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Autore: Elisa Ristori    09/11/2015    0 recensioni
E possa la fortuna essere sempre a vostro favore!
Nascere a Panem non è una fortuna. Lo sa bene Diana Castro 16 anni, Distretto 11. Chi nasce a Panem si trova a dover fare i conti con la fame, la povertà, i lavoro duro e le angherie dei Pacificatori. Ma la peggiore di tutte le sfortune per gli abitanti dei Distretti sono gli Hunger Games, i giochi della fame, un reality all'ultimo sangue. Compiuti i 12 anni la sua vita è stata condannata, la morte che alita sul collo come se fosse una vecchia amica. E prima o poi la vita torna a chiedere il conto e lo fa nel peggiore dei modi.
Tributo nella 75* edizione dei Giochi, Diana si trova a far i conti con la morte per la prima volta nella sua giovane vita, ma determinata e coraggiosa ce la metterà tutta pur di non soccombere e sopravvivere. Al suo fianco James, compagno di sventura, e due mentori speciali: Peeta Mellark e Katniss Everdeen.
Riusciranno ad uscire illesi dall'Arena mortale? O Panem l'avrà vinta ancora una volta? Beh non vi resta che leggerlo e scoprirlo da voi.
P.s Riposto con qualche modifica.
Genere: Azione, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Cinna, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Otherverse | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Tre minuti, solo tre minuti. Ecco tutto quello che mi era stato concesso con i miei genitori, probabilmente non gli avrei più rivisti e per salutarli avevo avuto solo tre dannatissimi minuti.

Quante cose avrei voluto dirgli: erano stati i genitori migliori del mondo, non ce l’avevo con loro per avermi messa al mondo e condannata ad una vita simile, perché mi avevano regalato la vita migliore che una ragazza potesse desiderare e a me era bastato il loro immenso amore per avere tutto.

Il pensiero di non rivederli più mi uccideva, che ne sarà di loro senza di me, mi dicevano sempre che ero la loro vita, la loro immensa gioia e ora gli ero stata strappata via senza che potessero farci nulla e senza che potessero impedirlo. Mi tornano davanti gli occhi smarriti e vuoti di mia madre, il suo pregarmi di tornare a casa viva, perché senza di me non ce l’avrebbe fatta, non avevo potuto dirgli di no, le avevo fatto quella promessa che io stessa sapevo di non poter mantenere.

E mio padre, lui era già consapevole di quello che sarebbe successo, era consapevole che non mi avrebbe più rivista, che quello era il nostro ultimo abbraccio, lo era stato quando gli avevo chiesto di stare vicino alla mamma perché lei non era forte come noi, lo avevo visto nei suoi occhi mentre mi prometteva che c’avrebbe pensato lui adesso.

Quei tre minuti erano stati gli ultimi della nostra vita insieme, l’ultimo abbraccio, gli ultimi sguardi e poi una porta e un Pacificatore ci avevano separati per sempre. Una lacrima scappa al mio controllo e mi scivola dagli occhi, unica e solitaria, perché ho imposto a me stessa di essere forte, di non piangere, il pianto è per le persone deboli e io non voglio essere una di loro. Mi passo una mano sul viso catturandola e togliendone ogni traccia quando sento la porta spalancarsi e alzo gli occhi: Glenda e la sua vocetta stridula mi esortano ad uscire e seguirla.

Lascio quella stanza spoglia e vuota e mi accodo dietro di lei, appena fuori incontro di nuovo il mio compagno, James e per la prima volta mi soffermo a guardarlo: alto, capelli scuri, occhi neri e profondi, pur avendo una corporatura esile ha le braccia forti, sembra quasi che possa alzarti con un braccio solo senza fare il minimo sforzo. Guardo il suo viso e la sua espressione, terrorizzata e smarrita, gli si legge chiara la paura di quello che sta per affrontare, ma ha la mia stessa fierezza nell’avere la testa alta e affrontare tutto con enorme dignità. Se c’è una cosa che abbiamo imparato nel nostro distretto è che non possiamo permetterci di essere deboli, dobbiamo sopravvivere a qualunque costo alle privazioni che Capital City ci impone.

