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Autore: SunVenice    10/11/2015    3 recensioni
Sull’isola di Nido Leila non tutto è andato perduto e tre sorelle possono ancora respirare l’aria libera del mare. Finchè un’altra ombra si abbatte su di loro. E tutto cambia.
//Spin off-Sequel della fanfiction Kaizoku no Allegretto. Non è obbligatorio leggere la prima opera, ma è consigliato se voleste capirci di più :3
Genere: Avventura, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caesar Clown, Donquijote Doflamingo, Donquijote Family, Nuovo personaggio, Trafalgar Law
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Sirene di Fuoco'
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Declaimers: Non possiedo One Piece in alcun modo. Ma l’idea delle Paradisee è mia e se Oda sa veramente l’italiano e sta leggendo gli voglio dire solo una cosa: GIU’ LE MANI!!

 

 

1: At Lion’s Mercy 

 

I’m not the hunter,

I’m not the marked

Just looking for wisdom in the dark.

 

Lions make you brave,

Giants give you faith,

Death is a charade.

You don’t have to feel safe

to feel unafraid.

 

Lions! ~ LIGHTS

 

Immerse nell’oscurità di quella grande stanza fredda e metallica, Dita aveva quasi perso il conto nel tempo. 

‘Quasi’ perché solo lei sapeva meglio di chiunque altro in quella prigione buia e silenziosa come tenere conto dei secondi. Era una sua specialità fin da piccola, frutto di anni ed anni in cui, quando il sole sorgeva sulle chiome fiorite della loro isola, le sue sorelle l’avevano lasciata al sicuro in posti molto simili, ben sapendo quanto sarebbe stato impossibile per lei sopravvivere alle insidie che si annidavano dietro ogni pietra o tronco marcio, pur anche con il sostegno delle altre.

Il trucco era semplice quanto efficace: attendeva con ginocchia al petto ed intransigente mutismo lo scorrere del tempo, concentrandosi solo ed unicamente sul proprio respiro che, Dita sapeva di non averlo mai dato a vedere nemmeno a Gaida, aveva sempre mantenuto regolare e ritmico dacché ne aveva memoria. Era addirittura riuscita a contare a quanti suoi respiri equivalesse un giorno intero, inteso come due ascese e discese del sole e della luna.

Dita era riuscita a contare circa 3 giorni dacché erano state incatenate tutte e tre in quella tomba, dove a ciascuna era stata riservata, almeno da quel poco che era riuscita a intravedere dai pochi istanti di luce che avevano preceduto l’oscurità, una specie di scatola metallica fatta di pezzi verticali di pietra fredda e liscia.

Guardando ad occhi azzurri e spalancati nel vuoto incolore di quel luogo orribile, dove era certa le sue sorelle stessero soffrendo allo stesso modo, Dita soffriva nel cercare di non divorarsi le labbra ad ogni crampo che le arrivava allo stomaco.

Tre giorni. 

Avevano passato tutto quel tempo senza cibo e l’unica fonte liquida che era venuta loro era stato un magro assaggio fatto di gocce di condensa che puntualmente si formavano sulle sbarre di quella cella ingrata e che, in mancanza di altro, avevano lappato via con la gola arsa e stretta dalla sete.

Come se non fosse bastato il panico di non sapere dove i ‘demoni vestiti di bianco’ le stessero portando, in aggiunta al dolore e la fame straziante, anche l’ondulare continuo della loro prigione galleggiante aveva messo a dura prova i suoi nervi e, ne era sicura, anche quelli di Gaida e Tuba lì con lei.

Inizialmente Dita aveva provato ad associare quel lento cullare che le circondava a quello delle braccia di loro madre, e non a quello della grande cosa galleggiante che le stava lentamente portando via da tutto ciò che avevano sempre conosciuto ed amato.

Una patina lucida ed umida le ricoprì gli occhi, pur sapendo di non potersi neppure permettere il lusso di piangere.

Neanche una lacrima.

Strinse le labbra secche, impedendo ad un singhiozzo involontario di uscire.

La loro mamma. La loro dolce, dolcissima mamma. Colei che l’aveva dondolata tra le braccia dacché aveva visto la luce delle stelle, mormorandole lente e melodiose parole di amore e di conforto, anche quando anni più avanti, più grande e meno infantile, l’aveva cercata con il cuore a mille ed il respiro pieno di ansia cercando nulla di più che un abbraccio dove affondare le sue insicurezze.

La sua mamma non c’era più ormai.

Il suo stomaco si strinse con un lungo lamento straziato, accompagnato da una fitta che rischiò di farle perdere i sensi.

Non si era nemmeno concessa il lusso di dormire.

Aveva paura che, addormentandosi, non si sarebbe mai più svegliata.

