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Autore: Himeko _    15/11/2015    3 recensioni
Quando un cuore viene ferito ci mette molto per risanare la ferita. Esso crea attorno a sé delle barriere per impedire che venga nuovamente fatto a pezzi.
Ma cosa succederebbe, se lì fuori, con più di sette miliardi di persone nel Mondo, trovasse proprio la sua metà?
Sarebbe capace di abbassare le barriere, per battere all’unisono insieme alla sua metà?
[Estratto]
«Avrò del tempo per me, con te?».
Shade non rispose, limitandosi ad osservarla.
Rein era bella, bellissima, anche con i capelli spettinati raccolti in un'altrettanto disordinata treccia, il suo maglione addosso e quelle ridicole pantofole a forma di panda ai piedi.
Mi ami?, sembravano domandare gli occhi verde-acqua, vigili, nonostante la notte in bianco.
Non puoi immaginare quanto, rispose, cingendole delicatamente la vita, facendo scontrare lievemente le loro fronti per poter catturare ogni singola sfumatura del suo sguardo.
«Avrai tutto il tempo del mondo, con me».
// SOSPESA per mancanza d'ispirazione.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Rein, Shade
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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The reasons of the heart


• Capitolo sette •

Questions, Answers and Half-truths.

 
Qualche sporadico tuono, attutito dalla lontananza del temporale che ben presto avrebbe cappeggiato sulla città, accompagnava il regolare ticchettio prodotto da un tacco dodici che rimbombava nell’animato silenzio dei corridoi designati agli studi dei docenti.
Le lucide scarpe color beige si arrestarono simultaneamente, producendo un suono secco, davanti ad una porta in legno di mogano. La donna sollevò il braccio, coperto sino al gomito dal risvolto – appuntato con una piccola spilla argentea – della manica di una camicetta color lillà, ed avvicinò la mano, stretta a pugno, ad essa. Inspirò ed espirò profondamente un paio di volte prima di appoggiare le nocche sulla cornice, facendo tintinnare il bracciale d’oro che le circondava il polso ossuto. Si umettò le labbra dipinte di rosso papavero, inspirò nuovamente ed allontanando un poco il pugno lo poggiò con più forza sul legno, appena sopra la sua spalla, bussando due volte.
Una voce ovattata, dall’inconfondibile sfumatura roca, le diede il permesso di entrare e lei venne attraversata da un piccolo brivido di freddo, mentre spostava la mano – rimasta inerme sul bordo – in direzione della maniglia d’ottone, abbassandola con esasperata lentezza, conscia di ciò che stava per fare: una volta varcato l’ingresso della stanza le vite di entrambi i protagonisti di una storia che si era protratta nel tempo, senza vedere una fine, sarebbero cambiate, ma non sapeva ancora dire se in meglio o in peggio.
«Ah, sei tu» la salutò semplicemente l’interlocutore, alzando appena gli occhi dal computer sulla cui tastiera digitava freneticamente. «Accomodati pure», continuò indicandole con un cenno del capo la poltrona che torreggiava dinanzi ad un’enorme libreria ricolma di volumi prevalentemente storici, «finisco di rispondere a questa importante e-mail».
La donna annuì mestamente, deglutendo faticosamente a causa del groppo che le si era formato in gola: l’ansia che pensava di avere dominato durante il breve, ma allegoricamente lungo, tragitto sino alla destinazione si stava ridestando. Con passo lento si avviò nell’angolo indicatole e si sedette sul ciglio della poltrona color verde pastello, cominciando a prendere in considerazione l’idea d’inventarsi una riunione o una commissione improvvisa per poter fuggire – un’altra volta.
Abbassò le palpebre, abbellite da una sottile linea di eyeliner adiacente l’attaccatura delle ciglia, ed espirando profondamente si diede della sciocca. Non poteva voltargli le spalle, non ora che aveva bisogno di conoscere la verità che l’aveva spinta a comportarsi come una persona crudele, abbandonandolo nel letto sfatto sui cui avevano fatto… l’amore. Arrossì come un’adolescente al solo pensiero; sì, era stata decisamente un’insensibile.
