Nightmares Are Back
4
Quel
mattino, prima di varcare la porta d’ingresso della scuola, Ethan sospirò. Solo
il giorno prima si trovava al parco, immerso nella pace di quella vacanza
improvvisata, e adesso quasi rimpiangeva che la durata della sua sospensione
fosse scaduta. Sapeva che, molto probabilmente, gli energumeni con i quali
aveva avuto a che fare si sarebbero presto fatti avanti di nuovo: tipi come
quelli non demordevano con facilità, e l’orgoglio quasi animalesco che
caratterizzava quel genere di persone era facile da ferire, ma assai duro da placare
una volta provocato. Pazienza, voleva dire che li avrebbe picchiati di nuovo, e
poi sarebbe stato sospeso di nuovo, e poi sua madre gli avrebbe di nuovo fatto
quel bel discorso sulla giustizia che ormai conosceva a memoria. In fondo, la
sua vita era assai prevedibile.
Quasi
non prestò attenzione alle lezioni. Dal suo banco vicino la finestra osservava
il giardino della scuola tingersi dei colori dell’autunno. L’erba dei vialetti
ingialliva e si piegava sotto le sferzate del vento freddo, e le chiome
verdeggianti degli alberi assumevano quella sfumatura rosso-oro che ad Ethan
era sempre piaciuta. Gli piaceva l’autunno, il preludio dell’inverno, il
momento in cui la vita rallentava il suo ritmo prima di morire per rinascere
più bella che mai una volta tornata la primavera.
Alcune
foglie morte avevano iniziato un girotondo sotto alcuni alberi quasi del tutto
spogli. Credete che le foglie cadano dagli alberi una volta morte, per cause
del tutto naturali? Ethan non la vedeva a quel modo: sui rami di quegli
scheletri legnosi poteva, infatti, distinguere con chiarezza alcuni puntini
luminosi che si aggrappavano agli steli delle foglie o ci saltavano sopra, e le
utilizzavano per scendere da quell’altezza. Erano fate, piccole fate che, a
quanto pare, si divertivano a giocare con ciò che la natura riteneva ormai
inutile.
Era
strano pensare che in quella stanza, oltre a lui, nessuno potesse vedere quelle
creature. Per gli altri ragazzi non c’era nulla di strano o fantastico nelle
foglie che cadevano in autunno. Ethan si era chiesto tante volte perché lui
potesse vedere gli esseri fatati e gli altri ragazzi invece non vedevano nulla
al di fuori dell’ordinario. Aveva forse qualcosa che non andava? Erano
allucinazioni dovute alle troppe favole o ai suoi sogni ad occhi aperti, o
c’era qualcosa di più? Una cosa era certa: per il mondo le fate, o i folletti,
o gli unicorni e tutte le altre creature non esistevano, erano semplici frutti
del folklore popolare, erano simpatici disegni su carta per far divertire i più
piccoli.
Eppure Ethan
era sicuro di vederli, proprio come voi vedreste le vostra mano se solo
provaste ad avvicinarla al viso. Dunque cosa significava quello? Aveva sentito
e letto di molte persone ritenute “pazze” perché sostenevano di essere venute
in contatto con strani esseri del regno fatato. Lui era forse pazzo? Se era
così, allora si era fatto un’idea del tutto sbagliata sulla pazzia. Credeva che
fosse una cosa orribile, una malattia inguaribile in cui i sogni più angosciosi
prendevano il posto della vita reale. Se essere pazzo significava invece poter
vedere strani esserini luccicanti saltellare sulle foglie… bè, quella era tutta
un’altra storia.
Si
chiese come funzionasse la gerarchia delle fate: quelle che stava vedendo in
quel momento erano fate dell’autunno, e poi sarebbero arrivate le fate
dell’inverno e così via per tutte le stagioni? Ma le fate potevano morire?