“Dita?”

Da qualche parte nell’oscurità, finalmente un paio di pupille gemelle risplendettero di un chiarore pallido.

Dita avrebbe riconosciuto sua sorella maggiore Tuba anche senza che i suoi occhi risplendessero di luce propria, ma sapere esattamente dove fosse, dopo giorni di completo silenzio e buio, la rassicurarono, almeno un po’.

Sotto quel manto sottile ed impenetrabile di tenebre Tuba doveva essersi raggomitolata esattamente come lei su se stessa, forse anche lei contemplando il vuoto,e sicuramente con la mente rivolta altrove.

Al suo fianco udì il suono pacato di tessuti ruvidi spostati appena dal movimento di un corpo riemerso dall’immobilità.

Dita capì di avere Gaida al suo fianco, anche se separate da più di un metro di distanza.

“Dita?”

La voce arrochita dalla sete di Tuba l’aveva richiamata, un poco tremante, forse credendo fosse svenuta o peggio.

“Tuba?” riuscì a stento a pronunciare il nome per intero, la gola strettasi verso la fine per mancanza di saliva. Cercò di rischiarare la propria voce con un paio di colpi da tosse, ma il dolore che ne seguì fu così forte che desistette quasi immediatamente.

L’importante era far sapere alle altre che fosse ancora cosciente.

Un’altro doloroso gorgoglio da parte dello stomaco e Dita si raggomitolò nuovamente su se stessa, la bocca oramai asciutta, neanche una piccola goccia di saliva ad umettarle gola e lingua.

“Resisti Dita…”

Era stata Gaida stavolta a rivolgerle parola, ma non serviva che glielo dicesse perché stringesse i denti, combattendo con il proprio corpo una battaglia per il bisogno di cibo già persa in partenza. 

Poi, all’improvviso, il lento ondeggiare della loro cella subì un cambiamento.

Ci fu un istante in cui sentirono il peso dei loro corpi trascinarle da una parte soltanto, in avanti, come se, comunque si chiamasse, quella cosa con cui le stavano trasportando si fosse inclinata pericolosamente.

Le catene che bloccavano loro i polsi tintinnarono, seguendo il movimento che le portò ad aggrapparsi alle sbarre delle loro stesse celle. La sensazione di trovarsi su una superficie sbilenca durò finché, lentamente, tutto si raddrizzò.

“Stiamo…rallentando.”

Fu Tuba ad accorgersene per prima.

Dovunque fossero arrivate, in qualunque posto le avessero portate, quel supplizio era giunto al termine.

O forse, doveva ancora iniziare.

Poco per volta il dondolio che per giorni le aveva accompagnate diminuì, lasciando i loro corpi spossati dalla lunga privazione di cibo ed acqua, anche intontiti dall’improvvisa mancanza di movimento a cui si erano inconsciamente abituate e di cui le loro membra continuavano a scandire il ritmo senza rendersene conto.

A Dita la testa girò così tanto che si lasciò cadere in avanti, la fronte pressata contro il pavimento e la polvere umida dal sapore metallico, unita ad altri odori disgustosi, ad invaderle le narici.

Non ne poteva più.

“Dita. Dita.”

Le parole di Gaida ed un movimento d’aria al suo fianco, accompagnato dal solito tintinnio di catene, la smossero quel tanto che bastò affinché si raddrizzasse sulla propria schiena.

Gli occhi tondi e di uno splendido azzurro illuminato di luce gialla le si puntarono addosso, implorandola di starla ad ascoltare, in quel momento più che mai.

“Dobbiamo scappare.”

Una volta Gaida le aveva buttato addosso dell’acqua fredda, svuotandole da dietro un’intero fiore concavo della Foresta Miosota sulla testa.

Quelle parole le fecero lo stesso effetto.

Battagliò ancora una volta con la propria gola, racimolando nel minor tempo possibile quanta forza le era rimasta per dar vita ad un’unica, essenziale, domanda:

“Come?”

Ci fu un lungo momento in cui Gaida tacque, forse pensandoci su, forse cercando anche lei la forza di dar suono alle parole, ma fu Tuba a alitare a fatica più sillabe di quanto lei stessa avrebbe potuto sperare.

“Non possiamo… andarcene via….insieme.” 

Era vero.

Le avevano legate e separate l’una dall’altra perché non potessero darsi manforte a vicenda.

Erano stati furbi i ‘demoni vestiti di bianco’.

Stando nella stessa gabbia sarebbe stato possibile che l’una sopperisse alle mancanze dell’altra, aprendosi la strada ed allontanarsi il più possibile da quel luogo infernale, ma in quelle condizioni…

Un singhiozzo le fece sobbalzare penosamente la gola.

