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Autore: Elphie94    14/11/2015    0 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IL RACCONTO DI MEG

[Atto I.]


i.

l'ombra del fantasma




La mia non è una storia per i deboli di cuore. Lo so perché l'ho provato sulla mia pelle, e ha lasciato cicatrici indelebili. È la storia di una ragazza che sognava di danzare per tutta la vita, in bilico tra il presente e un passato che non riusciva a dimenticare; di una giovane soprano che non chiedeva altro che ritornare ad amare la musica, e dell'angelo che avverò il suo desiderio. È, soprattutto, la storia di un'eroina, una storia sull'amore, sulla redenzione e sui mostri che vivono dentro di noi – gli unici che esistano e che dobbiamo temere davvero.

No, l'eroina non sono io. Ho conosciuto donne che hanno valicato il confine tra il sacrificio umano e divino, tra il coraggio del semplice e quello del santo, tra l'intelligenza del cuore e del calcolo. Io non sono mai stata tra queste. Fui, per tutta la vita, preda di situazioni che non riuscivo a controllare, e che eppure mi sforzai di vincere in ogni modo.

Ero solo una piccola ballerina – anonima, troppo sfacciata per non cacciarsi nei guai un giorno sì e uno no, troppo solitaria per attirarsi le simpatie della gente “importante”. Fui sempre e soltanto un'osservatrice attenta, e combattei solo per me stessa. Vinsi i miei demoni, mi chiedete? Questo è qualcosa che dovrete scoprire da voi, Monsieur Leroux, se riuscirete a restare sveglio durante questo viaggio.

Ci tengo ad aggiungere che questa è anche la storia di un uomo. Un uomo che, come voi avete detto, non assomigliava a nessun altro. Se volete sapere qualcosa sui mostri a cui ho accennato prima, e che dimorano nelle nostre menti, ascoltate il racconto della sua vita.

Ora, immaginate: un edificio di marmo e granito, una cupola maestosa, una facciata sorretta da spesse colonne di un bianco accecante, fregi scolpiti ad arte che ricordano quelli degli antichi templi ellenici; su tutto vegliano le statue di creature alate, musica fusa nell'oro, per ricordare a coloro che entrano a quale dea sia dedicato quel grandioso monumento. Immaginate una giovane che può chiamare quel palazzo “casa” – quell'effige del nuovo impero, miscela di classicismo e del più sfarzoso e moderno barocco.

Sì, quella era la mia casa, e una parte fondamentale della storia ha luogo proprio lì, all'Opera Garnier, punto focale dove si intrecciano l'uno all'altro, in una trama fittissima, i fili che tessono le vite dei numerosi personaggi di questa storia.

Mia madre ed io vivevamo in quel teatro da più di sei anni. I nostri modesti appartamenti erano ricavati da stanze un tempo adibite ai camerini degli artisti, e non poteva esserci dimora migliore per noi. Fin dalla prima infanzia, avevo respirato l'arte negli arabesque di mia madre e nelle sonate per pianoforte di mio padre; il destino, se poi esiste davvero, aveva voluto chiamare anche me su quella via, e io avevo seguito la mia vocazione con tutta la determinazione di una bambina viziata e cocciuta come ce ne sono tante. Viziata perché figlia unica, e abituata ad avere tutto; cocciuta perché non sapevo accettare quasi mai un “no” come risposta. Ma gli occhi mi brillavano mentre apprendevo, a quattro anni, i miei primi passi di danza e indossavo le nuovissime scarpette da ballo. Molto presto cominciai a prendere lezioni. Non ricordo un tempo in cui la danza non abbia fatto parte della mia vita, o meglio, non l'abbia resa completa, in qualche modo dandole valore ai miei occhi. Esiste da sempre per me, come la musica. Entrambe sono state le mie amiche più fedeli, le uniche che, in un modo o nell'altro, non mi abbiano mai abbandonata.

La storia inizia proprio in quel teatro, e grazie alla musica. In particolare, una mattina di circa trent'anni fa…



«Signorine, più diritte con quelle gambe. Jammes, sollevala ancora di più. Ecco, perfetto. Giry! Che cosa stai facendo?»

Mi voltai per affrontare l'ennesimo rimprovero di mia madre. Le rivolsi un sorrisetto colpevole.

«Nulla, Madame. Non ero concentrata. Non accadrà più.»

Durante le lezioni e le prove dei balletti, ero sempre attenta a non rivolgermi a lei con nominativi più familiari.

Mi rivolse uno sguardo severo. «Sarà meglio, perché vi voglio perfette per la serata di gala. Forza, abbiamo già provato Polyeucte. Date il massimo, e ricordate di tenere quelle caviglie il più dritte possibile. Sincronizzate. Un, deux, trois

L'orchestra ricominciò a suonare da dove si era interrotta. Io mi unii alle altre e ripetei per quella che sembrava la centesima volta la coreografia del balletto in cui dovevamo esibirci al gala dato in onore dei direttori dimissionari. Avevamo tutte i piedi doloranti, ma non importava: la danza faceva dimenticare questo e altro. Inoltre, per raggiungere il livello di eccellenza a cui aspiravamo mia madre e noi tutte, questo era il minimo. La vita di una ballerina è fatta di unghie dei piedi insanguinate, calli e dolori che col tempo diventano sordi e vuoti, come una musica dimenticata, eppure sempre presente nel fondo della mente. E, soprattutto, è fatta di voli a metà – l'illusione di avere le ali a mezzo metro da terra.

Quel giorno in particolare mi ero distratta al passaggio di alcuni membri del coro e della compagnia di cantanti, tra cui la sostituta prima donna: Christine Daaé. Vedendola stranamente pallida dopo le prove, le avevo fatto un cenno col capo per indicarle la mia (speravo rassicurante) presenza. Udendo Monsieur Reyer, il direttore d'orchestra, parlare col maestro di canto Gabriel dello sfortunato raffreddore della Carlotta, la nostra diva, che per questo impedimento aveva dovuto rifiutare l'invito di esibirsi al gala, avevo finto un improvviso conato di vomito. Christine, con la quale avevo intavolato una conversazione muta e che aveva origliato il discorso tra Reyer e Gabriel, comprese a chi erano dirette le mie smorfie e scosse la testa con aria di rimprovero. Tuttavia, la vidi nascondere il viso nel libretto degli spartiti nel tentativo di soffocare una risata.

La mia poca simpatia per la Carlotta era ben nota: non si trattava di qualcosa di personale, non le avevo mai parlato direttamente – era troppo altezzosa per rivolgere la parola a una corifea. In realtà era semplice: non mi piaceva il modo in cui ci guardava tutti, come fossimo a uno stadio inferiore dell'evoluzione rispetto a lei, e quindi per natura sottomessi ai suoi voleri. Che erano tanti e volubili, aggiungerei. Inoltre, sebbene la sua voce fosse celebre per l'intonazione perfetta e il timbro di coloratura potente, avevo l'impressione che cantasse con la stessa personalità di una bambola di pezza. Le sue doti canore erano invidiabili, ma non mi suscitava neanche lontanamente le emozioni della Krauss, che avevo spesso sentito esibirsi dal vivo. O forse ero io ad avere la capacità emozionale di un sasso, come una volta mi aveva rimproverato mia madre quando le avevo espresso la mia vera opinione sulla Carlotta e la sua “straordinaria” arte. Sapevo che, in segreto, condivideva il mio aspro giudizio, ma probabilmente non voleva che si sapesse che una ballerina di fila – nello specifico, sua figlia – andava in giro a parlar male della diva di casa, per salvarmi dai suoi artigli non poco affilati.