Aveva letto libri alquanto contraddittori sull’argomento: alcuni volumi
dicevano che le fate erano immortali, mentre altri puntualizzavano che bastava
un nulla per farle svanire. Certo, sarebbe stato interessante chiedere
direttamente a loro, ma Ethan non osava immaginare cosa sarebbe successo se
qualcuno l’avesse visto parlare all’apparenza solo con un ramo spoglio. E poi
cosa ne sapeva, lui, di come si avvicinavano le fate? Potevano non essere tutte
socievoli, e aveva letto che alcune erano talmente schizzinose da lanciarti
addosso maledizioni che duravano per tutta la vita.
Ethan
si accorse che i suoi compagni lo guardavano con una sorta di timore che mai
aveva notato prima. Di tanto in tanto sorprendeva qualcuno voltato nella sua
direzione, che subito distoglieva lo sguardo non appena veniva colto in
flagrante.
“Ma che
diamine si aspettano?” si chiedeva contrariato. Tutte quelle attenzioni gli
davano ai nervi “Non mi metto mica a picchiarli senza un motivo!”.
Era
stupido, pensava, il modo in cui certa gente reagiva alle notizie. I suoi
precedenti erano ormai noti nonostante avesse tentato di tenerli nascosti,
quindi in pratica una buona parte dei ragazzi dell’istituto sapeva ormai che
era stato cacciato dalle altre scuole a causa delle risse nelle quali era stato
coinvolto. E ovviamente nessuno andava a chiedergli se, in quelle risse, lui
avesse avuto ragione o torto o se le avesse scatenate per una giusta causa o
solo per il gusto di imbrattarsi i vestiti di sangue.
Alcuni
insegnanti, invece, lo guardavano con severità, e il personale scolastico lo
squadrava con diffidenza. A volte Ethan si chiedeva il perché la gente fosse
tanto superficiale, perché credesse solo alle prime impressioni invece di
cercare di capire di più rispetto ad una persona o una situazione.
Il
mondo degli adulti gli sembrava così finto e ipocrita, e a dirla tutta lui non
aveva l’intenzione di diventare un adulto come quelli che conosceva. Quando era
piccolo l’idea di crescere lo spaventava addirittura: vedeva troppe cose in tv,
vedeva di uomini che litigavano e si uccidevano l’uno con l’altro, vedeva di
coppie felici che finivano per autodistruggersi e vedeva fratelli combattere
contro fratelli. Quando era bambino quel mondo lo spaventava. Non voleva
diventare un adulto pronto a sacrificare i propri prìncipi in favore degli
scopi personali, e non voleva perdere la felicità che caratterizzava
l’infanzia. Era questo che pensava da piccolo: pensava che, man mano che si cresceva,
i sentimenti che facevano di un animo un buon animo andassero perduti, e che al
loro posto si radicassero violenza e falsità. Questo perché gli adulti non
avevano più fantasia e non erano capaci di seguire i propri sogni, aveva sempre
pensato. Lui non voleva perdere quel dono e diventare un adulto grigio e triste
come i tanti adulti grigi e tristi che già popolavano il mondo.
Quindi,
alle occhiate di indifferenza o indignazione che lo seguivano rispondeva sempre
con un mezzo sorriso, o non rispondeva affatto. Anche quel sorriso, tuttavia,
turbava la gente. La maggior parte dei ragazzi dell’istituto iniziava a
ritenerlo un criminale, un piccolo delinquente disadattato e sociopatico, il
che a dirla tutta non era molto lusinghiero. Ma ad Ethan andava bene anche
così: ormai era abituato a stare solo.
La
campanella suonò in quel momento annunciando l’inizio della ricreazione. L’aula
si svuotò in fretta e i suoi compagni lo lasciarono lì seduto a guardare fuori
dalla finestra, senza neanche provare ad avvicinarsi e chiedergli se volesse
fare un giro con loro.
Solo
quando Ethan vide una figura uscire da uno dei portoni che davano sul giardino
scattò in piedi: non si era sbagliato, era lo scricciolo, il ragazzino che
aveva “salvato” dai bulli pochi giorni prima. Il ragazzo lo vide andare a
sedersi sul muretto che recintava il campo da calcio; era solo anche lui. Aveva
i capelli biondi e mossi in una cascata di onde d’oro, e dietro un paio di
occhiali dalla montatura rettangolare i suoi occhi erano di un color
grigio-verde, un colore che Ethan aveva visto raramente ma del quale era sempre
stato invidioso: quanto avrebbe voluto avere gli occhi di quel colore invece
che del suo banale color nocciola!
