoniosa tranquillità. In quel luogo le paure del mondo esterne diventavano solo echi di luoghi lontani e impalpabili.
Abbandonai la mano di mia sorella: non c’era più nulla di cui aver paura.
Seguii Carver lungo la navata, avvicinandomi all’altare di nuda pietra che giaceva, ignorato, ai piedi della statua di una donna, splendida e austera.
Pensai che non potesse esistere nulla di più straordinario di quell’effige fiera e maestosa; alzai timidamente lo sguardo sul viso senza tempo che mi sovrastava, benevolo. La statua non aveva lineamenti precisi eppure, nelle ombre che si riflettevano sulla pietra levigata, potevo scorgere un volto che assomigliava al mio.
Desiderai avvicinarmi al bacile che la donna di pietra teneva tra le mani: volevo sentire il calore della fiamma che vi splendeva dentro, irradiando l’altare dei colori del tramonto. Non osai farlo per paura di disturbare le quattro giovani donne raccolte ai suoi piedi. Erano abbigliate in arancione, un arancione che pareva parte di quella fiamma che splendeva sopra le loro teste abbassate.
Mi voltai verso Beth, per chiederle chi fossero quelle donne, ma lei si portò un piccolo dito alle labbra e mi spinse silenziosamente verso le panche dove si era inginocchiato nostro fratello.
Presi posto accanto a lui e attesi.
Non dovetti pazientare a lungo. Ben presto la chiesa iniziò a riempirsi di uomini e donne silenziosi e solenni che presero posto sulle panche accanto a noi.
Provai una vaga sensazione di angoscia quando udii i portali dell’ingresso chiudersi con un tonfo sordo: per un istante mi sentii intrappolata.
Ma il senso di oppressione svanì non appena le donne si alzarono e, i visi illuminati dalla luce della fiamma, iniziarono a salmodiare una melodia struggente. Lacrime di commozione mi scesero lungo le guancie mentre ascoltavo il Canto della Luce e scoprivo le tribolazioni della donna di pietra che, finalmente, aveva un nome: Andraste.
Quel giorno m’innamorai: di Andraste, del Creatore, del Canto della luce e della Chiesa.
Col tempo l’innamoramento si è trasformato in diffidenza e, come troppe volte accade anche con le persone, la diffidenza è diventata odio.
Tutto ciò che più mi commuoveva ora mi disgusta eppure non posso rinnegare i sentimenti provati quel giorno: Andraste si presentò a me come una madre misericordiosa presso cui potevo finalmente trovare comprensione e conforto. Nel periodo più confuso della mia vita la chiesa fu il mio rifugio dai tormenti terreni.
Scoprirne la vera natura fu il tradimento più grande che io abbia mai dovuto affrontare.
In quel grigio pomeriggio autunnale, tuttavia, i dubbi religiosi erano ben lontani dalla mia mente. Quel giorno avevo occhi solo per la fiamma, abbagliante, di Andraste e orecchie unicamente per quel meraviglioso canto che, da secoli, veniva tramandato ad imperitura memoria.
Credetti nel Creatore? Una ragazzina di dodici anni è facile da ingannare. Soprattutto se non ha mai potuto fare altro che sognare un mondo inesistente.
La Città Dorata, un amore divino tanto forte da trasformare una donna in un dio, un Canto che parla di rinascita e luce … come potevo non rimanerne affascinata? Io che conoscevo meglio il mondo dei sogni che quello reale ...
I racconti della chiesa sembrava unire quei mondi in un unico, familiare, disegno e mi sentii in pace, per la prima volta nella mia vita.
 
Varric
 
La ragazzina devota e innamorata del divino in seguito divenne una delle più agguerrite oppositrici della Chiesa e del culto di Andraste che io abbia mai conosciuto.
Da Andrastiano, seppur moderato e non praticante, la sua ostilità nei confronti della sposa del Creatore mi ha sempre lasciato interdetto. Per Hawke non era una questione di credere o non credere nella profetessa e nel suo sposo. Per lei la loro esistenza era relativa. La verità era che, dal profondo del cuore, li detestava.