Gaida e Tuba in tutta probabilità sarebbero riuscite a scappare.

Lei no.

Non aveva mai sviluppato alcuna abilità che potesse proteggerla da eventuali pericoli, essendo cresciuta coccolata e protetta dalle sue sorelle e da sua madre.

Mai come allora Dita si sentì più disperata nel comprendere di essere stata spogliata dell’unica difesa che aveva erroneamente dato sempre per scontata: la sua famiglia.

Non aveva avuto che quella e mai si era curata di crearsene una propria con il materiale grezzo della sua Essenza, così come avevano fatto Tuba e Gaida.

E adesso che era troppo tardi, si rendeva conto del proprio errore.

“Che cosa…ci faranno?” non si curò che la voce le uscisse roca e strozzata.

Seguì un altro momento di silenzio, mentre fuori dalla scatola buia iniziavano a sentirsi voci e mormorii fatti di parole indistinte. 

Dalla cima della loro prigione provennero dei suoni metallici e con uno scatto la dei piccoli squarci di luce perforarono l’oscurità. Delle finestrelle piccole e quadrate si erano aperte sopra le loro teste.

Dita poté scorgere finalmente il profilo ondulato dei capelli ricci e folti di Tuba, le sue lunghe gambe e braccia raggomitolate convulsamente al petto, certamente non per il freddo. I suoi occhi la perforarono, come ad intimarle di darle ascolto, almeno quella volta.

“Io resto…qui.”

“Tuba no.” era intervenuta affannosamente Gaida, ma le sue parole furono accolte con un gesto meccanico della testa, in senso di diniego.

“Posso… impedire loro…di arrivare…a me. Rimettermi in…forze…e scappare via…con Dita…più avanti.”

Spossata com’era, Dita ci mise un po’ a mettere insieme i pezzi di quella lunga e sofferta frase, ed appena lo fece sentì risalire un senso di acido senza pari lungo la gola.

Tuba non era mai stata tipo da sentimentalismi, questo lo sapeva bene. Non era tipo da coccolarla come invece erano più propense a fare la mamma e Gaida. Anzi, alle volte l’aveva addirittura allontanata, sbadigliato in faccia e zittita con proteste annoiate, intimandole di smetterla di farsi problemi inutili.

In quel preciso istante però Dita capì che sua sorella si stava rifiutando di lasciarla sola.

Sapeva anche lei, che tra tutte e tre, Dita non aveva speranze di scappare per conto proprio.

Non era veloce, non era forte, né astuta, né tantomeno agile.

Affondò i denti nelle labbra e il poco di acqua rimastale in corpo si riversò sulle sue guance.

“No…” vide Gaida al suo fianco scuotere la testa febbrilmente “Tuba… non me ne vado senza di voi.” sua sorella aveva fatto uno sforzo encomiabile per dare fiato a tutte quelle parole di seguito.

Oh, Dita avrebbe tanto sperato che la caparbietà di Gaida riuscisse a far cambiare idea a loro sorella.

Purtroppo tra le due, Tuba, oltre ad essere la più grande, era anche quella più autoritaria.

“Devi invece.”

Per quanto la voce volesse uscirle in tanti singhiozzi disperati, Dita non si concesse neanche un attimo di debolezza. Si sentiva così responsabile. Sarebbe stato tutto più semplice se lei non avesse fatto troppo affidamento su di loro.

Premette le mani strette a pugno sugli occhi, cercando invano di fermare il piccolo fiume di lacrime che le stava rigando il viso.

Alla sua sinistra, dove sicuramente si sarebbe aperta la porta di quella scatola metallica per far entrare i demoni, sentì rumori di congegni metallici sbloccati e mormorii misti a fruscii irrequieti.

Cominciò a convincersi che sarebbe andato tutto bene, che sua sorella Gaida sarebbe scappata, che Tuba avrebbe resistito quel tanto da permettere a loro sorella di venirle a riprenderle o escogitare un piano di fuga, ma più se lo ripeteva, più le veniva impossibile crederci. 

Andrà bene. Andrà bene. Andrà bene. Andrà bene. Andrà bene. Andrà bene. Andrà bene.

I cardini di una serratura cigolarono.

Dita ormai tremava come una foglia.

Non voleva più vedere quegli esseri orribili.

Andrà bene. Andrà bene.

Suoni di passi disordinati si fecero strada attorno a loro.

Soffocò un singhiozzo.

Che senso aveva avuto sopravvivere a quella strage? Vedere le loro zie, la loro mamma e i loro cugini svanire nel nulla, rifugiarsi sotto terra, solo per poi vedersi riapparire quei demoni neanche 2 anni più avanti?

Parole incomprensibili aleggiarono intorno a loro.