Osservò di sottecchi il coetaneo leggere attentamente lo schermo del portatile e sospirò.
Glielo doveva.
Meritava di ricevere delle spiegazioni e lei doveva togliersi quel peso dal cuore, altrimenti nessuno dei due sarebbe potuto andare avanti lasciandosi alle spalle quel passato che li accomunava, in particolar modo Toma. Glielo leggeva negli occhi ogni volta che s’incontravano nei corridoi o nella sala caffè: si tormentava ancora per la fine della loro storia, per il motivo che si celava dietro le mancate risposte ad ogni suo tentativo di contattarla ed, ora, anche per la ragione che l’aveva spinta ad accettare quel posto di insegnante nella medesima Università. Era rimasto ancorato a lei, in attesa di qualcosa che non avrebbe mai potuto dargli.
In preda a quei pensieri cominciò a giocherellare con l’orlo della gonna a tubino, incurante di danneggiarne il tessuto elasticizzato. Le sue dita sentivano l’impellente bisogno di attorcigliare alcune ciocche di capelli per stemperare l’ansia, ma lei, previdente come sempre, li aveva legati in una delicata crocchia bassa – poggiata sulla base del collo –, che le conferiva un’aria più severa – e sofisticata, le aveva detto una collega – del solito.
L’uomo chiuse il portatile e, stiracchiandosi come un gatto, stendendo le braccia sopra di sé, si alzò dalla posizione in cui era stato costretto per gran parte del primo pomeriggio. «Posso offrirti qualcosa? Un tè caldo? Un caffè? Dell’acqua?», domandò rivolgendosi alla sua ospite, la quale scosse il capo non fidandosi ancora delle sue corde vocali. Con un sospiro l’argenteo si avvicinò alla postazione che prediligeva per leggere un buon libro quando rimaneva bloccato nello studio, e si sedette sull’altra poltrona, di fronte alla donna che un tempo aveva amato con tutto se stesso ed alla quale, non lo negava, si sentiva ancora legato. «Allora…»
«Mi dispiace», lo interruppe flebilmente la donna, alzando i suoi occhi ametista e Toma capì che non stava mentendo, che era giunto il momento.
Quel momento.
Quello che aveva temuto dalla prima volta che l’aveva rivista. Sospettava che quello fosse l’argomento principale per cui gli aveva chiesto un colloquio privato, per questo inizialmente aveva avuto qualche titubanza nel risponderle: era pronto alle rivelazioni, alla verità? Era pronto a mettere sul tavolo tutto ciò che provava? Era pronto alla resa dei conti?
«Lo so», rispose sporgendosi lentamente verso il tavolino che li divideva, bloccandosi di colpo. Cosa stava facendo? Non poteva stringerle la mano, non stavano insieme, non avevano un rapporto d’amicizia e non l’avrebbe di certo aiutata vista l’agitazione che le si leggeva chiaramente sul volto pallido. Con un movimento noncurante si costrinse ad appoggiarsi meglio contro lo schienale della poltrona, invitandola a continuare con lo sguardo.
Eliza gli sorrise riconoscente. «Credo che tu sappia di cosa ti voglio parlare sin da quando hai accettato d’incontrarmi. Spero solo di aiutarti ad andare avanti: Toma, devi smetterla di ancorarti al passato. Al nostro passato», lo guardò dritto negli occhi; l’incertezza e la paura stavano lasciando il posto alla determinazione di soccorrerlo a compiere un passo verso il futuro. «Toma, mi dispiace averti abbandonato così senza una spiegazione, senza rispondere ai tuoi messaggi ed alle tue chiamate; avevi tutto il diritto di cercare un responso ed io dovevo dartelo invece di fuggire. Vedi, le cose tra di noi stavano evolvendo velocemente, troppo in fretta, ed io non ero pronta a…»
«Sposarmi? Potevi dirmelo, avrei capito».