In realtà, solo con Christine palesavo la mia antipatia per la soprano spagnola.

«Ha una voce perfetta» mi diceva Christine con fare accomodante.

«E un ego ancora più grosso del suo cervello» commentavo io. Lei sorrideva e dava in un sospiro talmente lieve che non l'avrei notato se non l'avessi conosciuta così bene. Chissà cosa pensava in quel momento: se invidiava la teatralità della Carlotta, dote che a lei, con la sua riservatezza, rendeva difficile “padroneggiare” il palco, farlo suo e diventarne regina. Quell'insicurezza mi dava ai nervi: Christine aveva una voce purissima, ma davanti a un pubblico non riusciva a dare il meglio di sé. Era un bel quadro concluso solo a metà. Una vista graziosa, ma davanti alla quale si passava avanti fin troppo facilmente.

«Non capisco quel che intendi» diceva lei, anche se secondo me capiva eccome.

«Mi sembri ferma. Qualcosa ti paralizza.» Le parlavo con schiettezza, come era mia abitudine. Non m'importava di offenderla in qualche modo: il mio scopo era che raggiungesse il massimo delle sue capacità, e sapevo che ne era in grado. Lei, che eppure non prendeva le critiche troppo sul personale, si rabbuiava. Non sembrava affatto d'accordo con la sottoscritta.

«Questo è il meglio che posso dare» dichiarava con fermezza, e la conversazione terminava lì. Ma si sbagliava. Ne ebbi prova qualche giorno prima delle prove del gala, quando Reyer, Gabriel e l'amministratore Mercier si consultarono disperati perché la Carlotta aveva il raffreddore. E addio esibizione d'eccellenza alla serata di gala!

«Non immagino che perdita sia per lo spettacolo» bisbigliai nell'orecchio di Christine, che trattenne a forza un sorriso e alzò gli occhi al soffitto, esasperata e insieme divertita. Eravamo vicine, mischiate ad altri membri del corps de ballet e del coro, attente alla discussione tra i tre uomini. Ilaria Sorelli, la prima ballerina, aveva appena terminato di parlare con loro e mia madre della sua performance – si sarebbe esibita in un aggraziato pas de deux – quando l'amministratore Mercier si era fatto largo tra la turba di coristi e allieve ballerine, raggiungendo Reyer e Gabriel e informandoli del raffreddore della Carlotta. C'era dunque bisogno di una sostituta.

In realtà, dubitavo si trattasse di un semplice mal di gola. La Carlotta era molto orgogliosa, e un incidente avvenuto circa una settimana prima, durante una prova del Faust, l'aveva ferita troppo nel profondo. Quel giorno eravamo riuniti nell'auditorium quando avevano fatto il loro ingresso i direttori Debienne e Poligny, insieme ad altri due uomini che avevo scorto qualche volta nei corridoi del teatro. Non avevo idea di chi fossero.

Cercai di non lasciarmi distrarre dai cenni che i direttori facevano ai loro accompagnatori. Erano diretti a noi ballerine, impegnate ad esibirci in un breve balletto d'intermezzo, mentre i cantanti della compagnia si riposavano insieme al coro e all'orchestra. Fu forse una mia impressione, ma quando uno dei due sconosciuti fece segno a Debienne, questi rispose: « … la figlia di Madame Giry. Un talento promettente.»

Poco abituata com'ero a sentirmi rivolgere dei complimenti – non si facevano sconti nel mondo del balletto – per poco non andai fuori tempo, guadagnandomi una rimbrottata da mia madre. Nascosi un sorriso soddisfatto sotto i baffi.

Mentre l'esercizio andava avanti, il quartetto continuò a discorrere amabilmente, accennando ad altri talenti nel corpo di ballo e tra i cantanti. Fu allora che il maestro Reyer fece segno all'orchestra di fermarsi.

«Scusate, signori, ma ci sono delle prove in corso.»

A quanto pare, non ero stata la sola a distrarsi all'arrivo dei direttori e degli altri due gentiluomini. Dall'espressione di mia madre, era evidente che condivideva il disappunto di Reyer.

«Monsieur Reyer, mi dispiace interrompervi.» Poligny si affrettò a scusarsi, salendo sul palco per farsi notare da tutta la compagnia. Era un ometto basso e mingherlino, dall'aria nervosa. In quei giorni, per un motivo a noi ignoto, appariva se possibile ancora più teso. Debienne era di tutt'altra pasta: un uomo corpulento quanto l'altro era esile, con un collo taurino e un grosso paio di baffi. Le sue gote erano due mele rosse, ma quel giorno la sua faccia appariva più che altro simile a un pompelmo rosa.

«Monsieur Reyer, Monsieur Gabriel, Madame Giry.» Debienne rivolse un cenno di cortesia ad ognuno di loro. «Monsieur Poligny ed io volevamo fare un annuncio. Ci duole confessare che le voci sono vere: presto lasceremo la direzione dell'Opera.» Un mormorio si diffuse tra la compagnia. In effetti, erano settimane che si bisbigliava dell'imminente ritiro dei direttori.

«Ma siamo lieti di annunciare» riprese Poligny, sforzandosi di far sentire la propria voce debole oltre i sussurri del coro e del corpo di ballo insieme, «che due gentiluomini capaci prenderanno il nostro posto. Di certo i loro volti vi sono noti. Vi presento Monsieur Armand Moncharmin e Monsieur Firmin Richard.»

I due uomini che li avevano accompagnati fin lì sul palco s'inchinarono quando Poligny li presentò alla compagnia, che per tutta risposta scoppiò in un applauso breve ed educato.

«Sono sempre due vecchi» sentii borbottare la fin troppo allegra Tholomyés alla piccola Cécile Jammes, che condivideva la sua delusione. Si mormorava infatti che l'aitante conte Philippe de Chagny stesse per divenire mecenate dell'Opera. Di certo un uomo diverso dai due che ci erano appena stati presentati come i futuri nuovi direttori.

Armand Moncharmin era alto e dinoccolato, e assomigliava a un manico di scopa con sottili baffi alla francese. A differenza di una scopa, però, aveva un sorriso più amichevole. Firmin Richard era un nome noto alla comunità musicale parigina: critico, compositore e musicista discreto, era appassionato d'opera quanto probabilmente il suo compagno Moncharmin, che aveva più l'aria di un imprenditore, ne ignorava l'arte. Era un uomo ancora più alto del suo collega, e decisamente più mastodontico, con pochi capelli di un vago rossastro attorno alla lucida pelata. Se Moncharmin aveva l'aria di un intellettualoide, Richard aveva l'aspetto di un macellaio con abiti da borghese d'alta classe. Devo ammettere che la cosa mi risultò alquanto indifferente: non m'importava dell'avvenenza o meno dei nostri direttori, purché fossero efficienti nel loro lavoro. Lasciai tutta la delusione alle ragazzine, che si aspettavano l'affascinante conte. Sapevo che Richard era un critico acclamato e speravo che s'intendesse di musica più dei suoi predecessori, che si lasciavano più che altro consigliare da Reyer e mia madre.

Debienne e Poligny si affrettarono a presentare ai futuri direttori i membri più illustri della compagnia.

«Monsieur Reyer è il nostro direttore d'orchestra.» Il “nonno”, come lo chiamavano le più piccole tra le allieve ballerine, per la sua abitudine di distribuire loro caramelle ogni volta che ne incrociava un gruppetto nei corridoi – sembrava che nelle tasche nascondesse un'infinita miniera di dolciumi. Indirizzò a Moncharmin e Richard un breve cenno.