I demoni avevano iniziato a ruggire.

 

 

 

Passi frettolosi ed erratici risuonarono lungo un corridoio, respiri affannosi a scandirne il ritmo da dietro una tuta gialla integrale.

Poi una porta spalancata di getto. 

Master! Master!

Davanti all’oblò della tenuta asettica la forma sinuosa di una nuvola gassosa ondeggiò come infastidita al centro della grande sala controllo, per poi torcersi su se stessa, dando mostra di un paio di fessure illuminate da piccole iridi sanguine ed uno squarcio che davano l’impressione di essere un paio di occhi ed una bocca di natura pressoché demoniaca.

Dietro lo spesso vetro della tuta un volto però, sudato ed ansimante per la lunga corsa, si limitò a cercare di riprendere fiato e premersi il petto esalando un lungo e sofferto respiro di sollievo, piuttosto che indietreggiare spaventato da quella figura che, agli occhi di qualcuno non abituato come lo era lui, sarebbe parsa quella di un demone.

Tutti però in quella grande sala macchine… ma cosa diceva, nell’intero complesso specialistico di Punk Hazard sapevano bene quanto buon cuore ed altruismo si nascondessero dietro quell’aspetto inquietante. 

“Che c’è?”  Fu la risposta calma e carezzevole della forma evanescente.

Il nuovo arrivato fece suonare i tacchi, scattando prontamente sull’attenti nel rammentare la gravità della situazione:

“Master! Una delle nuove pazienti è fuggita!”

“COSA!!!???”

A quelle parole la stanza calò nell’immobilità per poi esplodere nel fermento. Master non era solito esplodere in quel modo, tant’era pacato e premuroso, ma quella situazione non era certamente da sottovalutare: si erano appena adoperati a trasportare le nuove pazienti in terapia intensiva, rinchiuse durante il viaggio in una cella di isolamento per salvaguardare la salute dell’equipaggio, come richiesto dal Master, quando in un momento di distrazione una di loro si erano dimenata e letteralmente lanciata fuori dall’imbarcazione, scomparendo tra la neve con dei rapidi salti.

Le altre due non avevano fatto segno di seguire il suo esempio, ma…c’era dell’altro.

“TROVATELA SUBITO! NON STATEVENE LI’ IMPALATI! RAZZA DI ZUCCONI!”

A nessuno la reazione eccessiva del maestro parve insolita, anzi, ai loro occhi quella forma demoniaca assunse un’aura quasi sacrale: la preoccupazione del loro padrone doveva essersi tanto concentrata su quella povera ragazza malata ed in balia del gelo da offuscare la sua mente e fargli perdere la sua risaputa gentilezza nei loro confronti.

Sì, doveva essere così!

La tuta simile a quella di un palombaro scattò sull’attenti.

“Non si preoccupi Master! Ci stiamo già adoperando per rintracciarla, però…ehrr…”

I fumi della figura sembrarono bloccarsi per un istante, come se avesse intuito che c’era dell’altro .

“Che altro c’è?”

Prima che potesse aggiungere altro, la nebbia parlante sembrò espandersi, poi amalgamarsi ed infine prendere nuova forma.

In poco tempo il loro Master, il loro salvatore, colui che gli aveva ridato nuova speranza, nuove gambe e nuova scatola cranica, si materializzò nel mezzo della stanza, fluttuante tra i fumi del suo stesso camice, lunghi capelli neri ed ispidi da cui si ergevano un paio di corna caprine ed un volto pallido, appesantito da tracce di pittura viola attorno occhi e labbra.

Ma non una traccia di sorriso sul quella maschera torta in espressione cupa.

“Che altro c’è?”

Il nuovo giunto deglutì da sotto la tuta. 

Non era sua intenzione portare cattivi rapporti a Master, ma non aveva altra opzione.

“Si.. si tratta di un’altra delle pazienti.”

La faccia degna di un attore kabuki del loro padrone si torse, se possibile, ancora di più. “Aah?”

“Non … Non riusciamo… fisicamente… a riaggiungerla.”

 

 

Alle volte a Dita spaventava la freddezza e la facilità con la quale Tuba usava la propria Essenza.

Un altro “demone bianco” cadde esanime ai piedi di sua sorella, schiacciato dal peso di un’altra sbarra di metallo che aveva “fortuitamente” ceduto nel momento giusto, crollando in avanti prima ancora che questi potesse anche solo metterle una mano addosso.

Da quel poco di luce che l’apertura della loro prigione forniva, Dita vide la schiena del mostro alzarsi ed abbassarsi ritmicamente.

Ancora vivo.

Gli era andata anche fin troppo bene.