Ricordo una discussione con Sebastian. Lui si ostinava a volerle provare l’esistenza di Andraste e del Creatore. Lei lo interruppe, con quel suo sorriso disarmante: “Non è la loro esistenza che metto in dubbio, Sebastian. Ciò che non tollero è il loro operato. Se le parole della tua Chiesa sono vere, se loro sono reali come me e te e le loro azioni sono effettivamente quelle che crediamo di conoscere allora hanno tutto il mio disprezzo. Io non ho nessuna intenzione di venerare delle simili divinità.”
Tutti la guardammo come se la vedessimo per la prima volta. Sebastian la fissava con occhi sgranati. Sono certo che si aspettasse di vedere un fulmine colpirla in testa da un momento all’altro.
Ma, come tante altre volte, il Creatore non si scomodò.
Eravamo sconvolti da una simile blasfemia eppure, nel profondo del nostro essere, ammirammo il suo coraggio per aver sfidato il Creatore ed essere sopravvissuta.
 
Hawke
 
Fu sempre a Lothering che m’imbattei per la prima volta nell’ordine dei templari.
Sentendo i racconti dei miei genitori mi ero immaginata delle specie di orchi che rapivano i giovani maghi per portarli in un luogo di tormento e dannazione, invece i soldati che mi trovai davanti erano … magnifici.
Il fulgore delle loro armature, con la spada di Andraste impressa sul petto, le sottovesti porpora con ricami d’oro, l’elmo severo che celava completamente il viso lasciando solo intuire gli occhi che brillavano dietro la feritoia sottile: non avevo mai visto nulla di più maestoso.
Invece di averne paura ne rimasi affascinata.
Sapevo che erano pericolosi e non erano solo gli avvertimenti di mio padre a suggerirmelo: lo sentivo nel sangue ma, come accade per tutte le cose proibite, ne ero irrimediabilmente attratta.
Erano i miei demoni del mondo reale.
Cominciai a recarmi al villaggio anche quando non ve ne era motivo. Mi arrampicavo sul tetto di una casa che si affacciava sul piazzale della chiesa e lì rimanevo, per ore, seduta a guardare quegli uomini che erano miei nemici.
Erano i guerrieri di Andraste e io, assurdamente, desideravo essere una di loro.
Si è mai sentito di un paradosso più grande? Una maga che voleva essere un templare …
All’epoca non capivo, o forse non volevo capire, che quell’universo di cui disperatamente desideravo far parte mi condannava solo per l’oltraggio di essere nata.
La mia magia è la prova che io sono dannata dal loro Creatore e dalla sua sposa.
Il motivo della mia punizione? Nessuno ha mai saputo rispondere a questa domanda.
Sono una maga e tanto basta.
Se solo l’avessi capito subito mi sarei risparmiata molte sofferenze.
Ma ero cieca a ciò che non volevo vedere. Il mio inganno nei confronti dei templari ingannava anche me.
Ero un’eretica che bramava la chiesa.
Mia madre rimase piacevolmente sorpresa da questa mia fervente conversione e insisteva perché accompagnassi lei e i gemelli ad ogni funzione e che imparassi a memoria il Canto della Luce. Papà osservava in disparte, silenzioso: mi guardava recitare le preghiere con occhio attento e ora so che aspettava il momento in cui io capissi le parole che ripetevo a pappagallo. Voleva sapere che cos’avrei fatto una volta capito ciò che la chiesa pensava di quelli come noi.
Purtroppo non lo seppe mai.
Ironicamente il primo colpo sferrato contro il mio fervore religioso lo vibrò Bethany, la mia devota sorella.
Una mattina, mentre dormivo raggomitolata sul mio pagliericcio, sentii una mano scuotermi la spalla. Pensando fosse mia madre che veniva a svegliarmi risposi con un mugugno svogliato, cercando di allontanare quella presa fastidiosa.
- Etain.- sussurrò al mio orecchio una vocetta impaurita – Etain sveglia, sono io: Beth.-
Risposi senza nemmeno aprire gli occhi – Lasciami in pace, voglio dormire!-
Tolse la mano dalla mia spalla ma sentivo la sua presenza ancora lì, accanto al mio pagliericcio. Il russare di Carver riempiva la piccola stanza che condividevamo.