«Madame Giry è invece la nostra ottima istruttrice di danza.» Mia madre rivolse loro un inchino severo ma cortese, che i due uomini ricambiarono. Alta e snella, aveva lineamenti marcati che, con quelle folte sopracciglia scure e i capelli neri stretti in una crocchia austera – che io avevo ereditato – la facevano assomigliare a un corvo. Ma era un corvo aggraziato ed elegante, con la stessa forza di un'aquila reale. La sua pelle era pallida porcellana, raggrinzita solo nelle poche rughe che le solcavano il viso. Io invece avevo ereditato la statura piccola e l'incarnato bruno di mio padre, d'ascendenza africana. E se il suo naso era lungo e leggermente adunco, e le donava un'aria di fermezza e volontà, il mio era schiacciato e, nel complesso, poco attraente. Da giovane non era stata una bellezza, proprio come me; ma a differenza della sottoscritta, possedeva un fascino che aveva incantato lo spirito di non pochi giovanotti, tra cui mio padre, che se n'era innamorato a prima vista. Si erano conosciuti all'Opera Le Péletier, prima dell'incendio che l'aveva distrutta. Mia madre vi lavorava come ballerina, mio padre faceva parte dell'orchestra in qualità di giovane pianista. A dire di quest'ultimo, Antoinette Giry era la più meravigliosa creatura su cui avesse mai posato gli occhi – anche se non era vero. Era sempre stato molto innamorato di lei. Forse era per questo che…

Mi riscossi da quei pensieri – non era proprio il momento per sciocchezze del genere – e mi concentrai nuovamente sulla scena di fronte a me. La Sorelli era appena stata presentata a Moncharmin e Richard, e adesso toccava all'attuale diva dell'Opera e al suo collega – si sussurrava anche amante – il tenore Ubaldo Piangi. Fu poi il turno del celebre baritono–basso Carolus Fonta, che interpretava il ruolo di Mefistofele nella nuova produzione del Faust.

Moncharmin, che s'era detto ammiratore dalla Carlotta, le chiese di esibirsi per lui e il collega in un'aria assai famosa, l'air des bijoux cantata dal personaggio di Marguerite nel terzo atto.

«Come i miei direttori comandano» acconsentì la Carlotta, simile a un felino soddisfatto delle carezze del padrone. Ma con lei non si sapeva bene chi fosse il datore di lavoro e chi l'impiegato.

«Maestro» si rivolse a Reyer.

«Come la mia diva comanda» rispose quest'ultimo, in realtà molto più accondiscendente della prima donna, e fece segno all'orchestra di iniziare a suonare. Mentre le prime note si diffondevano nell'aria, invisibili ricami di suono che andavano a sfiorare ciò che giaceva sotto la pelle, io mi allungai sul pavimento e tesi il più possibile la gamba destra, fino allo spasimo. Era un dolore che non sentivo più, tanto quell'esercizio mi era entrato nel sangue. Avevo trascorso anni e anni a tendere le gambe fino a vedere i nervi pulsare sotto la carne.

La voce della Carlotta mi inondò i timpani. La guardai di traverso: ammirabile intonazione, ma… non c'era nulla da fare. Sul palco restava Carlotta, non diventava Marguerite. E la protagonista del Faust non era lei.

I direttori tuttavia sembravano alquanto soddisfatti. Assomigliava più a una Carmen, in effetti, la cui personalità forse sentiva più affine alla propria. Non aveva nulla del riserbo di Marguerite; la giovanile scoperta di sentirsi bella non aveva lo stesso effetto sul pubblico, dunque, che se fosse stata una vera attrice a impersonarla. Questa Marguerite sembrava una donna di mondo, non una provinciale tutta casa e chiesa.


S'il me voyait ainsi!

Comme une demoiselle

Il me trouverait belle!


Fu proprio durante questi versi che accadde qualcosa d'inaspettato. Si udì uno schiocco e infine un grosso urto, come di una fune spezzata e qualcosa che cadeva. La Carlotta ebbe appena il tempo di emettere un urlo strozzato che uno degli imponenti fondali di scena le crollò addosso, sotterrandola sotto un mare di cartapesta. Tutti gli altri si erano allontanati appena in tempo prima di essere travolti. Carlotta doveva la fortuna di essere l'unica vittima di quell'incidente al fatto che, quando cantava, preferiva occupare da sola il centro della scena. Noi altri che eravamo sul palco sobbalzammo ai lati. Alcune delle piccole allieve ballerine gridarono per lo sgomento e la paura. Svanito l'effetto sorpresa, risvegliati dai gemiti soffocati della diva sotterrata, tutti si gettarono in avanti e corsero a toglierle di dosso quel peso considerevole. Il caos serpeggiò per tutto l'auditorium, mentre le ballerine, in particolare le più piccole, rabbrividivano e saltellavano di qua e di là come tanti cagnetti idrofobi.

«É stato lui! Il fantasma dell'Opera!» si sussurravano tra loro tutte eccitate.

Alzai gli occhi allo splendido soffitto a cupola: che idiozia. Erano anni che circolavano voci su quel dannato spettro che recava solo confusione e noia nel teatro che aveva eretto a sua dimora. Se avveniva un qualsiasi incidente più o meno grave, nessuno dei più superstiziosi aveva dubbi: era stato il fantasma.

«Strano modo di trattare degli ospiti in casa sua. Se è il suo teatro, perché ci tiene a boicottarlo?» era stato il mio commento sarcastico una volta che la piccola Jammes mi aveva riempito la testa di stupidaggini sul fantasma di un musicista condotto al suicidio per amore – o di un vecchio macchinista a cui si era spezzato il collo in una rovinosa caduta da una passerella nel sovrappalco; o addirittura uno degli operai che aveva lavorato alla costruzione dell'Opera Garnier e che era morto quando un masso di marmo gli aveva ridotto il cranio in poltiglia sull'asfalto dove un giorno sarebbe sorto il teatro. Nessuno lo sapeva con certezza. Avevo cercato di tranquillizzare la ragazzina, dicendole che erano tutte sciocchezze. Non riuscii nell'obiettivo.

Nutrivo il sospetto che le ragazze provassero una sorta di strana eccitazione ogni volta che si parlava del fantasma, e per questo volevano crederci – dipendenza dal brivido che si chiama adrenalina. Ci volle il sordo tonfo del bastone di mia madre, che picchiò violentemente contro il pavimento – suo gesto abituale che rassomigliava al silenzioso march di un generale in battaglia – per calmarle. Passò sulle ragazze uno sguardo severo, come a dire: “Signorine, un po' di contegno.”

Io, che mi ero limitata a balzare in piedi e a spostarmi all'indietro per evitare che il fondale, crollando, colpisse pure me, ritornai a concentrarmi sulla penosa scenetta che si svolgeva davanti ai miei occhi. Ubaldo Piangi aveva tirato su la Carlotta, oscillando anche lui nello sforzo: pesante com'era, sembrava una balenottera intenta a tirare su un albero di Natale – la Carlotta era così agghindata da ricordarne uno per davvero. In quel momento era furibonda: il viso avvampato dalla furia e probabilmente dallo spavento, tutte quelle attenzioni non produssero altro effetto che farla innervosire ancora di più. Fece segno a tutti, eccetto che a Piangi, di allontanarsi per farla respirare.