Alle creature che, diversamente da lui, erano fornite di un solo inquietante occhio e che erano entrate per prime, sua sorella maggiore aveva riservato un trattamento più estremo, facendoli cincischiare nei propri piedi, scivolare, addirittura scontrarsi l’uno con l’altro fino a spaccare letteralmente loro la testa sulle numerose sbarre della gabbia.

Dita dubitava fortemente potessero essere ancora vivi e, per quanto non fosse da lei, poco le importava.

Finalmente dopo giorni di buio, quasi impenetrabile per lei che si era rifiutata di usare la propria Essenza per vedere nell’oscurità della loro cella, riusciva ad intravedere le condizioni delle sue sorelle.

Allo spiraglio di luce bianca proveniente dal mondo esterno Tuba sembrava più simile ad uno spettro rancoroso che una creatura elegante e sinuosa quale era stata tempo addietro tra le altre Paradisee.

I lunghi, folti e sottili capelli ricci di un bel colore dorato, di cui era sempre andata fiera, non avevano più nulla della chioma vaporosa di un tempo e puntavano in quel momento verso terra, appesantiti, sporchi ed inscuriti. Il suo volto, già naturalmente chiaro, era ingrigito da un pallore malato, accentuato da delle profonde occhiaie che scavavano sotto i suoi occhi verde smeraldo, unico particolare che non si era deteriorato durante il viaggio. Era persino più magra di quanto ricordasse. Tuba e Allegra erano sempre state le più esili tra tutte loro, ma in quel momento lo stato di sua sorella era a dir poco preoccupante. Le guance erano scarne ed era evidente come le sue dita, tese ce distanziate l’una dall’altra com’era sua abitudine fare quando settava le sue famose trappole, tremassero senza più forze.

Quando anche la sua gabbia fu aperta l’immagine degradata di sua sorella fu sostituita da una alta e bianca che le si parò davanti.

Dita si sentì gelare il sangue mentre metteva a fuoco un paio di calzature lucide e chiare ferme davanti a lei.

Era finita. L’avrebbe uccisa. Esattamente come quell’altro demone bianco aveva ucciso la sua mamma, anche lei sarebbe stata sciolta nel fuoco liquido.

Alzò istintivamente la testa, sentendo il corpo tremare ad ogni centimetro in più che muoveva.

Bianco il tessuto che ricopriva le gambe del demone, bianca la lunga giacca che indossava, chiaro il colletto che spuntava sotto di essa, ma il volto, che la scrutava da dietro un paio di lenti scure, era duro, impassibile e feroce come quello di un predatore di Nido Leila, addirittura annerito da peli ispidi e neri sul mento.

Non c’era simpatia per lei nei suoi atteggiamenti.

Era chiaro che per quella creatura il suo dolore e la sua fame non erano importanti.

Per questo li chiamavano demoni bianchi: anche se si vestivano di colori chiari, il loro cuore non conosceva pietà.

Una fitta allo stomaco la colse impreparata, dandole il colpo di grazia proprio mentre il demone si chinava verso di lei.

Si accorse poco prima di svenire di avere il volto rigato di lacrime.

 

 

“VERGO!!”

Il viceammiraglio era da poco uscito dalla cella d’isolamento metallica con in braccio la ragazzina svenutagli davanti agli occhi istanti prima, quando la voce insopportabilmente stridula e graffiante di Caesar Clown gli arrivò alle orecchie.

Non si voltò nemmeno a guardarlo, sapeva bene come doveva apparire quel pagliaccio con la passione per le provette: trafelato ed irritato mentre, nel mezzo di quell’eterna tormenta, si dirigeva verso di lui, volteggiando sulla passerella metallica che collegava la sua nave alle strutture dei laboratori, magari accompagnato da un manipolo dei suoi esperimenti.

La ragazzina che aveva portato fuori, pallida e lievemente smagrita dal lungo digiuno, non doveva avere più di 12 anni. Era stata sicuramente una bambina ben nutrita prima del viaggio verso l’isola di fiamme e ghiaccio, ma in quel momento sembrava semplicemente malata, un peso morto tra le sue braccia. 

La vide iniziare a tremare quando la sua pelle entrò contatto con l’aria fredda del mondo esterno. Doveva star sudando freddo.

Si stupì nel cogliersi nell’atto di volerle scostare, con gesto quasi paterno della mano, una ciocca di capelli mogano dal viso.

Si bloccò a metà e strinse i denti infastidito.

Non era la prima volta che vedeva dei bambini anche più piccoli finire nelle grinfie di Caesar, e non aveva mai avvertito il benché minimo rimorso.

Cosa avrebbe pensato Waka se avesse anche solo considerato l’eventualità che stesse cominciando a sviluppare dei sentimenti?

