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Autore: Barbara Baumgarten    29/10/2015    0 recensioni
Mi sono sempre chiesta come sarebbe stato Twilight se a parlare fosse stato Edward. Ecoo che, allora, ho deciso di ripercorrere l'intera vicenda con gli occhi del vampiro.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Carlisle/Esme, Emmett/Rosalie
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Twilight
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Un altro, noioso, prevedibile giorno di scuola. Edward Cullen camminava lungo il parcheggio antistante l’istituto superiore di Forks, guardando in basso, senza concentrarsi su qualcosa in particolare. Non che ne avesse bisogno: i suoi sensi, bastavano per evitare un qualsiasi scontro e i suoi riflessi, gli consentivano di muoversi agilmente fra gli studenti. La stessa cosa non poteva dirsi degli altri ragazzi, perché Edward Cullen non passava, certo, inosservato. Alto, atletico, capelli arruffati al punto giusto, sguardo magnetico e volto angelico: un dio, stando a molti dei commenti che venivano sussurrati alle sue spalle. Lui sorrideva, ogni volta che i pensieri adolescenziali gli invadevano la testa: un sorriso amaro, di chi si è arreso ad un destino crudele quanto il mostro che era. Forks…poco più di tremila e seicento anime, ignare di quanto la famiglia Cullen avesse potuto rappresentare un pericolo, se solo avesse voluto. Edward, così come la sua famiglia, faceva parte della mitologia, per molti, delle paure, per tutti. Tuttavia, grazie a Carlisle, era stato capace d’integrarsi senza lasciar trapelare la sua vera natura: era un vampiro, un mostro assetato di sangue. Ma anche un mostro che era riuscito, non senza grande fatica, a mantenere uno stile di vita più salutare per tutti. Si cibava ogni due o tre settimane, nei boschi, uccidendo puma, per lo più. Quello stile di vita non era condiviso da tutti i vampiri, anzi, la famiglia Cullen rappresentava una rarità. Non era facile controllare la sete, sentire il bruciore pervadere la propria gola, lo stomaco contorcersi dal desiderio e placarne i sintomi con un ripiego animale. Tuttavia, era necessario. La sua famiglia aveva deciso di convivere con gli esseri umani, integrandosi, per lasciare spazio a quella parte umana che, secondo Carlisle, era ancora viva in loro. Ma Edward si chiedeva ogni singolo giorno, quanto fosse sepolta in lui e, soprattutto, se suo padre avesse ragione.
Quella mattina, sembrava che il mondo intero fosse in fermento. Ovunque posasse il suo pensiero, sentiva sempre le stesse due parole, condite da varie esclamazioni di meraviglia e curiosità: Isabella Swan, la figlia dello sceriffo di Forks. Non riusciva a comprendere il motivo di tanto eccitamento e, soprattutto, non riusciva a nascondere un certo divertimento nell’ascoltare i pensieri. C’era chi sosteneva di averla già vista suscitando l’incredulità degli altri, come se stessero parlando dell’abominevole uomo delle nevi; altri, soprattutto ragazze, che sembravano preoccupate dall’arrivo di una nuova gallina nel pollaio. Fondamentalmente, Forks era una piccola cittadina e la concorrenza era alta.
“Chissà come sarà?” diceva una ragazza mora, appoggiata al suo pick up. Edward riuscì a notare la differenza fra ciò che chiedeva e ciò che pensava. Sorrise all’ipocrisia.
“Come sarà chi?” chiedeva, annoiata, l’amica.
“Ma Isabella Swan! E chi, se no? Non sai che si è trasferita dalla Arizona?”
“Sicuramente” sentenziò la biondina che si guardava nello specchietto laterale dell’auto, aggiustandosi i capelli “avrà qualche menomazione. Altrimenti, non si spiega perché abbia lasciato la terra del Sole per questo angolo sperduto, umido e nuvoloso” Edward non poté non scuotere la testa, al solo sentir parlare quella ragazza. Erano tutte così tristemente prevedibili. E ipocrite. Ma non poteva lasciarle fuori dalla sua testa. 