«Mia cara, state bene?» le chiedeva ininterrottamente il suo collega e amante, non capendo che in quel momento la cantante non era in grado di parlare. Dall'espressione sulla sua faccia e le chiazze rossastre sui suoi zigomi affilati, non mi sarei stupita se avesse fumato anche dalle orecchie.

I nuovi direttori si erano presi un bello spavento, ma si erano rasserenati quando avevano potuto constatare che la loro prima donna stava bene. Debienne e Poligny, invece, erano lividi: il primo sembrava sul punto di tirarsi via i baffi a manciate dall'esasperazione; l'altro aveva l'aria di qualcuno che sta per venire meno da un momento all'altro. Se possibile, divennero ancora più terrei in volto quando udirono lo starnazzare delle ragazzine. Debienne riservò loro un'occhiata fulminante, il che era strano: di solito era oltremodo cortese con le ballerine, anche quelle più anonime o giovani. Io, che ero una semplice corifea, rimanevo una delle più grandi del corps de ballet e in questo senso avevo un certo ascendente sulle più piccole, o perlomeno su alcune di loro. Parlo, ovviamente, delle allieve ballerine, che andavano da un'età compresa tra i dieci e i quindici anni. I miei ammonimenti al silenzio e quelli delle altre ballerine più grandi non bastarono: ci vollero la Sorelli e infine mia madre col suo bastone da soldato a farle tacere.

«Buquet!» gridò Debienne con l'aria di uno che avrebbe volentieri torto il collo al povero macchinista. Questi – un uomo di mezza età dall'aria semplice e a modo – scese spaventato dal suo posto sul sovrappalco. Era lui il principale responsabile della macchina che faceva ruotare il teatro: le scenografie dipendevano da lui e i suoi sottoposti. Gli altri macchinisti gli fecero spazio per farlo passare. L'uomo si presentò al cospetto dei direttori con aria incolpevole.

«Buquet! Spiegate quest'incidente.»

«Non sono stato io, Messieurs» spergiurò Buquet con voce atona. «Io non ero neanche al mio posto, i miei colleghi possono provarlo.»

«Ma davvero?» rimbrottò Debienne, tagliente.

«Buquet, siete un uomo di parola. Sapete spiegare cos'è successo?» chiese Poligny, massaggiandosi le tempie come se gli stesse per scoppiare il cervello.

«Vi giuro che non ne ho idea. Deve essersi allentata una fune. Qualcuno non deve aver stretto bene il nodo.» Scambiò un'occhiata con gli altri macchinisti. Debienne folgorò alcuni dei più giovani con un'occhiataccia che li fece trasalire. In fondo, era il loro datore di lavoro. Poligny appariva più diplomatico.

«E voi dov'eravate, Buquet?»

Questi si torse le mani callose. «Stavo controllando gli scenari del prossimo atto, Monsieur. Non ero al mio posto.» Poi aggiunse, calando lo sguardo e con tono improvvisamente torbido: «Se c'era qualcuno, allora doveva essere un fantasma.»

A queste parole, una nuova corrente di pigolii attraversò come un'onda anomala il gruppo delle ragazzine. La Sorelli – che tutte seguivano come un gregge col suo pastore – fece loro cenno di calmarsi, prima che mia madre fosse costretta a usare di nuovo il bastone.

«Dio del cielo!» fece Richard roteando gli occhi. «Siete tutti ossessionati.»

Mia madre gli indirizzò uno sguardo severo che tuttavia l'imprudente futuro direttore non poté notare, poiché era voltato di spalle.

Quel comportamento bizzarro non mi sfuggì. Me lo annotai nella mente, come riferimento per il futuro.

Alzai gli occhi verso la passerella da cui era crollato il fondale. In effetti non c'era nessuno – almeno non adesso. Aguzzando la vista, vidi un lampo nero agitarsi nel buio… Ma forse era solo uno scherzo della mia lievissima miopia. O magari Figaro, il gatto dell'Opera.

Accigliata, tornai ad osservare la scena. I signori dimissionari avevano congedato Buquet e gli altri macchinisti, tra cui scorsi un viso familiare. Luc mi vide e mi fece l'occhiolino prima di andarsene. Io cacciai la lingua in una smorfia d'infantile alterigia. Lui rise e scosse il capo, e io feci lo stesso vedendolo affrettarsi alle calcagna dei suoi colleghi più anziani.

«Signora! State bene?» Poligny sembrava essersi finalmente accorto che la Carlotta era ancora viva e vegeta. Anche Moncharmin e Richard, che per tutto il tempo si erano limitati a scambiarsi occhiate perplesse per via di quel trambusto di cui non comprendevano la ragione – in fondo era stato solo un incidente, e nessuno s'era fatto male – si avvicinarono per informarsi sulla salute della cantante. In ogni caso, non era il suo stato fisico ad essere preoccupante.

«Signora, sono cose che capitano» disse Moncharmin con fare conciliante, vedendo che era ancora rossa di rabbia.

Fu la cosa più sbagliata da dire in quel momento. Se possibile, lo sguardo della Carlotta si fece ancora più furente. Sembrava sul punto di staccare la testa al gentiluomo sprovveduto, che infatti indietreggiò d'istinto.

«Cose che…» iniziò la prima donna, per poi fermarsi subito, quasi le mancasse il fiato. «Cose che capitano…?» Squadrò i due futuri direttori dall'alto in basso, riversando su di loro tutto il furore che aveva trattenuto fino a quel momento – e non era poco.

«Sono tre anni che queste cose capitano!» Pronunciò una sequela di quelle che probabilmente erano imprecazioni e insulti in uno spagnolo rapidissimo. Quando era arrabbiata, il suo accento diveniva ancor più evidente. «Tre anni! E nessuno di voi» indicò dapprima Debienne e Poligny, e poi gli sfortunati Moncharmin e Richard, agitando un indice sotto il naso di ognuno di loro come se fosse una spada, «nessuno di voi ha fatto qualcosa! Beh, finché queste cose accadranno, questa cosa» indicò se stessa con un gesto eloquente, «non accadrà!»

E uscì a grandi passi dall'auditorium, seguita dai suoi lacchè e da un Ubaldo Piangi che pareva più simile che mai a un appendiabiti, dal momento che sembrava stare lì solo per reggerle la pelliccia.

Il suo collega Carolus Fonta tentò di fermarla, ma la Carlotta non si fece intenerire e si congedò in una nuvola di profumo e gioielli, mugugnando qualcosa che assomigliava a un “adesso basta, questa è la goccia che fa traboccare il vaso” e altre imprecazioni in spagnolo.

Avrei voluto che Christine fosse lì presente. Mi sarebbe piaciuto avere qualcuno con cui ridere. Ma dal momento che ero sola e che scoppiare in una fragorosa risata sotto il naso dei direttori, di mia madre e della Sorelli era l'ultima reazione che in quelle circostanze ci si aspettava da una ballerina di fila, mi trattenni a fatica. Nello sforzo, credetti di essermi rotta un paio di costole.

«Signori» disse Poligny indossando il cappello, «se avrete bisogno di me, sarò a Francoforte.»

«E io a Napoli» aggiunse Debienne.

Reyer emise un gemito.

«Ma… la Carlotta canterà, vero?» chiese Moncharmin, allarmato.

«Ma certo. Le passerà. Si sa come sono queste dive…» rispose Richard, ma anche lui sembrava poco convinto. La tempra della Carlotta non era da sottovalutare, questo lo sapevano tutti.