La corvina scosse la testa. «E toglierti quel sorriso dal volto? Aspetta», lo interruppe vedendolo socchiudere le labbra, pronto a ribattere. «Più di una volta ho pensato di tornare indietro, di appostarmi sotto l’edificio in cui abitavi e chiederti perdono per essere fuggita via, di rispondere ad uno dei tuoi mille tentativi di metterti in contatto con me, ma per vigliaccheria non l’ho fatto. Non ho fatto niente, a dire la verità. Per giorni, dopo averti lasciato nel modo più crudele di tutti, senza che tu te lo meritassi, lasciandoti in quel letto a dormire sereno dopo un momento così intimo, ho pensato d’incontrarti, magari casualmente, ma non l’ho fatto perché sapevo che se ti avessi rivisto sarei tornata sui miei passi e sappiamo benissimo entrambi che tu mi avresti perdonata all’istante. Ho pensato che sarebbe stato meglio se io avessi continuato ad evitarti, tu mi avresti odiata e ti saresti lasciato tutto alle spalle, invece mi sbagliavo; avrei di gran lunga preferito essere disprezzata, piuttosto che vedere ciò che vedo ora».
Toma provò ad intervenire nuovamente, ma la donna glielo impedì un'altra volta. «Fammi finire, per favore. La colpa è mia. Se non avessi accettato la proposta, adesso per te, io, rappresenterei un semplice capitolo chiuso, invece… Toma, devi lasciarmi andare, io ho tirato troppo la corda, ti ho ferito irrimediabilmente e mi dispiace immensamente per questo, davvero. Ma ora è giunto il momento di lasciarmi andare e di vivere appieno qualche nuova relazione».
«Eliza» mormorò l’argenteo, sconvolto da quelle parole. Senza pensarci due volte allungò la mano oltre il tavolino da caffè, poggiandola su quella più piccola, stretta a pugno sul ginocchio, della donna, cominciando a carezzargliela dolcemente.
«Non sono io la donna della tua vita; non sono perfetta per te. Meriti qualcuno di meglio ed il gentil sesso che frequenterai dovrà sapere di essere l’unica per te, dovrà avere la sicurezza che tu sia lì per lei, lei soltanto, senza le ombre delle altre donne. Senza il mio costante fantasma» continuò rispondendo, seppur lievemente, alla stretta, lasciando che una lacrima poggiata sul ciglio della palpebra inferiore scendesse lungo la guancia. «Lasciami andare, per favore».
L’uomo le sorrise ed Eliza trovò quel gesto confortevole. «Mi dispiace non avere capito prima il tuo disagio, se lo avessi saputo non avrei accelerato così tanto gli eventi, non avrei bruciato le tappe. Che razza di uomo è uno che domanda alla propria ragazza di sposarlo, non appena questa va a convivere con lui?» domandò retoricamente, lasciando trasparire una risatina per stemperare l’atmosfera tesa degli ultimi minuti. «Prima di essere la mia ragazza e la mia quasi moglie», rise divertito all’espressione colpevole della donna, «eri un’ottima amica e spero che tu vorrai continuare ad esserlo. Non è scritto da nessuna parte che il rapporto di due amici debba obbligatoriamente evolversi in qualcosa di più, in fondo anche l’amicizia è legame profondo, concordi con me?».
La corvina spalancò gli occhi. «Grazie, Toma, sei sempre stato troppo buono. Non mi aspettavo così tanto, ma… ne sei proprio sicuro?» chiese sorridendogli, mentre internamente sospirava quasi sollevata di essersi levata quel peso di dosso.
«Certo, signorina So-tutto-io» confermò sorridendo, alzandosi dalla poltrona ed aggirando il tavolo per abbracciarla.
«Non chiamarmi così!» ribatté la mora imbronciandosi per un’istante, prima di ridere di gusto. «Devo forse ricordarti che indosso dei tacchi dodici?»
«No, grazie. Non ci tengo a provarli una seconda volta» disse sciogliendo l’abbraccio, mantenendo tuttavia un contatto fisico mediante la mano poggiata sull’esile spalla.
Toma sospirò interiormente, provato dalle emozioni che si erano appena succedute: aveva ritrovato un’amica, si era lasciato alle spalle la relazione mai finita con Eliza ed ora – un velo di rammarico gli attraversò gli occhi – doveva parlare con Rein, sicuramente anche la ventenne aveva capito che non tutto procedeva rosa e fiori come credevano.
«Sei sicuro? L’ultima volta era solo un tacco dieci…»
«Eliza!»
 

