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Autore: Blackvirgo    23/02/2009    5 recensioni
C'è una vecchia attorno al fuoco che racconta la storia del mondo quando ancora c'erano gli spiriti. C'è una bambina sicura che un giorno incontrerà uno spirito. C'è un bardo che, ascoltando la storia della vecchia e osservando la bambina, si chiede se in quella storia anche lui - per uno strano scherzo del destino - abbia un ruolo. E, prima della fine, ognuno - in un modo o nell'altro - troverà ciò che cerca.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Naraku, Nuovo personaggio, Sesshoumaru, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 14


Di angoscia, di miraggi e di fatica

 Il destino avanza in silenzio.
Oreste


Aveva visto. E prima ancora aveva sentito.
Stava aspettando che qualcosa succedesse, stava aspettando la salvezza da quel mondo che si stava disgregando sotto i suoi occhi. Ma non poteva fare altro che attendere di sguainare le sue spade, di combattere.
E poi c’era stata quella sensazione familiare che lo aveva attraversato. Aveva spalancato gli occhi, incredulo, non osando muoversi, temendo che fosse stato un sogno, un timore che spesso lo accompagnava in quel periodo. Ma quella sensazione non passava, così come il cambiamento che era iniziato da un refolo di aria fresca. Sesshomaru inspirò profondamente e aprì gli occhi. E vide un mondo che non stava cambiando, ma che stava cadendo a pezzi, respiro dopo respiro.
Alzò il capo verso l’alto e la vide: una falce di luna, lontana, in un altro cielo, in un altro mondo. Il miraggio di un altro sogno.
E poi lo vide: un uomo. Che sembrava contemplare qualcosa, lontano, un’immagine che, probabilmente, viveva solo nella sua mente. Si chiese perché gli uomini non fossero in grado di fare una sola cosa alla volta, non fossero capaci di stare  fermi, di stare a osservare la luce della luna, di vedere le cose per quelle che erano.
Abbassò lo sguardo, stupito: mai avrebbe creduto che un uomo potesse destare in lui tanto interesse. Ma ora era diverso, quel luogo immutabile e prossimo alla fine lo aveva cambiato. Gli era bastato un riflesso di luna per capirlo… e gli era bastato vedere un uomo per capire che loro no, loro non erano cambiati: sempre in movimento anche quando stavano fermi. Sempre incomprensibili.
Eppure quella notte di un mondo lontano era troppo buia, e la luna non era abbastanza luminosa. Forse gli uomini erano rimasti gli stessi, ma il loro mondo era cambiato.
Sesshomaru di nuovo alzò lo sguardo e i suoi occhi incontrarono quelli dell’uomo: vide le sue pupille dilatarsi, in preda alla paura, la mente che cedeva la ragione al panico, i sensi all’erta, affinati dalla smania di sopravvivenza.
Era abituato a simili reazioni, in passato, quando nei suoi viaggi incontrava degli umani. Pochi fra loro l’avevano visto con altri occhi: alcuni aggiungevano un reverenziale rispetto, altri la rabbia, l’odio… solo una tra gli umani non lo aveva mai guardato così.
Lo spirito sentì un brivido attraversare il proprio corpo, mentre le sue pupille si dilatavano, la sua mente si arrendeva al caos nero del panico e le sue viscere si aggrovigliavano, strette nella morsa della smania di sopravvivenza. Si chiamava paura, ma lui preferiva chiamarlo freddo.
Gli occhi dell’uomo mostravano terrore. Ma non era quel timore a cui era abituato, non era paura di un essere diverso e potente, paura della morte, paura della vita.
Quell’uomo aveva una smorfia di stupore sul viso, aveva la consapevolezza di aver di fronte uno spirito e la certezza che non avrebbe dovuto vederlo.
Sesshomaru aveva già visto quello sguardo incredulo: Inuyasha guardava così la sacerdotessa accompagnata dai fuochi fatui e anche Naraku. Era lo sguardo che solo le anime dei morti che vagano senza lo spirito, senza la vita, meritavano.
Per Sesshomaru, improvvisamente, perse importanza quale nome avesse il freddo che lo mordeva dall’animo.
Per quell’uomo gli spiriti erano fantasmi, erano morti. O non erano mai esistiti.
La chiamò angoscia e si sentì perduto.



I due combattenti si fermarono a guardarla: avevano dimenticato che colei per la quale combattevano era ancora viva.
Avevano dimenticato – o forse non avevano mai saputo – cosa li avesse portati lì. Avevano solo continuato a fare ciò che avevano sempre fatto: combattere. Per vendetta o per invidia, per diletto, per far male. Per affermare la propria natura di mezzo spettro, per affermare quella di mezzo uomo. Per affermarsi e basta. Per sopravvivere. Per vivere. O per morire in pace.
Solo il suo risveglio poteva interrompere una lotta che ormai alimentava se stessa senza dare nulla in cambio.
La osservarono per un lungo istante mentre lei posava lo sguardo prima su uno e poi sull’altro. Entrambi si avvicinarono a lei un passo, tenendo d’occhio l’avversario, senza smettere di guardarla. Desiderio lampeggiava nei loro occhi, e timore.
Lei aveva chiuso gli occhi quando erano arrivati in quel luogo.
Ora…