«Vi lasciamo ai vostri preparativi per la serata di gala che si terrà in onore delle nostre dimissioni. Monsieur Mercier è stato davvero gentilissimo ad organizzarla. Vi ringraziamo di tutto cuore per tanta dedizione» disse Debienne, mutando discorso e rivolgendosi all'intera compagnia.

«Siamo davvero commossi» soggiunse Poligny, anche se il suo colorito verdognolo non mi pareva granché dovuto alla commozione.

«Ci rivedremo tutti alla serata di gala.»

Strinsero la mano a Fonta e a Reyer, rivolsero un ultimo inchino a mia madre e fecero anche loro una bella uscita, che però chissà perché assomigliava di più a una rocambolesca fuga. Sembrava che non volessero altro dalla vita che scappare dall'auditorium il più in fretta possibile.

Moncharmin e Richard si guardarono, apparentemente confusi da quell'impazienza. Non capivano, nessuno di noi capiva.

Beh, non ancora.




Fu per questo che giorni dopo, quando Mercier venne ad avvisare Reyer e il maestro di canto Gabriel che la Carlotta non si sarebbe esibita alla serata di gala, pensai che la scusa non fosse solo un semplice raffreddore. Forse aveva qualcosa a che fare con l'incidente di una settimana prima.

Fatto stava che adesso ci trovavamo senza una delle cantanti principali e più attese dal pubblico. Uno spazio vuoto in una serata che si preannunciava un disastro a metà.

Feci per dire qualcos'altro a Christine, ma mi bloccai quando la vidi impallidire.

«Stai bene?» dissi, alzando un sopracciglio. «Non credevo che la salute di Carlotta ti interessasse fino a questo punto.»

«Oh, non è per quello» rispose lei, scossa dalle sue riflessioni. Da qualche mese sembrava ancora più distante del solito. C'era sempre stata in lei una malinconia, un qualcosa di amaro e vuoto che aveva inevitabilmente attirato ciò che di marcio avevo in me fin dall'infanzia. Era stata la sua solitudine, l'aria di quieto distacco che mi avevano incuriosita la prima volta che l'avevo vista, tre anni prima: non avevo mai veduto occhi così tristi in un viso tanto giovane… se non, a volte, quando mi guardavo allo specchio. E da egocentrica qual ero, non mi ero lasciata sfuggire l'opportunità di un'amicizia fuori dagli schemi, una sorellanza che andava oltre il sangue: era nella carne, nelle nostre voci quando avevamo parlato a tu per tu per la prima volta e avevamo compreso che a nessun altro sarebbe stato altrettanto facile dire ciò che ci ribolliva nella mente e non potevamo confessare. Non era mia abitudine confidarmi, ma Christine era stata ciò che non avrei mai creduto potesse esistere: nelle nostre anime si agitava la stessa assenza, che lenivamo attraverso la compagnia dell'altra. Anche lei, come me, aveva perso il padre molto presto. E come per me, da allora tutto – sebbene per circostanze opposte – aveva assunto un significato diverso.

Aveva stuzzicato il mio interesse – quella ragazza timida, straniera, con l'aria di provenire da un altro mondo dove a noi gente comune non era permesso accedere. Facile vittima delle crudeli facezie delle ragazze più “in gamba” della compagnia, l'avevo presa sotto la mia ala protettiva. Anch'io avevo subìto l'iniziazione tipica della mia età: prese in giro e scherzi da quattro soldi che nell'infanzia avevo considerato come un’ulteriore dimostrazione che era meglio starsene per conto proprio. Col tempo le cose erano cambiate, ma mi era stato impossibile non notare la solitudine di Christine, proprio per questa affinità. Ed ero rimasta sorpresa quando la ragazza, pur con il suo carattere modesto, aveva dimostrato una certa perseveranza che la faceva andare avanti malgrado quel vuoto negli occhi.

«Da quando mio padre è morto… è come se avessi perso la parte più importante di me. Adesso mi sento manchevole e storpia. Non so se riuscirò più a correre» mi aveva confessato un giorno. La sua sincerità nei miei confronti mi stupiva, e io non avevo potuto far altro che dirle che la capivo, sul serio. Lei mi credette, anche quando le dissi che non era più sola.

Non ci sapevo fare con le manifestazioni d'affetto: mi venivano fuori goffe, un po' burbere, senza la tenerezza che pure provavo. Ma Christine era percettiva, almeno nei miei riguardi, e il suo abbraccio mi donato maggior sollievo di qualunque medicina.

Per l'affetto che le portavo, non potei non rimanere basita quando, fra tutti, fu proprio mia madre a dare a Reyer un suggerimento che le cambiò la vita.

«Non c'è qualche sostituta in grado di prendere il suo posto?»

«La Carlotta non ha sostitute, Monsieur Mercier.»

«Messieurs» li interruppe mia madre, introducendosi nella conversazione. «Se posso permettermi di suggerire qualcuno più che all'altezza del compito…»

«Chi?» chiese Reyer, dando voce ai miei dubbi.

«Christine Daaé potrebbe cantare, signore.»

Io, che in quel momento mi trovavo en pointe, per poco non caddi in una maniera ben poco degna di una ballerina. Tra tutti i nomi che mi aspettavo, quello era l'ultimo della lista.

«Cosa?» sbottai, a voce troppo alta. Non che m'importasse di essere udita o meno.

Al mio fianco, Christine s'irrigidì.

Lo sapeva, pensai. Sapeva che mia madre avrebbe suggerito il suo nome, ecco perché era tanto pallida. Era nervosa.

Cos'era quella novità? Perché nessuna delle due me ne aveva accennato?

Come ho già detto, Christine aveva talento, questo era inconfutabile. Si era diplomata al Conservatorio, ma non si era mai distinta. Aveva una voce pura, ottima tecnica e timbro dolce, ma non riusciva a prendere note di più ampio respiro e, cosa ancora più grave, cantava come una di quelle bambole meccaniche che emettono una graziosa musichetta appena giri la chiave che hanno conficcata nella schiena. Christine cantava a comando, come se si sforzasse. Non c'era spontaneità nei suoi gesti, nei suoi acuti. A volte sembrava che neanche volesse farlo. Non l'animava la passione che infiammava certi artisti e li faceva oscillare al confine con il genio. Non era niente di speciale… Almeno all'apparenza. Io immaginavo che potesse dare di più, ma lei non me ne aveva mai dato prova.

In ogni caso, non tanto da diventare sostituta di una cantante celebre come la Carlotta a una serata di gala così importante.

«La corista?» Mercier fece eco ai miei pensieri.

«Sì. Ascoltatela, Messieurs: ha avuto una grande scuola» spiegò mia madre in tono conciliante.

«Che?» farfugliai io. «Christine, di che sta parlando?»

Christine aveva preso lezioni di canto unicamente da suo padre, oltre che al Conservatorio, ma era morto da anni. Era a lui che si riferiva mia madre? Dai racconti di Christine, sapevo che era stato un violinista di talento, ma non famoso, se non forse nel suo Paese d'origine. Non poteva essere certo un grande curriculum di presentazione, quello.

«Sentiamo» acconsentì Reyer, non so se perché non aveva nulla da perdere o perché ormai era troppo disperato per rifiutare anche quell'esile tentativo di soluzione. «Venite pure avanti, cara.» Con gentilezza, le fece segno di avvicinarsi. Probabilmente si era accorto che la ragazza era ben più che esitante. Non che non fosse palese.