 
*

 
Rein sospirò scostando le coperte dal proprio corpo, sedendosi sul ciglio del materasso, osservando le gocce di acqua piovana tracciare delle linee lungo il vetro della finestra; nonostante i raggi solari del mattino preannunciassero una giornata soleggiata, il maltempo aveva preso il sopravvento già durante l’ora di pranzo.
Infilò le ciabatte a muso di panda e si avvicinò alla porta, accompagnata dall’ennesimo tuono che fece vibrare il vetro, preannunciando un temporale in avvicinamento, facendola sentire in colpa per non essersi recata in Università a causa dei forti crampi allo stomaco. I suoi genitori non avevano detto una parola; suo padre perché era sempre stato incline ad assecondare le figlie e sua madre perché era anatomicamente una donna e le comprendeva.
Arrancando lungo le scale – che parevano infinite – con addosso il suo pesante pigiama decorato da alcune nuvolette – al contrario della sorella che sceglieva sempre dei pigiami in tinta unita, che la facevano sembrare una giovane Lady inglese, lei amava le grafiche su quegli indumenti –, si diresse in cucina.
«Rein, tesoro» la salutò la madre, «stavo preparando del tè, ne vuoi un po’?», domandò poggiando il pentolino sul fornello, aggiungendo un’ulteriore tazza d’acqua alla risposta affermativa della figlia, che si era accomodata sul tavolo poggiando stancamente il capo sulla superficie.
«Vuoi che passi in farmacia a prenderti qualcosa che allievi il dolore?», chiese posandole delicatamente una mano sulla fronte, constatando con sollievo che non le era salita la febbre.
La turchese scosse la testa. «La pancia non mi fa più così male, anche se mi sento ancora un po’ debole. Ho come uno strano presentimento».
«Può essere mal d’amore, sai?»
«Mh?» mugolò la giovane sollevando il capo, mostrando alla genitrice delle occhiaie che avrebbero fatto impallidire persino un panda.
«Forse dovresti prendere alcune gocce di verbena per conciliare il sonno», le propose Elsa ruotando un poco il pentolino in concomitanza con la comparsa delle prime bollicine d’acqua. «Esatto, mal d’amore», riprese il discorso lasciato in sospeso, «sai quando sta per succedere qualcosa che non ti aspetti, o che inconsapevolmente sai sta per avvenire, il tuo corpo si prepara in anticipo; lo sente», continuò togliendo il pentolino in acciaio dal fuoco, versando il contenuto bollente dentro le tazze. Infine aggiunse le bustine aromatiche e portò le ceramiche sul ripiano di legno.
«Allora, era da un po’ che volevo chiedertelo, come è andato l’appuntamento con Shade?», domandò con un luccichio di pura malizia negli occhi, sorseggiando la tisana.
«Non era un appuntamento», precisò la figlia circondando la tazza fumante con le dita.
«Da quello che ho visto sembrava proprio un appuntamento in piena regola», replicò la donna usando, volutamente, un tono malizioso atto a provocare la secondogenita.
«Mamma» la riprese la ragazza indignata, sorseggiando il liquido caldo che le ravvivò il volto più pallido del solito. «Comunque non era un appuntamento per il semplice fatto che non stiamo insieme, non è il mio ragazzo è solo… un amico».
«Lo sapevo» mormorò Elsa dopo qualche secondo di silenzio. «Rein, potrai ingannare chiunque, ma non me; mai. Sai come ho cominciato ad uscire con tuo padre?», la ventenne scosse il capo interessata alla piega che stava prendendo il discorso, «dopo averlo costretto a fingersi il mio ragazzo».
La turchese spalancò gli occhi: sua madre aveva veramente attutato un piano simile al suo? Che anche lei si fosse innamorata di un professore o di qualcuno che i nonni non avrebbero mai approvato?
«Sai come è fatto tuo nonno; lui avrebbe sicuramente puntato su qualcuno come Randa, ma io ero innamorata di tuo padre sin dalle superiori e a quei tempi lui stava ancora con quell’arpia – perdonami, mi ero ripromessa di non appellarla più in questo modo – di Camelia. Io proprio non la sopportavo, si credeva, e si crede tutt’ora, superiore agli altri, mi chiedo come faremo quando Fine e Bright decideranno di mettere su famiglia… comunque, quando seppi che si erano lasciati, l’estate prima di entrare in Università, convinsi Toulouse a fingersi il mio ragazzo così da aiutare Randa a dichiararsi ad Elena. Inizialmente parve abbastanza titubante e per un’istante temetti che non avrebbe accettato, mandando in fumo tutto il mio piano per farmi notare, invece…», la donna sospirò sorridendo teneramente, «alla fine eccoci qua, sposati e con due splendide figlie. Rein, nemmeno tua sorella sa di questa storia: ho voluta raccontarla a te perché caratterialmente tu assomigli a me più di quanto lo sia Fine sul piano fisico».
La ventenne espirò, sorridendo divertita; aveva sempre pensato che sua madre fosse un genio del male.
«Quindi, stai cercando di dirmi che io e Shade finiremo per sposarci e procreare?»
«È possibile», sussurrò con tono sapiente la donna, osservando la figlia con estrema dolcezza.
 