Il
ragazzo uscì dalla classe ormai vuota e si diresse al piano di sotto, le mani
in tasca e la testa ben alta. Una volta fuori si diresse nel punto in cui aveva
visto il ragazzo biondo dalla finestra, e si issò sul muretto a sua volta con
un agile salto. A vederlo, l’altro aveva sussultato e si era ritratto come se
temesse – sorpresa sorpresa – di venire aggredito.
Adesso lo guardava di sottecchi, intimidito. Una spruzzata di lentiggini gli
colorava le guance e il naso all’insù.
Ethan
sorrise, incrociando le gambe sul muro –Tu sei Samuel, vero?-
Il
ragazzino si guardò intorno; probabilmente sperava ancora che non parlasse con
lui.
Ad
Ethan scappò una risata –Hei, è con te che parlo. Che hai, guarda che non ti
mordo mica-
Lui
storse per un attimo le labbra, indeciso –Sì, sono Samuel. Sam. Senti, mi dispiace…-
-Nah, lascia perdere- lo interruppe Ethan –non sono qui per
avere delle scuse. Sarebbe presuntuoso da parte mia, quindi non perdere tempo
con il galateo-
Samuel
sembrò confuso –Oh… bè, d’accordo. È solo che mi sentivo in colpa, ecco, per
quello che è successo. Se non fosse stato per me non ti avrebbero espulso-
-Se non
fosse stato per te- precisò lui –sarebbe stato per qualcun altro. Acqua
passata, davvero-
Sam
annuì, ma era come se non credesse alle sue orecchie. Era molto riservato, notò
Ethan, il suo esatto opposto: lui non ci metteva più di tanto a rompere il
ghiaccio con qualcuno.
-Perché
quelli volevano picchiarti?-
Chiese
ancora, alimentato dalla curiosità. Nel corso degli anni aveva imparato che
c’erano un’infinità di motivi perché i bulli picchiassero gli altri ragazzi:
poteva essere semplice razzismo nei confronti dei molti figli di immigrati
stabiliti nel paese, poteva essere gelosia verso il più bravo della classe o
altre mille possibilità.
Il
ragazzino incassò la testa tra le spalle e scrollò il capo, a disagio –Nulla di
che. Non… non mi crederesti-
-Andiamo,
a me puoi dirlo!-
Samuel
scosse ancora la testa. Si guardò di nuovo attorno, la marea di studenti che
aveva invaso il cortile era cresciuta rapidamente e un vociare sempre più
intenso aveva riempito l’aria. Solo attorno a loro si era formato uno spazio
vuoto, e nessuno sembrava notarli.
Due
ragazze, sotto un albero, chiacchieravano e commentavano qualcosa sul cellulare
di una delle due; avevano le teste accostate l’una all’altra, e Sam vide un
puntino luminoso sfrecciare un po’ attorno a loro e ricavare una treccia dalle
ciocche di capelli di entrambe. Gli scappò un sorriso: non appena avessero
provato ad allontanarsi di certo si sarebbero scambiate una bella testata.
-L’hai
visto anche tu?-
Ethan
aveva seguito la direzione del suo sguardo e aveva osservato la scena a sua
volta. Senza un perché il cuore aveva iniziato a battergli forte nel petto: non
c’era ragione perché Samuel avesse dovuto fissare proprio quelle ragazze in
mezzo alle decine di studenti in giardino; a meno che non avesse visto quello
che aveva visto lui, ossia una fata burlona giocare un tiro mancino a due
fanciulle ignare. Ethan aveva letto centinaia di storie simili.
-Che
cosa?-
Sam era
passato sulla difensiva, ma lui non aveva certo intenzione di lasciar cadere
l’argomento. Aveva forse trovato qualcuno che poteva vedere ciò che sfuggiva
alla maggior parte dei loro coetanei, e non poteva certo negare l’evidenza.