Gli occhi di Beth fissi sulla mia nuca mi resero impossibile riaddormentarmi.
Mi girai svogliatamente, socchiudendo appena gli occhi – Si può sapere che vuoi?-
Sotto il caschetto di capelli neri la sua espressione era seria, si stropicciava le mani nervosamente e gli occhi castani non riuscivano a fissarsi nei miei – Ho … ho un problema, Etain.- mormorò a voce tanto bassa che a stento riuscii a capirla.
In un primo momento pensai si trattasse del manifestarsi di un problema che, inevitabilmente, prima o poi si abbatte su tutte le donne.
Io avevo quattordici anni e Beth unidici; solo pochi mesi prima ero stata colpita da quella sciagura femminile e mia madre mi aveva rivelato i misteri di quel segreto così gelosamente custodito.
Immaginai che Beth fosse semplicemente più precoce di me.
- Parla con la mamma.- borbottai – Lei può aiutarti meglio di me.-
Beth impallidì – Ma tu sei … io pensavo … la mamma non è …-
In quel momento vidi che il palmo della sua mano brillava.
Bethany non era appena diventata donna. Era diventata una maga.
Mi rizzai a sedere, improvvisamente sveglia e attenta – Beth ma questa è … magia!- le rivolsi un sorriso radioso – Oh Beth: è meraviglioso!- feci per abbracciarla ma lei scivolò di lato, gli occhi sgranati come quelli di un animale braccato.
- Come faccio a mandarla via?- sussurrò.
Rimasi di sasso. Quella richiesta non aveva senso per me e, ancora oggi, faccio fatica a concepirla.
- Mandarla via? Ma Beth questo è un dono meraviglioso!-
- Un dono?- squittì con voce acuta – Un dono di chi?-
- Del Creatore!- esclamai in tutta la mia ignoranza.
Bethany mi guardò con aria stranita. Al contrario di me, che mi soffermavo solo sulle belle parole e le gradevoli melodie, lei era andata oltre la forma sgargiante del Canto della Luce e, tra le righe, aveva estrapolato quel messaggio che io mi rifiutavo di vedere.
- Etain …- lanciò un’occhiata fuggevole a Carver per controllare che fosse ancora profondamente addormentato – La magia non è un dono, ma una punizione. Il Creatore ci ha punite per i peccati di nostro padre.-
Ammutolii: una punizione? I peccati di nostro padre?
Quelle parole si rifiutarono di prendere forma nella mia mente e rivolsi a Bethany uno sguardo pieno di compassione.
- Beth, cosa dici? Con la magia puoi guarire i malati e accendere un fuoco nella neve, puoi scacciare le tenebre e far sgorgare l’acqua nel deserto … come potrebbe essere una punizione?-
Fece una smorfia – I maghi hanno ucciso Andraste e corrotto la Città Dorata. Hanno creato il Flagello che un giorno distruggerà il Thedas.- deglutì, chiudendo gli occhi e congiungendo le mani, come se stesse pregando o chiedendo perdono - La magia non è una punizione: è il male incarnato. Papà si è rifiutato di piegarsi al volere del Creatore e per questo Lui lo ha punito tramite noi.-
Sbattei piano le palpebre, cercando di autoconvincermi che parlava in quel modo per paura. Eppure … doveva aver studiato il Canto della Luce molto bene per imparare cose che io a malapena ricordavo di aver udito.
Dov’era il passaggio in cui si diceva che tutti i mali del mondo erano opera della magia? Doveva essermi sfuggito … o forse … mi accigliai incrociando le braccia al petto.
- Non ricordo di aver mai letto nulla del genere, Beth. Te lo stai inventando.-
Lei sbuffò – Perché credi che la chiesa ci perseguiti?-
La sua aria saccente cominciava a irritarmi, dopotutto ero io la sorella maggiore.
Un grugnito dall’altra parte della stanza ci ricordò la presenza di Carver che fece capolino da sotto le coperte sbadigliando e stropicciandosi gli occhi – Vi sembra il momento di mettervi a discutere di teologia? Io voglio dormire!-
Aprii la bocca, forse per comunicare anche a lui quella che era, a mio avviso, una meravigliosa notizia. Bethany intercettò il mio sguardo e scosse piano la testa, il viso stravolto dall’angoscia.