 
*

 
Rein sospirò scostandosi con fastidio una ciocca di capelli dal volto visibilmente pallido e stanco che – nonostante la terra con cui si era accuratamente coperta il viso – appariva di un colorito leggermente giallognolo accentuando, a sua detta, la somiglianza con un qualsiasi personaggio dei Simpson. Si adagiò meglio contro il rigido, e scomodo, schienale della sedia serrando le labbra e strizzando un poco gli occhi verde-acqua che vennero velati da un sottile strato di acqua, mentre le braccia andavano a circondarle velocemente il ventre e le mani si stringevano con forza attorno ai fianchi per contrastare l’improvvisa fitta che le stava attraversando l’addome, percorrendolo da parte a parte. Uscire quel giorno era stata una pessima idea, si ripeté per la seconda volta in soli cinque minuti, dando ragione alla saggezza della madre, afferrando il labbro inferiore con i denti. Ed il tè che aveva ordinato ci stava impiegando troppo a giungere al suo tavolo, continuò consapevole di avere compiuto l’ordinazione solo pochi minuti prima.
Rilasciò lentamente, con il timore di avvertire un’altra fitta, il fiato che aveva trattenuto, massaggiandosi con un lieve movimento circolare – in senso antiorario, come aveva appreso grazie ad anni ed anni di esperienza – l’addome, prima di sbloccare lo schermo del cellulare che aveva malamente poggiato sul ripiano ed entrare nell’ultima chat che aveva avuto con lui, la prima della cronologia di WhatsApp.

 
Dove sei?
 
Digitò rapidamente. Solo dopo avere inviato il messaggio si rese conto di quanto fredda potesse apparire quella semplice domanda; infondo anche lei gli aveva chiesto d’incontrarlo, obbligandolo quasi ad uscire con quel tempo, pensò soffermandosi a guardare la strada completamente bagnata ed i pedoni che camminavano velocemente tenendo ben stretta l’impugnatura degli ombrelli. Mentre ponderava se inserire un emoticon sorridente, in evidente contrasto con il suo umore, arrivò la risposta del ragazzo, altrettanto fredda.
 
Cinque minuti e sono lì.
 
Bene, ti aspetto: stesso posto dell’ultima volta.
Ho ordinato anche per te ^^
 
Caffè, vero? =)
 
Certamente!
 

