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Autore: albelia    10/11/2015    0 recensioni
Un personaggio surreale che si muove in un mondo ancor più surreale; l'incontro con una locanda buia e polverosa abitata da persone strane e contorte; l'inizio di un viaggio che lo porterà in tempi e luoghi lontani...tutto nel ricordo di un antico amore perduto.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Io mi chiamo Neem" e non avrei saputo darle un nome migliore. davvero. non avrei proprio saputo darle un nome migliore.
ad uno ad uno, anche tutti gli altri si presentarono. erano tutti nomi mitologici. o latini. o greci. o egizi. antichi. ebbi la strana sensazione che fosse la prassi, una volta entrati lì, inventarsi un nome nuovo. tutte quelle persone mi sembrava facessero parte di un gruppo, di una setta, qualcosa.
"Elissa"
"Minea"
"Nerone"
"Socrate"
"Ramses"
"Niobe"
"Brutus"
"Murena"
mi soffermai a guardare ognuno di loro. non mi capitava mai. nessuno attirava mai la mia attenzione a tal punto. mi limitavo a sguardi sfuggenti e distratti. in fondo, erano tutti fatti uguale. due occhi, una bocca che si muoveva indesiderata anche troppe volte, due sopracciglia, un naso più o meno bello, due guance, un mento. non c'era assolutamente niente di bello, nel volto umano. nessuna grazia, nessuna eleganza. solo tratti sgraziati di un artista indecentemente poco dotato. con me, con me per primo, aveva combinato un disastro. tutto sproporzionato. ma insomma, amen. Amen. non mi era mai importato del mio aspetto, esattamente perché non era mai interessato a nessuno. ma quella sera, forse era l'atmosfera strana che aleggiava nella polvere lì intorno. li osservai. li osservai. nel corso della serata presero e persero tutti la parola. si rivolgevano sempre a me. era come essere l'ospite speciale. tutti volevano farmi sapere chi erano, da dove venivano, perché erano lì. ascoltai poco. non lo facevo apposta, ma ero proprio fatto così. poi mi venne in mente con vergogna che forse si erano sentiti presi in giro. "Aram", "Aramis". avevo copiato il nome della locanda. ecco lì. altro che colpo di genio, altro che, proprio niente. non ero nemmeno stato in grado di crearmi un nome dal nulla. a dire la verità, però, quel nome si intonava con tutti gli altri. mi era balenata l'idea di presentarmi come Mary. sicuramente non l'avrebbero trovato strano. ne avrebbero solo preso atto. ma ringraziai per non averlo fatto. avevo il dubbio che fosse un nome da donna. probabilmente lo avevo sempre saputo, ma non avevo mai voluto ammettere che mio padre aveva avuto ragione, a punirmi in quel modo.
Elissa era una donna alta e filiforme, quasi quanto Neem. forse era lei, la sua famiglia. forse erano madre e figlia. cercai in lei qualche tratto conosciuto, ma niente affiorò in superficie. aveva lunghi capelli di rame e le mani piccole. mi sembrò subito una persona silenziosa e riservata. non disse molto di sè, forse per timore di annoiare tutti coloro che già la conoscevano. si era persa un giorno tanti anni prima, nevicava e aveva smarrito la strada. aveva trovato l'Aramis, e non se n'era più andata. ecco. tutto qua. la trovai deliziosa, dico davvero. non sono molte, le persone che reputo 'deliziose'. per quanto questo aggettivo mi faccia rabbrividire. quel suo modo di guardarsi le mani mentre parlava, tutta quella timidezza fuori luogo. deliziosa, davvero. mi guardò molto poco. io, per contro, lei lanciai qualche occhiata per tutta la sera. sperando di farmi notare. ebbene, non mi notò.
Minea era un donnone alto e imponente. non era grassa, era solo imponente. probabilmente era più alta di me. avrei sempre cercato di starle alla larga, da quel momento. non potevo accettare che una donna fosse più alta di me. anche se, a essere sinceri, era la più alta di tutti. aveva un viso che sembrava scolpito nella pietra, era regale. i suoi capelli erano corti e castano chiari, gli occhi piccoli e azzurri, la bocca larga e i denti bianchi, gli zigomi alti, il naso schiacciato. benché i singoli elementi non fossero un granché belli, insieme erano armoniosi. perfino le rughe d'espressione, perfino il collo tozzo. dava l'idea di una donna altezzosa, ma in realtà si rivolse a me con gran cortesia. parlò di una figlia perduta tanti anni prima, di un padre vagabondo, una casa arrampicata in una collina battuta dal vento ogni giorno e ogni notte. l'avevano portata lì con l'inganno, ma non si dilungò in altre spiegazioni. non ebbi il coraggio di chiedere quale fosse stato, quest'inganno. se fosse stato quello, il motivo della perdita di sua figlia. se fosse stato quello. chi lo sa.
Nerone era poco più che un ragazzo. pensai che quel nome non gli si addiceva, non gli si addiceva affatto. avrebbe avuto bisogno di un nome corto e nervoso. esattamente come lui. altezza normale, corporatura normale, occhi verdi, capelli e baffi biondo sporco. era un notevole esemplare di essere umano, posso anche ammetterlo, ma non è mia natura sproloquiare a proposito di creature del mio stesso sesso. mi ispirano ancor meno curiosità delle donne brutte e inguardabili. di lui si notavano i tic nervosi, le mani che si torcevano, il piede che non la smetteva un attimo di grattare il pavimento. ammise che scriveva poesie che non leggeva mai nessuno, era arrivato sin lì per scrivere la sua grande opera prima, ma non aveva ancora combinato niente di buono. un po' come me. forse non eravamo così diversi.