- Scusa. Torna a dormire.- borbottai, mentre mia sorella mi trascinava fuori dalla stanza.
Quell’inusuale complicità avrebbe potuto destare sospetti in una persona più sensibile di Carver, ma lui si limitò a scrollare le spalle e rimettersi a dormire.
Bethany mi trascinò nel prato davanti alla casa, apparentemente incurante di trovarsi a piedi nudi nell’erba irrigidita dalla brina.
- Non devi dirlo a nessuno!- m’intimò, puntandomi un dito contro. Notai una raggelante somiglianza con mia madre. O forse era il freddo a farmi rabbrividire.
- È un po’ difficile mantenere segreta una cosa del genere, Beth.-
Mi guardò male – Tu lo fai da sempre.-
- Non con voi.- obiettai subito – Un conto è mentire a degli estranei, un conto farlo con la propria famiglia.- distolsi lo sguardo, colpita da un pensiero improvviso: avevo mentito in passato quando mi ero lasciata attrarre dalla magia proibita. Ma questo Bethany non poteva saperlo. E mai l’avrebbe saputo.
- Non c’è nulla di cui tu debba vergognarti. Nessuno ti amerà di meno perché sei una maga.-
Si stropicciò le mani, prima di lanciarmi un’occhiata di sottecchi - Ma tutti avranno paura di me e li sentirò sussurrare alle mie spalle.-
Per la prima volta sentii il peso della mia “anormalità”. Ero stata gelosa dei gemelli, talvolta avevo invidiato la loro quotidianità, ma non avevo mai pensato di essere oggetto di sussurri da parte loro e della mamma.
Improvvisamente mi accorsi che, per tutta la vita, mi avevano osservata. Non con l’amorevole sguardo di madre o fratello, ma con quello indagatore di un carceriere.
La mia esistenza minacciava la loro.
Non avevo diritto di biasimarli, lo so oggi come lo sapevo allora.
Avevo fatto tutto ciò che era in mio potere per rendere le loro vite un inferno.
Ero abbastanza matura da comprendere che avevano tutte le ragioni del mondo per detestarmi: sarei stata in grado di affrontare le loro accuse e chiedere perdono per il male che avevo fatto e avrei potuto fare. Ma quelle accuse non erano mai giunte e io, sciocca, avevo creduto nella loro inesistenza. Credevo di avere il loro perdono incondizionato, perché ero figlia e sorella.
Ma quel silenzio, che avevo scambiato per amorevole pazienza, era in realtà solo vigliaccheria. Potevo affrontare accuse e lamentele, ma il silenzio astioso, quello, mi era intollerabile. Tacevano per paura, non per amore.
Alzai lo sguardo su Beth, che rabbrividiva di freddo e angoscia in una notte senza stelle dell’inverno Fereldiano. Mi guardava come se potessi tirare fuori dal cilindro la soluzione a tutti i suoi problemi: era terrorizzata all’idea che la mamma e Carver dicessero di lei quello che fino al giorno prima anche lei aveva pensato di me.
Non temeva la magia in sé, d’altronde come avrebbe potuto? Non la conosceva. Aveva paura di quello che rappresentava agli occhi degli altri: la prova inconfutabile dell’odio del Creatore.
Strinsi le palpebre, improvvisamente insensibile al freddo.
- Non puoi cambiare ciò che sei, sorella. Puoi metterti a piangere, battere i piedi in terra e gridare con tutto il fiato che hai in corpo, ma sei una maga e lo sarai sempre.- il mio fiato si condensava in nuvolette bianche rendendo quelle parole ancora più reali – Puoi mentire, dissimulare, ingannare ma non servirà a niente; se, come dici tu, è il Creatore a punirci, credi che gli importi di quello che provi? La magia fa parte di te, come il sangue e le ossa: non te ne puoi disfare, non puoi gettarla via. Fattene una ragione, Bethany.-
Le voltai le spalle e tornai in casa, lasciandola sola a tremare nell’oscurità della notte.
Mi sarei dovuta comportare diversamente? Probabilmente sì, non mi comportai come una sorella amorevole. D’altronde non l’ho mai fatto.
  
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