Ancora a dir poco perplessa, la guardai salire sul palco a passi lenti, come se volesse ritardare il più possibile una condanna al patibolo.

«Cosa ci cantate, signorina?» le chiese Reyer, cortese. Era sempre stato affettuoso nei confronti di me e Christine. Conosceva bene la sua voce, ma era chiaro che ormai si aggrappava a qualsiasi cosa. Il gala si sarebbe tenuto l'indomani sera: se volevano concludere qualcosa, bisognava rischiare.

«Io… direi Je veux vivre, dal Romeo e Giulietta di Gonoud.»

Reyer annuì e le fece segno di cominciare. Mia madre era immobile, appoggiata al suo bastone, eppure attentissima. In sala era calato il più imperturbabile dei silenzi; gli occhi di tutti erano puntati sulla giovane donna che si accingeva a prendere un respiro profondo. Molte occhiate stranite o di scherno vennero scambiate tra i vari membri del coro e del corpo di ballo, soprattutto tra coloro che conoscevano Christine dai tempi del Conservatorio e sapevano che non avrebbe mai potuto arrivare ai livelli della Carlotta.

Lei, le palpebre chiuse, raddrizzò la schiena curva in un attimo, assumendo una posa morbida, eppure molto più solida di prima. I piedi ben piantati a terra, sembrava aver preso consapevolezza di quale fosse adesso il suo posto.

Prima di cominciare, mi guardò. Posò i suoi limpidi occhi azzurri su di me, come per cercare una risposta nei miei, scuri e indecifrabili. Annuii. Sapevo che avrebbe colto il significato del mio gesto: la nostra conversazione muta andava avanti da tre anni, ormai.

Credo in te. Forza, puoi farcela. Ecco qual era il mio tacito messaggio per lei.

Lei inspirò ancora una volta, un respiro che sembrò riempirle la mente e il cuore, oltre che i polmoni.

Poi dischiuse le labbra e cominciò a cantare.




Non ho mai assistito dal vivo alla trasfigurazione di un bruco in farfalla, quando il viscido insetto fuoriesce dalla sua crisalide per diventare una splendida creatura piena di colori. Direi che quel che vidi quel giorno fu la cosa più simile alla rottura di un bozzolo.

La voce di Christine conservava l'usuale purezza nel timbro, ma per il resto era del tutto mutata: sembrava che un angelo le avesse messo le ali per farla volare.

E il suo volo era pindarico, assoluto: cantava come se dovesse svellersi il cuore dal petto e offrirlo alla musica insieme a tutte le lacrime che non era mai riuscita a versare. Le piangeva tutte adesso, attraverso le note: sentivo la sua eccitazione, la sua passione, la sua gioia, potevo vederle il cuore palpitare nel petto e il sangue scorrerle nelle vene, pulsante di vita. Era viva – per la prima volta da quando l'avevo conosciuta, cantava come se la vita dovesse sgorgarle dalle labbra in un fiotto di echi e suoni, la magia prodotta da una cassa toracica e delle corde vocali. E le sue sembravano essere mutate in oro. Chi era il re Mida che l'aveva risvegliata dalla sua morte apparente?

Ma ora non riuscivo a rispondere a quella domanda. Ero completamente travolta dalla voce che erompeva da quel corpo di fanciulla: una voce potente come quella di una regina, o di una dea, senza perdere le tonalità che la rendevano, col senno di poi, una Giulietta perfetta. C'era una meraviglia infantile in lei, quasi non riuscisse a credere alle sue stesse orecchie. Guardava dinanzi a sé, senza posare lo sguardo su nessuno in particolare. Più andava avanti e più, mi accorgevo, guardava il soffitto.

Il cielo, mi corressi. Spera che suo padre possa vederla in questo momento, mentre risplende in tutto il suo fulgore.

Come Giulietta, sembrava in preda all'amore più estatico e puro che si possa immaginare, ma il suo era rivolto alla musica.

Quando l'aria terminò, l'auditorium piombò di nuovo nel silenzio. Dopo qualche istante sbigottito, la sala eruppe in un fragoroso applauso. Si sentivano i “brava!” delle piccole allieve, affezionate a Christine, che aveva sempre una parola dolce per loro. Per il resto, la compagnia era immersa nel più totale sgomento. La silenziosa Christine Daaé, la stramba ragazza svedese sempre con la testa tra le nuvole, che cantava come una dea sul palco che sembrava a lei destinato da sempre! Da far girare la testa a molti.

«Meravigliosa!» proruppe Reyer in un applauso più sonoro degli altri.

Io scossi la testa, in preda a un sorriso: non finiva mai di sorprendermi. Sapevo che Christine stava guardando me. Anche quella volta, tra noi le parole erano vane: non c'era molto che potessi dire e che lei non riuscisse per prima a intuire. Aveva la splendida qualità di guardare nell'animo delle persone e di vedervi fin nel profondo, cosa in cui io stentavo, goffa com'ero con tutto ciò che portava il nome di “emozione”. C'era un solo modo sicuro per me di esprimerle: la danza.

Ora sapevo che finalmente Christine aveva ritrovato la sua strada.

Non pensavo, allora, che le farfalle vivono un giorno solo. E poi, come i sogni, muoiono.




Christine non sembrava godere di quelle improvvise attenzioni. Sgattaiolò via dall'auditorium prima di soffocare e fece per squagliarsela furtivamente. Riuscii a raggiungerla prima che evaporasse nel nulla.

«Ma dove ti nascondevi?»

La tirai da parte, aiutandola così a rispondere alle domande dei curiosi. Ma non poteva eludere le mie.

Christine si aprì in un piccolo sorriso. «Da nessuna parte, Meg.»

Rispose con indifferenza, come se il mio sgomento non avesse ragione d'esistere.

«Andiamo. Non ti ho mai sentita cantare in quel modo.»

In realtà, non avevo mai neanche pensato che potesse arrivare ad essere tanto sublime. Credevo fosse talentuosa e che meritasse maggiore notorietà, ma questo superava il semplice talento.

«Cosa intendeva mia madre quando ha detto che hai avuto “una grande scuola”? Hai preso lezioni e non me l'hai detto?»

Perché non me ne hai parlato?, sussurrava malevola una voce al mio orecchio. Compresi che era quella del mio orgoglio ferito.

«Fai troppe domande, amica mia» replicò Christine, e per un istante apparve a disagio, quasi inquieta. Si fissò le mani come se d'un tratto fossero divenute più interessanti della mia faccia – il che poteva pure essere vero. Ma non era quello il momento di tergiversare. Sentii il mio orgoglio cedere il passo alla preoccupazione.

«Pensavo a mio padre» confessò in un sussurro. Dovetti tendere le orecchie per udire quelle parole, e me ne sorpresi, perché di solito cercava di parlare il meno possibile del padre defunto – un'altra cosa che ci accomunava. «Pensavo a lui e a tutte le cose che ho perduto. Al mare grigio acciaio del mio Paese, che ancora ritrovo nei sogni. Alle foreste di sempreverdi secolari, ai fragili fiori primaverili. Non respingevo questi pensieri come un tempo. Lasciavo che m'inondassero, come un grembo caldo e accogliente. Rammentavo le rassicuranti melodie del violino di mio padre, che m'ispiravano il canto.»

Non sai mentire, fu il mio primo pensiero. Non provarci neanche con me. Ma non lo dissi. C'era qualcosa di indecifrabile nei suoi occhi che me lo impedì.

«Ma stai prendendo lezioni, sì o no?»