 
Con un sospiro liberatorio posò il cellulare sul tavolo e sorrise alla cameriera che le stava venendo incontro con un vassoio tra le mani.
«Grazie», sussurrò afferrando la tazza di ceramica color verde persiano che le porgeva, avvertendo subito il calore della bevanda propagarsi sui palmi, riscaldandola.
La donna le sorrise poggiando l’altra tazzina di fronte al posto vuoto davanti a lei. «Dovresti essere tu a farti attendere», le disse dolcemente poggiando dei biscotti cosparsi di zucchero a velo, la specialità del locale, in mezzo al tavolino.
La turchese ridacchiò appena, «ormai ci sono abituata» rispose portando il bordo del bicchiere fra le labbra aspirando una piccola quantità del liquido fumante, che le scaldò subito la trachea e lo stomaco, dandole sollievo dal dolore che provava da quella mattina.
«Abituata a cosa?», domandò l’uomo, dai capelli leggermente fradici, che si era appena affiancato alle due donne con il cappotto – bagnato, aveva constatato Rein – appoggiato sull’avambraccio.
«Vi lascio. Cara, ora capisco perché glielo fai passare», disse ammiccandole sotto lo sguardo spaesato di Toma e quello divertito di Rein, che si lasciò andare ad una lieve risata.
«Cosa mi sono perso?», chiese curioso l’argenteo prendendo posto dinanzi alla tazzina ricolma di liquido scuro, ringraziandola con un lieve sorriso.
«Niente», rispose sorseggiando la tisana. «Niente, davvero» continuò posando la tazza sul tavolo, senza staccare le mani da quella fonte di calore.
«Fingerò di crederci», mormorò scrutandola attentamente, «non ti ho vista in Università, stai bene?».
«Sì» annuì la ventenne, abbassando gli occhi sulla fetta di limone, da cui derivava il profumo che aleggiava intorno al tavolo, posata sul fondo della tazza.
Stettero qualche minuto in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, a godersi il brusio del locale, il piacevole scampanellio della porta ad ogni persona che entrava, le risate divertite e rilassate, fino a quando non alzarono gli occhi incrociando le iridi: l’azzurro, freddo quanto il ghiaccio, si fondeva perfettamente nel calore del verde-acqua.
Non ci fu bisogno di ulteriori parole, entrambi capirono di non potere attendere oltre.
Era arrivato il momento.
Il momento della verità.
Il momento delle risposte.
Il momento che ambedue avevano cercato, per quanto possibile, di evitare, fuggendo da qualsiasi discorso avrebbe potuto condurli al bivio.
Rein deglutì, cominciando ad accarezzare distrattamente il manico della ceramica, senza distogliere lo sguardo da quegli occhi che l’avevano tanto incantata; quegli occhi che aveva imparato a conoscere, ad amare in ogni loro sfumatura e che ora le parevano diversi, più… consapevoli. Coscienti di qualcosa che ancora le sfuggiva, o che forse non voleva ammettere.
«Mi dispiace averti chiesto di uscire, con questo tempo poi» aggiunse scusandosi l’argenteo, poggiando la tazzina bianca sul piattino, «ma avevo bisogno di parlarti, d’incontrarti per parlare a quattrocchi e…».
«No, non scusarti», lo interruppe la turchese sentendo i battiti del suo cuore accelerare gradualmente ad ogni parola che pronunciava. «So già, o meglio, penso di sapere quale sarà l’argomento di questo incontro, dopotutto è lo stesso locale della nostra prima “bevuta” insieme, no?», continuò cercando di alleggerire un po’ l’atmosfera che stava diventando sempre più pesante.
«Già», sospirò l’uomo, «è inutile girarci attorno e tu sei fin troppo perspicace. L’altra… l’altra volta non avevi voluto domandarmi niente, ma credo che ora sia il caso di farlo, di chiedermi tutto ciò che vorresti sapere sulla relazione da cui mi hai tirato fuori».
Tirato fuori, si ripeté la ragazza mentalmente. Toma sceglieva sempre con cura le parole che usava e, proprio come Lione, dava grande significato a ciascuna di esse. Tirato fuori poteva equivalere solo a salvato. Che Fine avesse ragione? Che il loro non fosse amore? Che si trattasse solo di un’illusione?
«Come si chiama?», chiese a bruciapelo, quasi quella domanda fosse pronta sulla punta della sua lingua da una settimana e due giorni.
«Eliza».
Rein annaspò alla ricerca d’aria. Eliza? Quella Eliza?
Sentì chiaramente il cuore fermarsi per attimo, per riprendere poi a battere con un ritmo più serrato di prima. «La sostituta della dottoressa Olivia? La nuova insegnante di Letteratura Giapponese?» chiese con una nota stridula nella voce.
Non poteva competere con lei.
Lei non avrebbe mai vinto, El… Eliza era perfetta sotto ogni aspetto: colta, bella, divertente, comprensiva e…
Deglutì a vuoto, sentendo la gola secca.
Era perfetta per lui.
Sollevò lo sguardo su Toma, scrutando a fondo le iridi chiare ed ebbe la risposta che aleggiava tra di loro sin da quando quel confronto era iniziato.
«Rein, io…», provò a dire il ventinovenne senza sapere esattamente quali parole usare; stava ferendo la ragazza seduta di fronte a lui e, dopo tutto quello che avevano passato insieme, non lo meritava.
«La ami ancora?»
«Io… no», espirò, «no. Non l’amo, ma le voglio bene. È pur sempre un’amica».
«Mi ami?», si lasciò sfuggire come se le sue tremanti corde vocali volessero porla dinanzi la verità. Il cuore sobbalzò, il respiro rimase bloccato nei polmoni e tutto il suo corpo si tese in attesa della risposta che avrebbe determinato il futuro della loro relazione.
Le dita si strinsero con maggiore forza attorno alla tazza tiepida, mentre il silenzio rimbombava rumorosamente nella sua mente.