Correva. Più veloce che poteva, scansando rami e radici con una prontezza di riflessi che mai avrebbe creduto di possedere.
Correva e non si ricordava neppure perché. Solo sapeva che doveva allontanarsi perché quello che aveva visto era pericoloso, perché quello che aveva visto era potente, perché quello che aveva visto… cos’era? Si chiese quando alla fine le sue gambe cedettero sotto il suo peso e cadde, bocconi, e poi disteso, cercando di prendere aria, di farla arrivare nei polmoni e nel cuore e nelle gambe perché la corsa non doveva fermarsi.
Ma quei pochi istanti gli permisero di ritrovare il lume della ragione, gli permisero di ricordare da cosa fuggiva. Un’immagine della sua fantasia rispecchiata su un lago. Ecco da cosa fuggiva.
Si mise a ridere, sguaiato, senza alcun ritegno, sforzandosi di trovare la cosa divertente, cercando di nascondere l’imbarazzo di fronte a tanta ingenuità, provando a dimenticare il terrore che aveva provato, cercando di nuovo nella mente quell’immagine bianca e immobile e effimera. E rivedendo due occhi gialli dallo sguardo duro e angosciato.
Avrebbe voluto tornare al lago per convincersi di aver visto un miraggio, ma il timore di scoprire che era vero non gli permetteva di muovere un passo in quella direzione.
Si risolse a tornare verso la locanda, zoppicando – doveva essersi storto una caviglia nella fuga.
Avrebbe parlato alla vecchia l’indomani. L’avrebbe preso per pazzo, ma non gli importava: sempre meglio che credersi pazzo. Le avrebbe raccontato della pergamena e le avrebbe chiesto perché su quel lago, alla luce della luna, appariva un guerriero vestito di bianco – aveva due spade, lo ricordava ora! – e con gli occhi gialli come quelli di Inuyasha. Avrebbe preteso la fine di quella folle storia che raccontava di spiriti e uomini e della loro separazione.
Perché, per quanto gli costasse ammetterlo, sapeva che in quella storia c’era un posto anche per lui e, per una volta, non era disposto ad abbandonare una certezza.



La vecchia aprì gli occhi: doveva essersi addormentata su quella logora poltrona di vimini, sfinita dai troppi pensieri che non le davano tregua neppure durante il sonno.
Visi familiari le si affacciavano alla mente, di continuo: aveva di nuovo cominciato quella storia che, da sola, aveva ripreso il suo ciclo, lunga quanto la vita di coloro che l’avevano vissuta, mentre il suo tempo sembrava sempre più corto.
Ora faceva fatica a respirare, ora tossiva, ora il suo cuore batteva troppo in fretta: non sapeva se il fiato le sarebbe bastato.
Dove era arrivata? Ah, sì: quando andarono a liberare Kagome. Quando i nemici di Naraku si coalizzarono contro di lui la prima volta, ancora troppo occupati a combattere fra loro che ad unire le forze. C’era Koga, capo di un branco di lupi che il mezzo spettro aveva massacrato, innamorato di Kagome, giovane e impulsivo come ogni ragazzo che ancora coltiva l’illusione di avere il mondo in tasca. C’era Sesshomaru, il fratellastro di Inuyasha, che sembrava aver dichiarato una crociata contro i uomini e mezzi uomini, eppure camminava tra i boschi con una bambina umana al seguito. La dimora di Naraku era stata distrutta quella volta e tutti si erano messi in salvo: Inuyasha e i suoi avevano trovato rifugio al convento, da Kaede. Gli spiriti avevano ripreso le loro vie che, si sa, sono diverse da quelle degli umani. E poi Naraku aveva trovato un nuovo rifugio, sul monte che sovrastava il villaggio: i sette mercenari e le sue creature lo difendevano mentre si riprendeva dallo smacco subito, mentre tesseva nuove tele, ordiva nuove trame. Mentre muoveva i loro fili allentandoli e poi tirandoli a sé, torturandoli e distruggendoli, giocando allo stesso modo coi nemici e cogli amici. No, non amici. Naraku non aveva amici.
La vecchia si portò una mano al petto: il suo cuore era pesante, gravido dell’odio per quell’essere che non era nato da nessuna donna, ma che aveva creato se stesso, credendo di essere un dio. Odiava tutto il male che aveva fatto, odiava i sacrifici a cui li aveva portati. Tutti loro, giovani, vecchi e bambini, intrappolati in un destino che non avevano scelto ma che, nello stesso avevano perseguito fino in fondo. Anzi no: il fondo non era ancora arrivato.
La vecchia tirò un lungo sospiro, stringendo la mano che aveva sul petto attorno alla Sfera: mai quell’oggetto le era parso tanto pesante. Le premeva sul cuore, le impediva il respiro, le annebbiava la mente.
E quei segni potevano dire una sola cosa: quel maledetto gioiello si stava risvegliando.

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Capitolo breve, ma denso…
Un ringraziamento di cuore a tutti i lettori, un abbraccio alle mie fedelissime: Miriel, Jekka, Mikamey e Rosencrantz. Spero di rimanere alle altezze dei vostri apprezzamenti!
   
 
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