Christine sospirò, come se non avessi capito niente di quel che aveva detto. In realtà l'avevo ascoltata molto bene, ma non volevo farmi distrarre. Dovevo sapere. Quel suo pallore innaturale… Non c'era ragione di nasconderne la causa, non a me. Da egoista qual ero, non pensavo che invece di ragioni ce n'erano eccome, solo che non potevo – né forse volevo – vederle.

«Sì» rispose lei alla fine, ed era evidente che si era sgravata di un peso che non riusciva più a sopportare. «Da qualche mese, ormai.»

«E cosa c'è di male? Perché non me ne hai parlato subito?»

«Io… è un affare delicato, Meg. Volevo affrontarlo da sola.»

Sbattei le palpebre, senza capire. «Se preferisci così… Ma non credo di…»

«Posso andare a casa, Meg? Sono davvero molto stanca.»

Non scappare via da me. «Certo che sì, non devi mica chiedermi il permesso.»

«Non ti stavo chiedendo il permesso, Meg.»

Ovvio. Era il suo modo cortese di scaricarmi in modo perentorio. Sottile, com'era lei.

«Comunque ti capisco, anch'io sono distrutta. Ho i piedi a pezzi.» La studiai un'ultima volta, sospettosa. «Sei sicura di stare bene? Mi sembri ancora un po' bianca in volto.»

«È l'emozione» minimizzò lei. «Ero così nervosa. Vorrei essere come te, sai? Tu non sei mai nervosa prima di un'esibizione.»

Emisi un lieve sbuffo. «Vuoi dire che non lo mostro e basta.»

Quanto vorrei che fosse vero.

«Ci vediamo domani, allora. Salutami Mamma Valerius.»

«Lo farò.»

Mi salutò con un frettoloso bacio sulla guancia, mentre io mi limitai ad arruffarle i riccioli biondi. Doveva essere davvero scossa. Sapeva che ricambiavo quelle smancerie solo in rare occasioni: non era nel mio carattere, la naturalezza del dare e ricevere.

Forse era lei ad averne bisogno. Ha bisogno di sostegno, di un'amica. E anche tu. Ma non lo ammetti, stupida orgogliosa testarda che non sei altro.

Zittii la voce della parte più delicata di me mordendomi un labbro a sangue. Christine aveva già girato i tacchi, era quasi alla fine del lungo androne dorato che era il foyer della danza.

«Christine?» La fermai prima che mi svanisse dinanzi.

Lei si voltò, gli occhi sgranati, torbidi come immaginavo fosse l'acqua cristallina dei laghi svedesi nei giorni di pioggia. «Sì?»

«Chi è il tuo insegnante?»

Sul suo volto dolce e franco si dipinse un'espressione fredda e imperturbabile che di rado le avevo visto indossare. Dentro di lei ha un'armatura, dove non si vede. È più forte del diamante e brilla con altrettanta forza. E non lo sa.

«Forse un giorno te ne parlerò. Ma non oggi.»

La durezza svanì dalle sue fattezze con rapidità, cedendo a quella che mi parve un'impronta di rimpianto. Poi se ne andò, lasciandomi lì a rimuginare sull'enigma che era diventata.




Quella notte mi svegliai di soprassalto, i timpani pieni di un ticchettio sconosciuto. Scivolai fuori dal sonno e dal letto, scostandomi dagli occhi la frangia scomposta di capelli neri. Erano ribelli e cespugliosi, quasi impossibili da tenere in ordine. Nulla a che vedere con i morbidi riccioli color miele di Christine. Erano una seccatura: quando sei una ballerina, l'ultima cosa che desideri è che dei ciuffi di capelli ti finiscano sugli occhi mentre accenni a una piroetta. Non potevo permettermi di inciampare sul palco davanti a tutti.

Tesi le orecchie. Che cos'era quel ticchettio che udivo in lontananza? Era terribilmente irritante.

Cercai di identificare da dove proveniva il rumore che aveva disturbato il mio sonno, chiedendomi se avesse svegliato qualcun altro. Improbabile: avevo il sonno molto leggero. In tutta fretta accesi una candela che tenevo sempre sul comodino accanto al letto e indossai una veste da camera grigia un po' troppo lunga per la mia scarsa statura, ma dovevo accontentarmi. Infilai le pantofole ai piedi e uscii dalla camera a passo felpato, portando con me il lucignolo. Il tremulo bagliore lasciava scie aranciate sulle pareti, rilevando ciò che si celava nell'oscurità attorno a me.

Ben attenta a non urtare qualcosa o a inciamparvi sopra, svegliando poi tutta l'Opera in un rovinoso fracasso, molto più assordante del ticchettio di cui inseguivo l'eco, m'inoltrai nel corridoio dei camerini, dove era collocata la mia modesta stanzetta. Ero immersa in un amnio d'ombra, che s'adattava alla mia pelle con agio straordinario.

Scivolai nel buio come un'onda attirata alla riva da un moto sempiterno. Alla fine anch'io tornavo sempre lì, dove mi spingeva la corrente. I cantucci d'ombra dell'Opera Garnier erano da sempre i luoghi che preferivo. Lì potevo pensare liberamente, come non mi riusciva di fare alla luce dei riflettori.

Il ticchettio che mi stava facendo venire il mal di testa proveniva dal piano inferiore, probabilmente dal vasto auditorium. Oltrepassai una rampa di scale a chiocciola, un altro stretto corridoio e il foyer della danza, ora occupato solo dagli spettri di luce creati dallo stoppino sulle pareti d'oro e marmo. Eccetto che per quel ticchettio, il grande teatro era immerso nel silenzio come i suoi abitanti. Vi abitavano vecchi macchinisti e operai – gentile concessione dell'amministrazione. Dopo ciò che era accaduto a mio padre, anche mia madre ed io ne eravamo diventate ospiti. D'altronde, non avremmo più potuto vivere in quella casa baciata dalla morte…

No, non dovevo pensarci. Non ora, non di notte, non quando le ombre rendevano più attiva e vulnerabile la mia immaginazione, mutandola in un calice di veleno… e infine in una piaga.

Cacciai a forza dalla mia mente quei pensieri assurdi e mi concentrai sul famoso ticchettio. Proveniva dalle quinte del teatro, esattamente dal fondo del palco. Il sipario era calato, l'aria era una prigione d'ombra e polvere. Tutt'intorno, barbagli dorati mi impedivano di perdere la strada, come lame nel buio. Ma non avrei mai potuto perdermi in quel luogo. Lo conoscevo come il mio stesso corpo, vi vivevo con uguale familiarità.

Una goccia di quella che sperai ardentemente fosse solo acqua mi colpì sulla fronte, scivolandomi lungo il naso. A giudicare dall'odore, no, non si trattava d'acqua. Mi affrettai a ripulirmi con una manica, distorcendo le labbra in una smorfia di disgusto. Figaro doveva averne fatta un'altra delle sue.

Questa è la volta buona che non gli fanno più mettere piede – beh, zampa – qui dentro.

Figaro era il gatto “dell'Opera”, ma non aveva padroni, per quanto tutti si prendessero cura di lui. Era libero di vagare dove più gli pareva, e di girare per i vicoli notturni di Parigi come la sottoscritta non avrebbe mai potuto fare. In un certo senso, era più libero di me.

