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Autore: Adeia Di Elferas    15/11/2015    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Ferrara si era arresa, l'assedio aveva dato i suoi frutti e Sigismondo Este era stato definitivamente battuto a Bastia di Zaniolo, facendo credere ai veneziani di avere ormai in mano la guerra.
 Quando la notizia del successo era arrivata a Roma, era stata accolta con meno entusiasmo del dovuto, soprattutto dal papa, che aveva ascoltato la nuova in silenzio, gli occhi stretti e una ruga severa impressa nel mezzo della fronte.
 Il freddo era sempre più intenso, tanto che nella pianura padana la neve aveva cominciato a cadere senza tregua, stratificandosi e ghiacciandosi ogni notte. Anche nel ferrarese e nella periferia di Roma le temperature erano stranamente rigide e qualche fiocco di neve faceva la sua comparsa pressoché quotidianamente.
 In quel clima surreale, Sisto IV si mosse velocemente per stringere un patto con gli Aragonesi e far fermare le ostilità almeno con Napoli.
 Il ventotto novembre, dopo una trattativa relativamente breve, Napoli accettò la tregua e il papa poté annunciare a tutta la sua corte il suo mezzo successo.
 Per placare gli attriti tra Colonna e Orsini, Sisto IV mise in pratica il consiglio di Caterina e perdonò pubblicamente i Colonna, permettendo loro di riavere i feudi che erano stati requisiti e si dimostrò benevolo e prodigo con gli Orsini, fedeli al papato fin dai primi colpi di colubrina.
 Roma pareva apparentemente riappacificata.
 Un altro affare erano, però, i veneziani.
 
 “Lasciamo che i veneziani se la vedano con Ferrara e tiriamocene fuori!” propose Paolo Orsini, con tono d'ovvietà.
 “Sete un pazzo! Non possiamo tirarci fuori ora dalla guerra!” sbraitò di rimando Giovanni Colonna.
 “Calma! Calma!” invocò Sisto IV, dall'alto del suo scranno, con una voce troppo flebile per fermare l'acceso scambio di opinioni.
 “Sapevamo benissimo che i veneziani non avrebbero seguito i nostri ordini!” si intromise Marco Barbo, picchiando un pugno sul proprio ginocchio: “Non dobbiamo sorprendercene!”
 “Se il nostro Santo Padre fosse stato più accorto...!” annuì con forza Giovanni Colonna.
 “Badate bene!” lo minacciò allora Paolo Orsini: “Il nostro Santo Padre vi ha da poco concesso il perdono, fate in modo che non se ne penta!”
 “Basta, fate silenzio!” ribadì il papa, appena più forte.
 “Fate silenzio!” sbraitò Giovanni Conti, per conto di Sisto IV, facendo piombare la sala nel silenzio più tombale.
 Sisto IV lo ringraziò con un cenno del capo. Si strinse nelle spalle per combattere il freddo che in quel febbraio ancora non lasciava Roma e disse, con fermezza, ma con voce flebile: “Non è il momento di dare la colpa a questo o quello, ma di trovare un modo per fermare Venezia. Se non smetteranno gli attacchi al ferrarese, presto ci troveremo contro Milano e Firenze e chissà chi altri. Quindi, che parli solo chi ha un suggerimento valido.”
 “Se l'interdizione non è bastata – soppesò Francesco Todeschini Piccolomini – che Venezia e tutto il veneziano vengano scomunicati.”
 Un boato accolse quella proposta e immediatamente tutti i porporati presenti cominciarono a parlottare agitatamente l'uno con l'altro, dando di gomito al vicino e occhieggiando ora verso il papa, ora verso Piccolomini.
 La riunione era a porte chiuse, tuttavia Caterina aveva fatto in modo di trovarsi in un punto in cui, per vari motivi, si poteva sentire abbastanza distintamente quel che accadeva nella sala.
 Anche lei accolse con una certa sorpresa la proposta di Piccolomini. Una scomunica era forse peggio di una dichiarazione di guerra a quel punto...
 “La scomunica è una giusta misura!” esclamò Rodrigo Borja, la cui voce tonante spense all'istante il chiacchiericcio.
 “Parlate bene, voi! Ma se Venezia la usasse come scusa per scatenarci contro tutta la sua forza?” lo interrogò Barbo.
 “Non siate sciocco...” ghignò Borja, cercando di nascondere sempre il suo accento spagnolo: “Venezia non oserebbe mai. Una scomunica avrebbe l'effetto di un secchio di sabbia su un fuoco appena nato.”
 “Raffeale cosa ne pensate?” chiese Sisto IV, che da un po' osservava il nipote Raffeale Sansoni Riario.
 Il ragazzo stava ascoltando i discorsi di tutti con un'espressione terrorizzata dipinta in volto. Da quando era stato coinvolto suo malgrado nella congiura dei Pazzi, era diventato guardingo e insicuro, sempre indeciso e poco incline a prendere una posizione certa.
 Sisto IV non era contento della sua condotta, perchè era pur sempre un Della Rovere e alla sua morte sarebbe stato uno dei suo possibili successori. Forse...
 “Allora, Raffaele?” chiese di nuovo il papa, sporgendosi appena verso il nipote.
 Egli si schiarì la voce varie volte, prima di dire, cauto: “Forse ci converrebbe attendere di vedere come evolve la situazione...”
 “Sciocchezze!” ululò Giovanni Colonna: “Voi parlate come un monaco!”
 E partì di nuovo uno scambio di opinioni talmente confuso e acceso che Caterina, da fuori, non capì più chi stava parlando e di cosa.
 Alla fine Sisto IV sciolse la riunione senza aver avuto una dichiarazione unanime della sua corte. Si sentiva solo come una scialuppa bucata nel mezzo della tempesta e ogni decisione gli pareva sbagliata e azzardata.