-La
fata, scemo-
-La
fata?-
-Samuel-
Ethan calcò il tono –ci tengo a mettere in chiaro una cosa: non sono uno
stupido e men che mai un pazzo, per cui non guardarmi con quella faccia. E ora
rispondimi: l’hai vista quella fata?-
Il
povero Sam sembrava disperato. Non poteva sfuggire allo sguardo indagatore
dell’altro ragazzo, e per natura non era mai stato bravo a mentire. Per cui,
con un sospiro, annuì con un cenno appena percettibile.
Il viso
di Ethan si illuminò –Ma è fantastico!-
-No che
non è fantastico!- fu la replica indispettita –La gente ti prende per pazzo
quando dici di vedere certe cose. Ecco perché volevano picchiarmi, se proprio
lo vuoi sapere: avevo solo informato quei ragazzi che un folletto aveva
allagato i bagni. E quello è stato il risultato-
-Ma tu
non devi certo dire a tutto il mondo che vedi le creature fatate!-
-Perché,
tu non l’hai mai detto a nessuno?-
-A mia
madre, un paio di volte. Ma ero piccolo e credeva che scherzassi. È il mio
segreto. Il nostro segreto, a questo punto-
Samuel
agitò una mano come per dire di aspettare, quasi avesse inteso in quel momento
ciò che Ethan gli aveva detto –Insomma, li vedi anche tu? Cioè… hai visto anche
tu una fata o quello che è fare una treccia ai capelli di quelle ragazze?-
-Proprio
come vedo te adesso-
-E… è
normale? Insomma, non voglio dire normale, è… cos’è?-
-Non lo
so. Ma di certo è qualcosa di particolare, anche se ancora non so cosa
significa-
-E tu-
Samuel prese coraggio –li hai sempre visti? Folletti, unicorni… sono reali, o
abbiamo qualcosa che non va?-
-Li ho
sempre visti, da quanto ricordo. Credo che… non so come spiegarlo. Tu hai
sempre creduto nelle favole?-
-Bambini
che volano e principesse rinchiuse in torri diroccate? Da bambino credevo che
fossero reali. Ho pensato, sì, insomma, perché non potrebbero esistere in una
dimensione parallela, che a volte viene a coincidere con la nostra? Quindi
potrebbero anche essere reali-
-Dunque
secondo te è per questo che riusciamo a vederli? Perché ci crediamo?-
-Crediamo
che siano reali. E forse, grazie a questa convinzione in un modo o nell’altro
trovano il modo di manifestarsi. Almeno credo-
-Unicorni-
ripeté Ethan –prima hai detto unicorni. Hai mai visto un unicorno?-
-Bè,
una volta. Perché, tu no?-
Lui
scosse la testa, deluso. Poi si illuminò –Però ho visto Santa Claus-
-Andiamo!-
Samuel fece una risata nervosa –Questo non è vero-
Ethan
si imbronciò –Sì che è vero!-
-Va
bene va bene, calmati!- Sam sollevò le mani in segno di resa –Hai visto Babbo
Natale. Ok, perfetto. E com’era?-
-Come i
disegni sulle carte da regalo. Robusto, mantello rosso… aveva anche l’accento
russo-
-Caspita.
E la slitta? L’hai vista la slitta?-
Ethan
fu costretto a scuotere la testa. Stava per rispondere quando il suono
assordante della campanella lo interruppe. Gli sarebbe piaciuto rimanere a
parlare ancora con Samuel, era certo che avevano ancora molte cose in comune e
che, forse, insieme avrebbero potuto trovare una spiegazione a quella loro
particolarità.
Neanche
Sam sembrava molto entusiasta di tornare a lezione –Ti va se domani ci
vedessimo qui?-
Un
sorriso incurvò le labbra di Ethan, e fece cenno di sì con la testa. Sembrava
che la fortuna si fosse per una volta ricordata di lui.
******
“A darkness falls
over the land
Enslaves with a wave of its hand
And I try to see
The light through the disease
I tried to get up on my feet
Been so long, shackled down on
my knees
For somewhere deep
inside, I know
That fate favors the bold
So tonight, I’m riding a black unicorn
Down the side of an erupting volcano
And I drink, drink, drink
From a chalice filled
With the laughter of small children”
(Voltaire – Riding a Black Unicorn)
Dunque esistevano
ancora anime pure in quell’epoca.