Ci caricano su una macchina, Glenda al centro che non la smette di cinguettare con quella sua vocetta fastidiosa, decantando la magnificenza di tutto quello che ci aspetta da qui a due settimane, io ormai faccio finta di non ascoltarla e mi concentro sul paesaggio fuori dal finestrino: attraversiamo per intero il nostro Distretto per raggiungere la stazione e vedo quelle strade, quelle case e botteghe cosi familiari sfrecciarmi davanti l’ultima volta, questo è l’ultimo saluto alla mia casa.

Arrivati alla stazione c’è uno stuolo di gente che è venuta a darci l’ultimo saluto, ci fissano mentre passiamo in mezzo a loro, con i volti di tristezza e compassione, nessuno dice nulla, nessuno applaude, solo un silenzio assordante, un silenzio che vuol dire pieno rispetto. Glenda ci precede sul treno, noi la seguiamo, io resto fermo qualche secondo sulla soglia, un ultimo sguardo alla gente del mio distretto, un ultimo sguardo a casa mia, poi volto le spalle e l’enorme portellone si chiude con un tonfo sonoro. Seguo Glenda e James entrando nel primo vagone il treno ormai parte e sfreccia ad una velocità assurda, ma li dentro nulla si muove e tutto calmo e tranquillo che non ti rendi conto di star viaggiando.

Quello che mi colpisce appena entro è lo sfarzo, il lusso eccessivo tipico di Capital City: tavoli di legno pregiato, lampadari di cristallo che scendono dai soffitti, divani enormi e soffici di un bel blu elettrico e poi un enorme tavolata piena di ogni cibo possibile e immaginabile. Non ho mai visto tanto ben di Dio tutto insieme, a casa a malapena riuscivamo a mettere insieme un tozzo di pane portato dal forno e un po’ di selvaggina che prendevo nei boschi, quando mi andava bene. Qui non saprei cosa scegliere prima, l’istinto mi farebbe lanciare di volata sul tavolo e prendere il doppio di tutto, ma ovviamente non faccio nulla di tutto ciò, mi limito a seguire in silenzio il mio compagno e sedermi sulla poltrona blu di fianco a lui.

Glenda sparisce con la scusa di andare a cercare qualcuno di cui non capisco il nome e neanche mi interessa, cosi lascia me e James da soli. Tra noi regna il silenzio, io non ho ancora deciso se potrebbe essere un mio alleato o un possibile assassino e quindi tenermene alla larga, ma non sembra cosi male dal viso.

Sento ogni tanto il suo sguardo addosso, come se stesse pensando la stessa cosa, per un po’ nessuno dei due parla, ma il primo a rompere il ghiaccio e lui: << Hai…hai idea di chi possano essere i nostri mentori? Voglio dire, l’11 non ha un vincitore..l’ultimo in vita è morto!>> mi chiede, sento una leggera incertezza nella sua voce, quasi indecisione a rivolgermi o meno quella domanda. Io mi volto verso di lui e lo guardo attentamente prima che possa rispondere alla sua domanda, qualcosa nei suoi occhi puliti e sinceri, nella sua espressione di poco prima che riflette anche ora, me lo fa vedere come un potenziale alleato più che come un avversario e in quel momento decido che lo voglio al mio fianco, in qualsiasi cosa. Ho visto le edizioni precedenti, soprattutto l’ultima e ho imparato che un alleato può salvarti la vita, tanto quanto lo fanno gli sponsor e un mentore. << No…non ne ho idea, ma spero per noi che sia qualcuno che sappia darci saggi consigli e non un qualche squilibrato….voglio dire, non ho scelto io di venire qui….non…non voglio morire senza averci provato!>> gli rispondo non riuscendo a trattenere il mio pensiero finale, la mia paura più grande. Vedo che James annuisce piano abbassa gli occhi per poi distogliere lo sguardo da me: << Beh neanche io avrei voluto esserci qui….ma ormai è andata cosi e posso solo affrontarla, nel migliore dei modi!>> dice con la voce rassegnata, sembra quasi che anche lui abbia ceduto all’evidenza che non tornerà mai più a casa, ma mentre io sono decisa a lottare qualcosa nella sua voce mi fa vedere come una resa, come se avesse deciso di gettare la spugna senza neanche provarci.