Sospirai e sollevai lo sguardo e la candela, mentre le gocce continuavano a scendere in una cadenza odiosa. Il lezzo di piscio e legno sporco mi trafisse la narici, e mi tappai il naso con la mano che non reggeva il lumicino. Se ne sarebbero occupati domani quelli delle pulizie. Sperai che in qualche modo si sbarazzassero di quel fetore. Immaginavo i cantanti e i ballerini sul palco che si sforzavano di trattenere dei conati. Scossi la testa: l'ultima cosa che desideravo era che qualcosa andasse storto alla serata di gala. Era il debutto di Christine, o perlomeno la sua più importante occasione di brillare. Già era stata un discreto Siebel nel Faust, in cui aveva sostituito un'artista ammalata.

Da parte mia, avevo già interpretato non pochi ruoli da solista, poiché ero tra coloro che lavoravano da più tempo all'Opera. Ma erano state tutte parti marginali. Ero ancora un'anonima ballerina, anche se ogni anno diventavo meno giovane e più esperta. Non attendevo altro che la mia occasione: doveva arrivare, mia madre ne era praticamente sicura, e io… io non vedevo altro che l'obiettivo: le luci del palco puntate su di me. Il mio desiderio non era tanto quello di essere famosa, quanto di interpretare i ruoli che avevo sempre sognato: Giselle, Odette, Coppelia…

Seguendo un istinto che non riuscivo a far tacere – né tanto meno lo desideravo – posai la candela per terra e mi avvicinai al centro del palco. Col sipario calato, potevo solo immaginare le platee di poltrone foderate di velluto carminio, ora vuote. Sollevai le braccia in un moto aggraziato e misi i piedi in seconda posizione, dandomi una spinta. Con le pantofole non potevo fare granché, e dovevo stare ben attenta a non scivolare. Una, due, tre piroette. Continuai a volteggiare fin quando non mi girò la testa, ossia solo qualche minuto più tardi, dal momento che la mia resistenza era alquanto elevata. Risi da sola, e l'eco della mia risata mi rimbombò fin nelle ossa. Ero ridicola, me ne rendevo conto, e sognare non mi avrebbe portata a nulla di concreto. Volevo il legno sotto le scarpe da ballo, il gesso che mi scorticava le unghie dei piedi, le calze che mi prudevano le cosce, il trucco che mi colava sul volto per il sudore, i capelli tanto tirati all'indietro da far male all'attaccatura. Volevo essere carne e sangue, non aria. Visibile, non un miraggio sfuggevole di qualcosa che poteva essere ma non era mai stato.

D'un tratto udii qualcosa. Una risata. All'inizio non ci feci caso – pensai fosse un mero eco della mia. Poi mi accorsi che il timbro era del tutto diverso. Apparteneva a un uomo.

Mi morsi l'unghia del pollice fino alla mandorla – com'era mia abitudine quando venivo colta alla sprovvista – e sollevai da terra il lucignolo, scrutando nelle tenebre. Pensai si trattasse di un macchinista o di qualche altro operaio con troppa voglia di scherzare, ma non era l'orario adatto a una scenetta del genere. Mi trovavo nell'auditorium, nel cuore della notte. Ragionevolmente, non poteva esserci nessuno, tanto meno un uomo che rideva.

Mi feci coraggio e scostai le grandi tende del sipario, puntando la candela verso la platea e infine i palchi. Nulla, sembrava non ci fosse nessuno. Ma io avevo udito quella risata, non era stato tutto frutto della mia immaginazione. E non potevo aver avuto delle allucinazioni – la mia mente si riempì di pensieri involuti – non adesso, non ora, concentrati.

Scossi la testa quasi con violenza e indietreggiai. Fu allora che la udii di nuovo, ma questa volta proveniva da una direzione diversa: era alla mia destra. Con uno scatto rapido, mi voltai e puntai la luce verso l'origine di quel suono molesto. Nessuno. Il palco era un mondo vuoto quasi quanto me. La udii di nuovo – una risatina bassa e malevola. Il timbro, malgrado gli sghignazzi, era dolce ma distorto, perché quello era l'ultimo aggettivo che avrei potuto attribuirvi in una situazione del genere. Non sembrava giusto, ma era la verità.

Questa volta mi vennero i brividi, poiché la udii proprio nel mio orecchio sinistro – vicinissima, tanto che mi sembrò di percepire un fiato caldo sul collo… Mi voltai di scatto, esasperata e inquieta. Ma ancora una volta, non c'era nessuno.

«Adesso basta. Vieni fuori!» sibilai a denti stretti, sentendo montare in me la rabbia e l'umiliazione. Perché avevo paura, e non potevo permettermelo.

«Come desiderate, Madamoiselle.»

La voce era la stessa che era esplosa in quella risata irritante. La riconobbi dall'accento sarcastico. Questo, com'è prevedibile, non fece altro che incrementare la mia foga.

Indietreggiai, pronta a vedere quell'imbecille spuntare davanti ai miei occhi. Gliela avrei fatta pagare… Eppure, per qualche ignota ragione, non riuscivo a soffocare il timore che provavo dentro di me. Mi scorreva nelle vene, facendo pulsare il mio cuore più rapidamente del solito.

Fu allora che urtai contro qualcosa – o qualcuno – e mi voltai.

Fu, col senno di poi, una pessima idea.

Avevo urtato contro un corpo solido, ben più alto di me. Non vidi nulla se non due fari nella notte…

Solo in seguito mi resi conto che fissavo dritto negli occhi più gialli e luminosi e spettrali che avessi mai visto. Erano loro ad emanare quel bagliore simile a due stelle sulla distanza, o lo sguardo di un felino nel buio.

Con un grido strozzato – non mi aspettavo di certo una visione del genere! – corsi via tanto in fretta che la candela si spense, diventando un inutile impedimento nella mia mano, e lasciai indietro una pantofola, non curandomi di recuperarla. Quasi inciampai nell'orlo della veste troppo lunga. Tutto quel che desideravo era mettere la maggiore distanza possibile tra me e quei due occhi gialli e brillanti come lucciole, che sapevo non appartenere certo a Figaro. Seguii la stessa strada che avevo percorso all'andata, ma questa volta ero in fuga da qualcosa a cui non sapevo dare nome. Fuggivo come un topolino spaventato dall'agile ed enorme gatto nero pronto a balzargli addosso e divorarlo. Corsi, corsi tanto che mi bruciarono i muscoli delle gambe, ma non avvertii alcun dolore. Con l'eco di quella risata che ancora mi tempestava nelle orecchie, la mia mente si riempì di un unico pensiero – irrazionale, assurdo, a cui prima d'allora non avevo mai concesso la meritata attenzione.

Eppure, adesso era tutto ciò che sapevo.

È lui, pensavo col cuore in gola, furiosa per quella stessa ammissione. È lui, il fantasma dell'Opera!



Note dell'autrice: Ed eccoci arrivati al secondo capitolo – beh, il primo del racconto di Meg. Che ve ne pare? Come già detto, ci sono elementi importanti presi dal musical, anche se la maggioranza della storia si baserà sugli eventi del libro di Leroux. Naturalmente, sottolineo che i dialoghi ispirati a quelli di una delle prime scene del musical appartengono ad Andrew Lloyd Webber, non a me.


LammermoorLace: Oddio, grazie mille! Non mi aspettavo assolutamente una recensione così entusiasta. Sei fin troppo generosa. Hai proprio analizzato bene il personaggio di Meg, complimenti! Comunque, per rispondere alla tua domanda, ho scelto questo titolo perché amo molto quell'aria d'opera, ed è proprio ascoltandola che ho avuto l'ispirazione. Non chiedermi come. XD Grazie ancora.

   
 
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