 
*

 
Shade sospirò sconsolato, osservando l’atlante aperto ed inerme accanto al libro di anatomia umana, su cui, teoricamente, avrebbe dovuto studiare in quell’ora buca.
Eppure, non era riuscito a concentrarsi, colpevole anche la strana sensazione che avvertiva fin da quando si era svegliato. E l’ultima volta che aveva provato quella sgradevole percezione, l’oggetto delle sue riflessioni era stata una donna.
L’ennesimo sospiro di quella giornata gli sfuggì dalle labbra, mentre il pensiero tornava a Rein: la ragazza era stata categorica, non doveva intromettersi nella sua vita privata. Tuttavia qualcosa lo induceva a pensare che le sarebbe servito il suo aiuto, non solo per affrontare Mirlo, la quale a giudicare dal comportamento di Pastel non aveva ancora messo al corrente il fidanzato, ma anche per uscire dalla situazione in cui si sarebbe ritrovata ben presto, perché lui lo sapeva bene, gli amori nati così, per puro caso, non duravano per sempre come nelle favole che raccontava a Milky.
Chiuse velocemente i libri di testo e con passo felpato uscì dall’aula, camminando senza alcuna fretta verso la sua meta, osservando i tuoni infuriare insieme alla pioggia che cadeva scrosciante al suolo ed al vento che muoveva violentemente le fronde degli alberi ormai spogli.
«Mirlo», chiamò non appena intercettò la ragazza, senza curarsi di avere interrotto la conversazione che stava intrattenendo con una ventenne dai capelli aranciati.
«Lo conosci?», la sentì bisbigliare, osservandolo attentamente.
«Shade», lo salutò la solidago con un sorriso, senza nascondere la scintilla maliziosa che le aveva attraversato gli occhi ametista. «Lione, lui è Shade, il migliore amico di Pastel. Shade, lei è Lione, una delle mie migliori amiche».
«Piacere», mormorarono simultaneamente i due ragazzi, senza accennare a stringersi la mano.
Mirlo sorrise e, dopo qualche secondo di silenzio, decise d’interrompere quel momento di analisi reciproca. «Ehm… come è andato l’appuntamento con Rein?»
«Non era un appuntamento».
«Appuntamento? Con la nostra Rein? Quando pensavate di dirmelo? E perché ho il sospetto che tu, mia cara Mirlo, sia implicata?» domandò Lione, osservando i visi dei due ragazzi: impassibile quello del cobalto e colpevole quello dell’amica.
«Io… no. Gli ho solo dato il…», provò a spiegare la ragazza, venendo interrotta prontamente dall’arancione.
«Lo sai, vero, che lei sta con Toma, no?», domandò calcando il nome dell’uomo. «Allora perché le hai organizzato un appuntamento con un tizio che non avrà mai visto?»
«Si conoscono», si difese la solidago imbronciandosi: davvero la credeva capace di organizzare un appuntamento al buio con un perfetto sconosciuto?
Lo sguardo di Lione, ardente per essere all’oscuro della faccenda, si spostò sulla figura maschile, che ricambiò l’occhiata.
«Ci siamo incontrati in un supermercato e sua madre mi ha scambiato per il suo fidanzato», rispose con disinteresse. «Comunque, vorrei saperlo pure io, esattamente come… Lione, giusto?», chiese rivolgendosi alla ragazza, «a cosa punti?».
Prima che Mirlo potesse rispondere, la vibrazione di un cellullare interruppe l’atmosfera carica di tensione che si era creata.
Shade tirò fuori il telefono dalla tasca dei pantaloni ed osservò il messaggio che faceva bella vista sullo sfondo nero del display.