Nel buio,
Pitch sorrise.
“Che
sorpresa…”.
Doveva trovarsi
in un luogo sotterraneo, un cunicolo sotto la città, o una cripta. Sì, era una cripta. Nascosto come i
vampiri nei vecchi cimiteri, evanescente come le ombre che nella notte vagavano
tra le lapidi. Era di nuovo così che si era ridotto. Un’ombra indesiderata,
destinata a essere dimenticata fino a svanire. Che fine crudele sarebbe stata,
quella. Che fine indegna. Era stanco di quei luoghi stretti e umidi. Era stanco
di nascondersi come un criminale braccato, ed era stanco dei secoli di speranza
che era stato costretto a vivere.
Speranza. Quanto gli
suonava sgradita, quella parola, quanto gli era odiosa. La speranza era solita
vincere sempre, quella era la dura legge. Ma la legge, la legge poteva essere
infranta, così come la speranza, soppiantata dal terrore e dalle tenebre.
L’umanità
stava svanendo lentamente, e questo poteva andare a suo vantaggio. I bimbi, i
dolci bimbi che le Leggende avevano il dovere di proteggere stavano diventando
sempre più ingrati, nient’altro che piccoli teppistelli scettici armati
soltanto di arroganza e disprezzo. Anche quello poteva essere un punto in suo
favore.
Pitch
Black sapeva che la speranza era molto più fragile da spezzare, e c’era
qualcosa che, in quel momento, poteva essere il sigillo al suo trionfo.
“Sì,
proprio tu. La cara, vecchia paura” –
la paura, la violenza, a quanto pare stavano per diventare i nuovi cardini di
quella civiltà ormai andata a male, e cosa, meglio della paura, poteva essere
un buon espediente per fondare un nuovo impero?
Chi ha
paura diventa spesso molto accondiscendente, e chi ha paura spesso accetta le
tue condizioni nella spesso vana speranza di venire risparmiato dall’orrore
tutt’intorno a sé. E chi ha paura spesso non ha la forza di combatterla.
Sarebbe
stato semplice, quindi, portare i bambini dalla propria parte con metodi molto
persuasivi seppur poco leali, e a quel punto la sua rinascita sarebbe diventata
realtà. I bambini, senza più la fede nelle fatine luccicanti o nei coniglietti
pasquali, non avrebbero avuto nulla a cui aggrapparsi per contrastarlo, e senza
più i bambini il fantastico mondo delle Leggende sarebbe definitivamente
sprofondato nell’abisso senza fondo della dimenticanza.
Tuttavia…
L’Uomo
Nero passeggiava avanti e indietro nell’oscurità come un animale in gabbia,
inquieto nonostante quei gloriosi propositi tanto vicini alla realizzazione del
suo piano.
Tuttavia
esistevano ancora delle eccezioni. Preziosi ragazzini che, nonostante tutto, si
tenevano ancorati al mondo della fantasia e non erano intenzionati a perdere
quell’immaginazione a Pitch tanto sgradita.
Il vero
problema erano loro, loro erano gli unici ostacoli da eliminare. Quello tuttavia
sarebbe stato semplice: cosa c’era che i suoi Incubi non potessero fare?
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Olalà!
Ragazzi, sono commossa, sto aggiornando più in fretta del
previsto *^*9
Dunque eccoci qui con un capitoletto un po’ più lungo, ed ecco
finalmente Pitch che da bravo cattivo sta nella sua fogna (?) a progettare
piani criminali. Che carino, no?
Credo di non dover dire nulla per il momento, se non che pure io
voglio vedere un unicorno! *canta la
canzone degli unicorni di Agnes in Cattivissimo Me*
Ma comunque… ringrazio come al solito chi ha inserito la fic tra le Preferite,
Seguite o Storie da ricordare, e come sempre grazie per le belle recensioni
*-*
Ed è tutto, al prossimo capitolo!
Kisses,
Rory_Chan