Sto per rispondergli quando sento la porta del vagone aprirsi, entrambi ci voltiamo contemporaneamente per vedere chi sia ed entrambi rimaniamo sorpresi: Katniss Everdeen e Peeta Mallark, i vincitori degli ultimi Hunger Games, gli “Innamorati Sventurati”. << Ehi ragazzi, come va? Venite a sedervi cosi parliamo un po’..>> è Peeta il primo a prendere la parola, quando entrambi si sono avvicinati a noi e ci invitano a sederci sul divano. Riprendo il mio posto e mi scambio un occhiata veloce con James, entrambi stiamo pensando la stessa cosa: cosa ci fanno con noi Katniss e Peeta? << Ehm…come mai siete qui?>> James rompe il ghiaccio dando voce alla domanda di entrambi, Peeta e Katniss si scambiano uno sguardo e sorridono leggermente. << Beh ecco vedete ragazzi, noi siamo i vostri mentori! Non ne avevate uno e cosi….abbiamo deciso di venire ad aiutarvi….entrambi!>> ci spiega Peeta, che tra i due ricordo essere quello bravo con le parole. << E poi il nostro Distretto ha già Haymitch, che per quando possa sembrare…è un ottimo mentore!>> aggiunge Katniss.

Si ricordo perfettamente il loro mentore l’anno scorso e diciamo che aveva un po’ una cattiva fama che lo precedeva e che lui stesso, non rendendosene conto, spesso confermava: era un po’ troppo amico della bottiglia di liquore. Ma se era riuscito a portarsi a casa sani e salvi due vincitori per la prima volta nella storia degli Hunger Games, beh qualcosa di buono deve averla per forza. Io e James torniamo a guardarci di nuovo, nei nostri occhi si è come acceso un barlume di speranza, abbiamo Katniss e Peeta come mentori, abbiamo i vincitori dell’anno scorso, i primi due sopravvissuti della storia di quei giochi, forse allora non siamo cosi spacciati una chance possiamo avercela anche noi. << Ragazzi capisco perfettamente cosa state passando in questo momento, lo capiamo entrambi: l’anno scorso anche noi come voi eravamo su questo treno, l’anno scorso anche noi pensavamo di non farcela e di non uscire vivi da li dentro, di andare incontro alla morte e non rivedere mai più le nostre famiglie. Ma vedete siamo qui, noi ce l’abbiamo fatta e vi posso assicurare che faremo tutto il possibile per farvi uscire vivi da li dentro!>> Peeta ci guarda entrambi dritti negli occhi parlandoci con voce ferma e sicura, pienamente convinto di quello che dice e allo stesso modo vuole che siamo noi a lasciarci convincere dalle sue parole. James annuisce, io abbasso gli occhi, non sono poi cosi convinta, loro sono i migliori, ma andiamo basta guardarmi per capire che non ho neanche un briciolo di speranza di uscire viva da quel posto. << Ehi…..Diana giusto? Guardami un po’!>> adesso è Katniss che si è avvicinata a me, alzo il viso e i miei occhi incontrano i suoi, accenna un sorriso: << Ti ho visto alla mietitura sai? Ho visto il tuo sguardo, io lo so…tu sei forte, sei coraggiosa, sei una combattente nata! Ti fidi di me? Tu uscirai viva da li dentro!>> Nei suoi occhi vedo qualcosa, qualcosa che mi ricorda me…Katniss Everdeen non ti conosco eppure mi sembra di conoscerti da una vita. Il suo modo di parlarmi, come se conoscesse ogni singolo tratto del mio essere, mi ha ricordato le parole di mio padre: si io sono una guerriera, ho combattuto per anni contro la fame, contro le angherie dei Pacificatori e ho sempre vinto, non ho mai mollato e non lo farò proprio adesso. Solo che…. << Non…voglio diventare una pedina dei loro giochi! Non voglio diventare un assassina come loro, io non sono come loro! Io…io li odio e odio questi maledetti giochi!>> ammetto per la prima volta quello che penso seriamente. Vedo Peeta e Katniss scambiarsi un occhiata dopo le mie parole ed entrambi sorridere: << Beh ecco un’altra piccola Katniss…non poteva capitarci di meglio!>> scherza Peeta, tutti si lasciano andare ad una risata e in quel momento lo faccio anche io con loro.

  
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