No. 

Ritrasse la mano e tornò a stringerla, forse con troppa forza.

Assolutamente.

Non era pietà quella che aveva provato per un breve istante. 

Era stato qualcosa di più simile alla … tenerezza.

Che stupidaggini.

“Che diamine sta succedendo!!??”

Si decise finalmente a fronteggiare il detentore del potere Gas Gas, che gli si era accostato senza però avere la minima premura di abbassare il tono di voce per il bene delle sue orecchie.

Al suono dell’odioso repertorio vocale di quel pagliaccio a pochi centimetri dai suoi timpani Vergo iniziò a perdere la pazienza, già irritato com’era dai propri pensieri e da quella situazione spinosa.

Una delle tre nuove cavie, che era riuscito a recuperare per puro miracolo dall’isola di Nido Leila, era appena fuggita via, scomparendo tra le steppe innevate di quell’inferno.

Un’altra ancora si era letteralmente barricata dentro la propria gabbia.

E come se non bastasse, si stava lentamente rendendo conto di quanto l’aria fredda, tagliente e fuligginosa di Punk Hazard,gli desse sui nervi.

Signor Vergo.” puntualizzò il pirata sotto le mentite spoglie di marine, scoccando un’occhiata gelida al sedicente “dottore”.

Ceasar si morse la lingua seccato ed intimidito: non era solito dare troppa importanza alle sciocche fissazioni di Vergo sugli onorifici ed il rispetto per la sua persona, ma non aveva intenzione di infastidire più del dovuto una cane sempre pronto ad azzannare.

“B-bando alle ciance, signor Vergo! Come mai non riuscite a portare fuori quella…!” indugiò un istante, pensando a come riferirsi a quella creatura senza insospettire le sue stesse cavie, in quel momento dietro di lui in attesa “…povera ragazza! Dobbiamo cominciare il trattamento il più presto possibile!”

Oh, il trattamento.

Al solo pensiero Caesar rischiava di perdersi in fantasticherie sognanti.

Quando aveva ricevuto la lumacofonata di Joker quasi non ci aveva creduto.

Tre Paradisee, vive ed ancora allo stato brado, in viaggio verso di lui, direttamente dalla loro isola natale.

Il regalo migliore che potesse ricevere!

Che Joker si fosse ricordato che a breve sarebbe stato il suo compleanno?

Tornò alla realtà, giusto per osservare con un tocco di ripugnanza il volto di Vergo.

Certo, sarebbe stato meglio se il suo regalo non fosse stato rintracciato e trasportato da quel pallone gonfiato, ma, d’altronde, non si poteva pretendere troppo.

Fu solo allora che si accorse di cosa il suddetto pallone gonfiato stesse tenendo tra le braccia.

“Ooooh!” esclamò deliziato, allargando la bocca in un sorriso così grande e compiaciuto da risultare inquietante “Ma allora una non è fuggita~ ❤!”

Si perse ad analizzare l’aspetto della sua nuova ‘paziente’: sembrava una bambina come tutte le altre, forse un poco cicciottella, pallida e con dei capelli rossiccio scuro arruffati e sporchi. Che strano, aveva sentito dire che le Paradisee erano coperte di fiamme, proprio come per Allegra, il Canarino Infernale.

Questa invece sembrava stranamente… umana.

Il volto cereo di Caesar si rabbuiò di colpo.

“Sei sicuro che sia una paradisea?” chiese diffidente, storcendo il naso. 

Non gli andava di scomodare macchinari dispendiosi di energie per nulla.

La fronte del marine si corrugò pericolosamente in segno di avvertimento e lui preferì ritrattare.

“Ok, ok. Ricevuto. Mi fido. Ma dove sono le altre?”

“Temo che ti dovrai accontentare di una sola, Clown.” fu la ribattuta laconica del viceammiraglio.

Il volto cereo di Caesar si rabbuiò di colpo.

“Non dire idiozie! Cominceremo immediatamente le ricerche di quella che è scappata!..” poi, ricordandosi di avere quei sempliciotti delle sue servili cavie ancora dietro, si affrettò ad aggiungere:

“E nel frattempo inizieremo il trattamento per questa piccolina~ ❤”

“Master! E come la mettiamo con l’altra?” intervenne una delle sue cavie, appena fuori dalla cella d’isolamento con fare intimorito.

“L’altra?”

“Quella ancora dentro la gabbia, Master! Non riusciamo ad avvicinarci a lei senza spaccarci la testa! Jerard e Onione sembrano non respirare più!”

“Oh.”

Caesar aveva sentito parlare dell’Essenza delle Paradisee dal dottor Vegapunk. A parte essere in grado di dare vita ai Frutti del Diavolo, quelle creature sembravano essere in grado di fare ben altro con l’energia messa a loro disposizione.