Per quanto, infatti, Edward cercasse di vivere quella giornata come fosse un lunedì qualunque, non riuscì nel suo intento. La testa gli scoppiava. Molti avrebbero pensato, che poter leggere nei pensieri delle persone fosse una cosa positiva, ma nessuno ha mai valutato i lati negativi della questione: Edward non poteva spegnere il suo dono. Ciò significava che, ogni singolo minuto di ogni noiosa giornata, la sua mente era invasa dai pensieri altrui. Non aveva modo di silenziarli, non poteva ritagliarsi un momento di solitudine. Aveva provato varie volte, ma dopo quasi ottant’anni di esercizio, era riuscito solo ad attutirne il rumore, ovattando i pensieri che gli invadevano la testa, senza, tuttavia, eliminarli. Così, la sua vita procedeva in linea retta, sospesa fra due abissi: il mostro che era, assetato di sangue umano ma costantemente in lotta con se stesso per resistere all’istinto omicida e il lettore di pensieri, perennemente violentato nella sua mente dalle stupide idee altrui. Ma anche lui, aveva pensieri. Negli ultimi ottant’anni, cioè da quando Carlisle l’aveva trasformato, non era trascorso giorno senza un’idea fissa: la morte. Edward credeva che la sua esistenza – perché di quello si parlava, non certo di vita – fosse un dolore per sé e per gli altri. La sua famiglia, per quanto bene gli dimostrasse costantemente, non capiva l’immenso baratro di solitudine che lo trascinava in basso, verso l’inferno. Solo Alice sembrava accorgersi del suo malumore, ma, come tutti, era impotente. Una volta, anni prima, Edward stava pensando, con più risolutezza del solito, ai Volturi: gli unici capaci di porre fine alla sua esistenza. Stava pianificando ogni cosa, aveva perfino scritto una lettera per ogni componente della famiglia e fu per quello, per la sua convinzione, che Alice si fiondò nella sua camera. Non si dissero molto, non c’era bisogno. Lei si sedette di fianco a lui, sul pavimento, dove giacevano sparpagliati i diversi fogli, sui quali, Edward aveva provato e riprovato a scrivere il messaggio di addio. Quando lui la vide entrare, capì quanto si fosse spinto vicino alla morte. Alice, infatti, poteva vedere il futuro solo dopo che le decisioni venivano prese: evidentemente, aveva visto suo fratello morire, per mano dei Volturi. Poteva leggere l’orrore della propria morte, riflessa nelle iridi d’orate della sorella e capì quanto, in fondo, temeva di perderla. I vampiri non possono piangere. Ma quel giorno, Edward si abbandonò nelle braccia di Alice in un pianto silenzioso, senza lacrime, violento come un fiume in piena. Non si ricordava nemmeno cosa volesse dire, piangere. Si sentiva uno sciocco, perso e perduto. Alice aveva Jasper, Rose aveva Emmet e lo stesso valeva per Carlisle ed Esme. Lui era solo, non aveva nessuno. Era un mostro solitario, disperso nell’arida terra dei pensieri vuoti, dove rimane solo l’eco del proprio dolore.
Alice non disse nulla, ma permise al fratello di leggere nella sua mente, dove in sequenza, come in un trailer cinematografico, si susseguivano le immagine delle loro vite insieme. Rimasero così, abbracciati, tutta la notte, finché le luci dell’alba non segnarono l’inizio di un nuovo giorno. Non ne parlarono mai ed Edward non pensò più, così seriamente, alla morte. L’idea dei Volturi rimase in lui, latente, come il ricordo di un sogno che ci conforta nelle ore di veglia. La morte rimase una piacevole soluzione, consolatoria. In fondo, c’era tempo per recarsi in Italia.
C’era tutta l’eternità.
   
 
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