 A maggio, quando il clima cominciava a tornare godibile e le nevi si stavano sciogliendo una volta per tutte perfino nella valle del Po, il papa si risolse a lanciare la scomunica a Venezia.
 Con suo grande sollievo, i veneti non rimasero insensibili a quella mossa, che per loro avrebbe significato di certo l'isolamento e un tracollo economico non indifferente e così l'assedio a Ferrara – che era stata temporaneamente riconquistata – venne improvvisamente interrotto e le truppe venete si ritirarono.
 Di circa tre anni di scontri, restarono segni sul territorio e un gran numero di morti, ma né Roma né Venezia – né tanto meno Genova – ottenero qualcosa che giustificasse un tale spreco di denaro e soldati.
 Benché la scomunica avesse arginato i danni e fiaccato l'ardore veneziano, per il papa non fu una mossa poi così vincente.
 Anche se aveva sedato gli scontri e scongiurato pericoli maggiori, con quel cambio improvviso di politica – passando dall'alleanza alla scomunica – Sisto IV aveva perso credibilità e la fiducia dei suoi storici alleati vacillava ogni giorni di più.
 I rapporti con gli Aragonesi e con le stesse terre vaticane vacillavano e si raffreddavano a vista d'occhio e il papa faticava a rendersene conto.
 Nemmeno Girolamo Riario pareva accorgersi della vertiginosa discesa agli inferi intrapresa da suo zio. Al contrario, ora che la guerra pareva placatasi sia al nord sia al sud, aveva cominciato a macinare nuove grane per lo stato pontificio, aizzando più o meno velatamente di nuovo gli Orsini contro i Colonna.
 Quando Caterina se ne rese conto, cercò immediatamente di rimetterlo al suo posto, ma egli fece buon viso a cattivo gioco e per la fine del 1483, mentre la neve ritornava ad affacciarsi finanche sul Tevere, la tensione tra Colonna e Orsini era di nuovo palpabile.