Socrate emanava un'aurea di maestosa grandezza. al contrario di Nerone, il suo nome gli calzava a pennello. tremendamente scontato e banale. aveva una voce lenta e monocorde, una lunga barba bianca e un bastone da passeggio notevolmente istoriato. parlò di viaggi alla ricerca di sè stessi, di nuovi spazi geografici e mentali, lo ascoltai molto poco. avrei voluto saltare sulla sedia e implorarlo di tacere, che nessuno aveva richiesto una lezione universitaria a proposito di deliri metafisici.
Ramses era un tipo strano. di certo io non dovrei parlare, di certo proprio. mi disse subito che lui era un artista e che avrei letto di lui, presto o tardi. aveva i capelli infuocati e il volto cosparso di lentiggini. gli occhi scattavano rapidi da una parte all'altra della stanza, come a voler catturare ogni particolare di chi gli stava accanto. portava una sciarpa colorata e gesticolava un sacco. anche troppo. faceva venire il mal di mare. era lì per cogliere l'essenza di qualcosa che non ho capito. qualcosa da buttare alla rinfusa in un suo quadro e volare in America per far fortuna.
Niobe era poco più che una bambina. mi innamorai del suo nome. mi ricordava quello di una nuvola, di una Nube. Niobe. aveva due grandissimi occhi polari, due occhi freddi e grigi, le labbra sottili e una treccia di capelli nerissimi che spariva sotto il tavolo. aveva un sacco di strati addosso, che la facevano sembrare un pulcino appena nato soffocato da chili e chili di coperte. avrei voluto alzarmi e andare ad abbracciarla, dirle che lì era al sicuro. anche se, probabilmente, non c'era posto meno sicuro di quella dannatissima locanda. raccontò titubante di un fratello più grande partito per la guerra, di una famiglia distrutta, cose così. probabilmente questa era diventata la sua casa. da chissà quanto tempo. che posto triste in cui vivere, in cui crescere. mi augurai per lei che le rimasse almeno qualche ricordo, di questa sua adolescenza. i miei, di ricordi, erano stati soffiati via al primo sbarluffo di vento.
e poi, chi altro.
Brutus. capii subito che avrei dovuto girargli al largo. me lo aveva già anticipato il suo nome. era alto e massiccio, non saprei dire se grasso o meno. definiamolo massiccio. il suo volto era duro e imperscrutabile. non propriamente bello. non particolarmente brutto. immaginai che avesse avuto decine e decine di donne, per quel suo aspetto da assassino. immaginai anche che dovesse avere un sacco di amici importanti, e un sacco di nemici striscianti. nel dubbio, avrei cercato di relazionarmi a lui il meno possibile. non volevo guai, non volevo niente di niente. fui contento di non sentire nessuna storia, da lui. meglio così. meno sapevo, meglio sarei stato.
e infine.
infine Murena. stimai che avesse all'incirca la mia età. o forse, tra i trenta e i quaranta. chi può dirlo. aveva un volto affilato, i capelli ricci e spettinati, un seno ingombrante quasi quanto quello di Rossana. non mi fece una bella impressione. benchè i suoi occhi fossero due pozze viola scuro, non aveva niente di attraente. poteva piacere come no, mettiamola così. a me non piaceva affatto. giudicai che non ci fosse niente di cui fidarsi in lei. un'impressione pessima, davvero. quasi quanto Brutus. anche lei fu molto scarna di dettagli. un marinaio scappato lontano, un figlio che non aveva mai avuto, eccetera eccetera.
poi, finito quell'interminabile elenco di volti più o meno indelebili e storie cancellabili, tutti si voltarono verso di me. era il mio turno. il turno di Aram, lo straniero. come fare, come fare a dire loro che non avevo nessuna storia da raccontare. qualche ricordo infranto di quando ero bambino, sì, qualche avventura sconsiderata da ragazzo, qualche viaggio poco lontano da adulto. ma poi? poi che altro? cercai di rassicurarmi. nessuno aveva tirato fuori delle storie avvincenti. erano tutte persone noiose, in realtà. non avrei dovuto preoccuparmi. anche se. anche se ero appena arrivato, ero 'quello nuovo', e volevo disperatamente fare colpo su di loro. specialmente su Elissa. volevo che pensassero cose belle di me. chissà, chissà cosa avevano pensato quando mi avevano visto per la prima volta. sicuramente che ero magro e sporco. forse qualcuno mi aveva già visto sotto il ponte. forse Brutus mi sarebbe venuto a picchiare nel cuore della notte. alla fine mi risolsi. borbottai qualcosa su viaggi interminabili in giro per il mondo sconosciuto, fiumi di persone incrociate per una notte o un tramonto, poi mi spensi nel buio, come un cerino alla fine della cena. mi domandai cosa si facesse, tutto il giorno lì. era come una casa di riposo. mangiai in silenzio per il resto della serata, ascoltando con un orecchio solo i loro discorsi campati per aria. forse mi sarebbero anche interessati. non dico. dipingevano con parole poetiche tutte le albe di cui erano stati spettatori, tutti i libri letti, le poesie ricordate a memoria, il volto gentile dei genitori, le forme antiche delle nuvole. mi sembravano tutte persone a posto, a posto. normali. con interessi normali, vite normali. mi chiesi perché si fossero chiusi in quella prigione, mi chiesi perchè Neem il fantasma non avesse ancora mandato all'aria tutte le ipocrisie e non avesse ancora messo le sbarre alle finestre, com'era giusto che fosse. insomma, me ne pensavo agli affari miei, o forse non pensavo affatto, quando venni agguantato per i piedi e ritrascinato per terra.
   
 
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