Nessuno sembrò notare il fatto che iniziò a scaccolarsi, assorto nelle proprie contemplazioni, con un mignolo di fronte a tutti, anche se Vergo stentò a trattenersi dal colpirlo con un pugno temprato di Haki.

Se questa paradisea sta facendo in modo di non lasciarsi avvicinare… - pensò lo scienziato con aria imbronciata - .. aspettare che esaurisca la propria Essenza sarebbe solo uno spreco oltre che una perdita di tempo. La sua razza è risaputamente testarda. Sarebbe persino in grado di lasciarsi morire

“Master?”

Non ho altra scelta… - sospirò tra sè ed iniziò a simulare un pianto disperato.

“Bwaaaaah!” esplose, coprendosi gli occhi con un braccio in un gesto affranto. “Quella povera, povera ragazza oramai è arrivata allo stadio finale della malattiaa!” asserì per poi cadere sulle proprie ginocchia “A questo punto qualsiasi approccio risulterebbe vano, nemmeno la più spessa delle tute antigas sarebbe in grado di bloccare le esalazioni venefiche che la sua pelle traspiraaa!”

Un sopracciglio di Vergo scattò verso l’alto, unico elemento indicatore del mare di cretinate che Caesar Clown stava sparando a raffica.

Eppure attorno a lui, i suoi inconsapevoli topi da esperimento si stavano guardando l’un l’altro, chiaramente turbati dalle sue (false) rivelazioni.

All’ombra delle proprie mani, Caesar lo avvertì e sorrise diabolico.

Se l’erano bevuta.

Mancava soltanto…

Con uno slancio teatrale si rimise in piedi, rivelando ai suoi sempliciotti un volto contorto dal dolore e dal rimorso.

“Oramai non c’è più niente da fareee!”

Se Vergo non avesse avuto le mani occupate si sarebbe coperto il viso dalla vergogna.

Quella sinfonia di singhiozzi era una palese messinscena.

Come faceva quel branco di idioti a non accorgersene?

Fu quasi grato di vedere lo scienziato tirare fuori dal nulla un fazzoletto e cominciare ad asciugarsi le (false) lacrime.

“Sob… se non fosse per quella orribile, orribile malattia, tenterei in ogni modo di salvarla, ma questo metterebbe ulteriormente in pericolo le vostre vite, miei adorati. La sola perdita Jerard e Cipollo…”

“Onione, Master.”

“…mi ha già spezzato il cuore!”

“Quindi cosa facciamo Master?” domandò un temerario, chiaramente commosso.

“Sigh…Chiudete le porte della cella d’isolamento e portate questa piccolina nella Biscuit Room, discuterò sul da farsi col signor Vergo. Voi iniziate a cercare l’altra ragazza, prima che anche per lei sia troppo tardi.”

Ne seguì un coro di strepiti e pianti colmi di ammirazione che fece venire al viceammiraglio un sentore di nausea non indifferente, ma, per sua fortuna, dopo che la bambina le fu sfilata via dalle braccia, durò quel tanto che bastò perché rientrassero tutti nella struttura dei laboratori.

Non appena rimasero soli, Vergo vide la maschera di gentilezza e bontà di Caesar crollare di botto, come prevedibile.

“Portala via e sbarazzati di lei.” ordinò, ricominciando ad infilarsi le dita nel naso con fare disinteressato.

“Sei sicuro? Joker ne rimarrà deluso…”

“Non mi è di alcuna utilità se non si fa portare nei laboratori. E se riesco a recuperare l’altra avrò cavie a sufficienza. Se vuole morire lasciala fare.” terminò con gesto spassionato della mano.

A Vergo non restò che annuire, condividendo appieno.

 

 

Agli occhi dei subordinati del dottor Caesar, Trafalgar Law era un salvatore, colui che aveva ridato loro la facoltà di camminare sulle proprie gambe, ma il più delle volte, quando lo incrociavano per i corridoi bui della struttura, appariva tutt’al più come un fantasma scuro ed inquieto.

Il fatto che Master gli avesse dato libero acceso ad ogni area della struttura, non dava loro eccessivo fastidio, anzi, vederlo ogni qualvolta aggirarsi dalle loro parti infondeva loro un inspiegabile senso di sicurezza, se si metteva da parte l’inquietante titolo di Chirurgo della Morte che accompagnava il pirata.

Per questo, quando un paio di uomini, con ancora addosso le proprie tute antigas, se lo videro apparire davanti, non rimasero più di tanto turbati, oramai abituati al suo aspetto naturalmente lugubre.

“Oh! Trafalgar-san!” lo salutò uno dei due, senza, come ovvio, ricevere alcun tipo di risposta o cenno.