 
Scusa se ti disturbo: posso vederti? Ti prego.
 


 
 
Note dell’Autrice:
Buonasera,
finalmente, dopo mesi e mesi, sono riuscita a rifinire questo capitolo, elidendo alcune parti che avrebbero rappresentato dei grandissimi spoiler! ed inserendo alcune descrizioni che ad una prima stesura non avevo inserito, e spero in questo modo di essere riuscita a farvi percepire le sensazioni che provano Toma, Eliza, Elsa, Rein, Lione, Mirlo e Shade.
Direi che è il momento di dirvi che dai prossimi capitoli si entrerà di più all’interno della vicenda, ma – ahimè – non so quando e come riuscirò a scriverli. Per chiunque volesse continuare a seguire la storia, nonostante i miei innumerevoli ritardi, sappiate che ho tutta l’intenzione di concluderla: fosse anche l’ultima storia che porterò a termine all’interno della sezione.
Ultimamente mi sono dedicata a vari Contest, tra fanfiction da scrivere e recensioni da lasciare, non ho avuto tempo per prendere in mano questa storia a cui tengo molto perché è un modo per sfogarmi ed in ogni capitolo inserisco sempre un pezzetto di me, sperando che questo possa raggiungervi.
Questa volta ho inserito un chiaro riferimento potteriano – eheh, l’avete già trovato? – ed un riferimento ai Simpson, colpa di mio fratello.
Per quanto riguarda la situazione tra Eliza e Toma, direi che può considerarsi conclusa, invece, quella di stasi tra Toma e Rein è appena stata violentemente scossa, ma sta a voi – perché io so già cosa accadrà – dirmi come pensate che finirà, anche se credo, sottolineo credo, di avervi già dato tutti gli elementi indispensabili per giungere alla conclusione.
Per quanto riguarda Shade, avete notato che entra in scena spesso? Ebbene, d’ora in poi potrebbe divenire effettivamente un co-protagonista, ma non aspettatevi che le cose tra chi so io evolvano così velocemente: date tempo al tempo.
E niente, sappiate che è stata una faticaccia sistemare l’html dei dialoghi su WhatsApp, ma era necessario cambiare la formattazione, altrimenti non avreste capito niente, credo. Oppure sono io che sono semplicemente troppo pignola.
Per quanto riguarda il titolo, ho voluto darvi un indizio su ciò che vi sareste ritrovati dinanzi una volta aperto l’aggiornamento e spero di avervi aiutati. In realtà, al momento non so se scappare o meno, e vorrei tanto vedere le vostre espressioni facciali – chissà quante ne avrete assunte, sempre che io abbia fatto bene il mio lavoro.
Concludo, perché ho veramente poco tempo, ringraziandomi per il sostegno che mi mostrate e dicendovi che non ho la più pallida idea di quando aggiornerò, ma sicuramente quando avrò un po’ di tempo, ma al momento questo mi manca. La sera, tra l’altro, faccio anche fatica ad addormentarmi per una serie di fatti che non sto qui a raccontarvi.
Grazie infinite per il vostro sostegno, l’appoggio e l’entusiasmo che mostrate ad ogni capitolo, ♥
Himeko
  
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