 “Com'è il bilanciamento, mia signora?” chiese il maestro d'armi, mentre Caterina soppesava la nuova spada che quell'uomo aveva voluto forgiare apposta per lei.
 In quel gennaio la neve era soffice e fresca e Caterina amava stare nel cortile d'addestramento a godersi quell'aria fredda e pungente che le ricordava così tanto Milano. Il cozzare delle armi e degli scudi di quelli che si stavano allenando, poi, la calavano in una condizione simile al sogno e poteva fingersi ancora una bambina che prendeva lezioni di spada nel cortile del palazzo di Porta Giovia.
 “Molto buono.” affermò ella, cominciando a rotearla tenendo l'elsa con una sola mano.
 Era una spada dalla linea molto semplice e sufficientemente leggera da poter essere tenuta con una mano sola senza troppo sforzo, ma anche abbastanza importante da essere impugnata a due mani.
 “Impugnatura da una mano e mezza. Mi piace.” sorrise Caterina, provando qualche affondo.
 Il maestro d'armi si grattò compiaciuto la barba ispida del mento e ridacchiò: “Son felice, son felice...”
 Caterina fece ancora un paio di figure della scherma classica e poi si lanciò in mosse più complesse, anche se meno raffinate, che aveva imparato di recente.
 Sì, la lunghezza era perfetta e di certo anche se usata a cavallo sarebbe stata un'ottima arma.
 “Sapete – fece il maestro d'armi, con gli occhi che brillavano nel vedere quanto la sua signora avesse apprezzato il regalo – temevo di essere stato troppo ardito a farvi una spada da una mano e mezza, visto che la chiamano la spada del bast...”
 “Caterina, siete qui!” una voce dal fondo del cortile interruppe il maestro d'armi, che si affrettò a chinare il capo in segno di rispetto verso il Conte Girolamo Riario, signore di Imola e Forlì, Castellano di Catel Sant'Angelo e, soprattutto, nipote di papa Sisto IV.
 “Che c'è?” chiese Caterina, senza staccare gli occhi dalla spada.
 “Devo parlarvi con urgenza. Si tratta di una questione della massima urgenza.” disse Girolamo, il fiato grosso e le gote arrossate.
 Caterina immaginava quale fosse quella questione di massima urgenza. Aveva sentito i discorsi dei vescovi, quella mattina, aveva assistito di persona a una mezza zuffa tra due Colonna e un Orsini. Dunque Girolamo ce l'aveva fatta, di nuovo.
 Caterina ripose la spada tra le mani del maestro d'armi, ringraziandolo di nuovo e pregandolo di mettere al sicuro quella meravigliosa arma e si rivolse a Girolamo: “Volete che parliamo della guerra civile che siete riuscito a scatenare?”
 Girolamo si asciugò la fronte, bagnata da qualche fiocco di neve che si era sciolto nell'incontrare la sua pelle calda: “Non è una guerra civile, ma un'opportunità.”
 “E per cosa?” chiese Caterina, accigliandosi.
 “Per noi, per la nostra famiglia. Gli Orsini hanno la vittoria in pugno! Diventeremo ricchi e potenti, Caterina!” esclamò Girolamo, gli occhi che brillavano di quella che a sua moglie parve follia.
 “Lo siamo già, ricchi e potenti, e tu faresti meglio a stare accanto a tuo zio e a cercare di non inimicarti nessuno.” gli disse, mentre il maestro d'armi si allontanava per andare a riporre la spada e per non dare l'impressione di essere un ficcanaso.
 “Sono molto vicino a mio zio, ma devo anche dare il mio contributo.” ribatté Girolamo: “E poi il papa se la cava benissimo anche senza di me.”
 “Tuo zio è vecchio, Girolamo. Non gli resta molto, te ne rendi conto? È stanco, curvo, quasi senza voce...!” tentò Caterina: “Non essere il solito stupido!”
 Girolamo si alterò improvvisamente e disse, a voce bassa e collerica: “La guerra ormai sta cominciando, non si può tornare indietro.”
 Caterina scosse piano il capo e commentò, a mezza bocca: “Non avremmo mai dovuto lasciare Forlì. Tu a Roma hai combinato solo disastri...”
 “Ora mio zio desidera parlarti. Domani parto assieme a Paolo Orsini. Questa notte avremo modo di parlare con più tranquillità.” concluse Girolamo.
 Alla sola idea, Caterina avvertì un senso di nausea che le impedì di controbattere a dovere e così si limitò a guardare male il marito e a seguirlo verso gli appartamenti del papa.

   
 
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