Di certo Trafalgar Law non brillava per le sue doti di socializzazione.

“Farà parte anche lei della squadra per recuperare dalle terre ghiacciate una delle nuove pazienti?” intervenne subito l’altro non lasciandosi scoraggiare dal silenzio del chirurgo.

Nuove pazienti? - si stupì il pirata, corrucciandosi.

Non ne sapeva niente. E la cosa lo insospettì.

Caesar non mancava mai di pavoneggiarsi con lui dei propri, minuscoli, risultati, cercando sicuramente in lui una qualsiasi forma di riconoscimento per alimentare il proprio ego, già fin troppo smisurato.

Alle volte quel pazzo lo informava addirittura di quanti nuovi bambini sarebbero arrivati via mare e barricati insieme agli altri nella Biscuit Room.

Ma di questo non gli aveva fatto proprio parola.

Aggiustò con gesto secco la katana sulla propria spalla, ammutolendo per lo spavento i due che gli stavano innanzi.

Bene. 

“Il dottor Caesar ha detto qualcosa circa le loro condizioni?”

I due si guardarono a vicenda per mezzo dei propri oblò.

“Uuh…no…” 

Prevedibile. - commentò mentalmente il chirurgo.

“…ma sono arrivate in una cella d’isolamento, separate tra loro da delle gabbie.”

“Devono essere molto contagiose e violente.”

Addirittura delle gabbie. Quindi non sono dei semplici bambini.

“Una è entrata nel pieno della malattia troppo in fretta ed ha ucciso sul colpo Jerard e Onione.”

“Poveracci. Nemmeno le loro tute hanno resistito ai batteri di quella poverina.”

“E’ stato un miracolo che la più piccola sia rimasta illesa.”

“Se il signor Vergo non l’avesse portata via dalla cella, sarebbe sicuramente morta anche lei.”

Sebbene sarebbe stato interessante continuare ad ascoltare la conversazione di quei due, Trafalgar si era fermato al nome di Vergo.

Gli occhi del pirata si erano così allargati da ridurre le pupille a due puntini.

Vergo era coinvolto? Vergo era sbarcato a Punk Hazard? Quand’era successo? Come mai nessuno l’aveva informato?!

Le nocche tatuate si strinsero più forte sulla faretra della propria spada e le mascelle si serrarono.

Se anche Vergo si è scomodato a portare queste nuove “pazienti”, c’è di mezzo anche lui.

Non si preoccupò dei convenevoli quando, senza dire nulla, girò i tacchi con scatto quasi irritato ed iniziò ad allontanarsi a passi svelti da quelle due inconsapevoli marionette.

Che diavolo stava succedendo su quella dannata isola a sua insaputa?

Non appena fu sparito oltre l’angolo del corridoio, le due guardie si scambiarono uno sguardo stranito.

“Cavolo. Dev’essere davvero grave questa malattia se anche Trafalgar-san si è allarmato.”

“Dici che sia meglio lasciare che sia lui a ripescare quella poveraccia?”

“Direi di sì. Non voglio morire come Onione.”

“Avverto gli altri, allora.”

 

 

 

Non era passato molto da quando la sua nave aveva levato l’ancora, allontanandosi velocemente dall’inferno di fuoco e ghiaccio che era Punk Hazard, quando si decise a contattare Waka via lumacofono.

Come sempre l’attesa perché Waka rispondesse fu lunga, ma nulla di inaccettabile come suo solito, indice che anche lui era ansioso di notizie al riguardo.

Ore da.

“Ho consegnato il pacco a Caesar.” fu la sua immediata affermazione che, come prevedibile, fece sorridere di compiacimento la lumaca telefonica dagli strani occhiali a goccia.

“Ma una delle tre non si è lasciata avvicinare.”

La lumaca perse il proprio sorriso.

“Dove si trova?”

“Ancora nella cella d’isolamento. E’ riuscita ad uccidere un paio degli sgherri di Caesar…”

Seguì un lungo silenzio tra lui e lumaca, come se dall’altra parte del ricevitore Waka stesse attendendo qualche informazione in più.

E lui non voleva certamente deluderlo.

“…senza muovere un dito.”

Alle volte Vergo si chiedeva come potesse un invertebrato possedere così tanti denti.

“Interessante.”

“Che cosa ne devo fare?”

“Portala pure qui.”

Questa volta il falso marine si lasciò scappare un cenno di stupore, sicuramente trasmesso in tempo reale dall’altro capo della conversazione. 

Portarla da lui? Portarla da Waka? Direttamente da lui? Ma questo significava…!

“Sono curioso di sapere come siano da vicino,… queste Paradisee.”

   
 
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