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Autore: Naco    27/02/2009    1 recensioni
Un incontro, assolutamente casuale. E la ruota del destino comincia inesorabilmente a girare.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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- Questa storia fa parte della serie 'Mara e i suoi amici'
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II

C'erano due cose di cui ero assolutamente certa. Una era che quel ragazzo era Matsumoto. E l'altra che quello non poteva assolutamente esserlo. Ragionandoci un momento, avrei anche potuto pensare che potesse trattarsi di lui, se ci fossimo trovati a Milano, a Roma, o in qualche altra grande città che avrebbe potuto essere meta turistica o lavorativa per un cantante, per di più giapponese. Ma io ero a Bari. Una città abbastanza anonima, da quel punto di vista. Persino mia madre, quando le avevo detto che volevo studiare lì, mi aveva ribattuto che avrei potuto puntare a qualche altra città che offrisse qualche possibilità in più – nonostante Bari fosse la più vicina al mio paese natio. Non avevo mai visto un turista giapponese aggirarsi da quelle parti, e sicuramente non mi sarebbe capitato tanto facilmente neanche in seguito; San Nicola attirava per lo più russi, e il castello Svevo tedeschi, non certo persone provenienti da una zona così remota.
E poi, io sapevo che i personaggi famosi erano accompagnati da guardie del corpo, e non se ne andavano in giro da soli. Non che a Bari ne avesse così bisogno, visto che, in tutta la città, potevano contarsi sulle dita di una mano le persone che sapevano chi fosse Matsumoto Shin’ichi in patria; ragion per cui, effettivamente, la scorta non aveva alcun senso.
Anche io, del resto, facevo parte di quell’esigua minoranza solo per puro caso. Avevo trovato una sua foto navigando in internet alla ricerca di qualche CD di musica giapponese da regalare ad Ilaria per il suo compleanno, visto che anche lei aveva la mia stessa passione. Ricordavo di aver pensato che era davvero un gran bel ragazzo e che non sembrava essere un abitante del Sol Levante. Mi ero quasi dimenticata di lui, quando un giorno, notando l’elenco dei doppiatori di una serie che mi era particolarmente piaciuta e su cui stavo cercando del materiale, mi era balzato all’occhio il suo nome e l’avevo ricollegato alla foto vista in precedenza; così, più incuriosita che realmente interessata alla persona, avevo ascoltato alcune canzoni, scoprendo che mi piacevano molto; e da allora, ero diventata una sua ammiratrice.
In ogni caso, la signora aveva visto giusto: che fosse Matsumoto o meno, quella persona aveva tutta l'aria di cercare qualcuno, dato che si guardava in giro spaurita, come se non sapesse bene cosa fare, e mi fece una gran pena.
Pagai in fretta il mio regalo e uscii dal negozio. Ovviamente non ero io la persona che attendeva, perché non mi degnò di uno sguardo. In cuor mio, sperai che la signora avesse assistito alla scena e avesse capito che era meglio evitare di saltare subito a conclusioni affrettate – soprattutto quando poi risultano essere sbagliate.
Gettai ancora una volta un'occhiata verso il giovane e per un attimo i nostri sguardi si incontrarono. Perché, perché gli somigliava così tanto?
“Ehm… can I help you?”
Da dove mi era uscita quella domanda? Perché stavo parlando in una lingua che odiavo con un ragazzo che non conoscevo e che mi stava fissando come per dire: “Ma questa qua, cosa vuole?”
“Parlo italiano.”
Ecco, appunto. La mia prima discussione con un vero giapponese cominciava proprio bene.
“Ehm… scusa, credevo fossi un turista…” E in generale i turisti giapponesi parlano solo inglese, volevo aggiungere, ma mi fermai in tempo.
“E infatti sono un turista.”
Quel tizio cominciava a farmi innervosire. Decisamente era ora di andare e di smettere di fare una figura tanto stupida.
“Oh. Beh, scusami. Ti guardavi intorno e pensavo avessi bisogno di un aiuto. Scusami ancora.” ripetei, prima di voltarmi verso la stazione, decisa a dimenticarmi una buona volta di lui.
“Aspetta. Scusami, io… sì, cerco qualcosa. Sai dov’è l’università?”
Oh. Ecco che tutto si spiegava. Uno studente Erasmus. Ecco cosa ci faceva un giapponese a Bari. No, forse era anche più assurdo.
“Ah, sì. Vengo proprio da lì. C’è qualche facoltà in particolare che cerchi?”
“Non lo so. Cerco il professor Amani.”
Amani, Amani… dove avevo già sentito questo cognome? Chiusi gli occhi ed all’improvviso mi vidi davanti il professore di letteratura inglese che mi aveva firmato il verbale dell’esame, quasi tre anni prima. Ecco chi era.
“Ho capito, insegna inglese. Se vuoi, posso accompagnarti da lui.”
Il giapponese sgranò gli occhi incredulo: “Davvero? Non ti disturbo?”
“Non preoccuparti, mi è saltata una lezione, oggi.” tagliai corto: non era il caso di spiegargli che non aveva senso provare a riprendere il treno tanto presto, visto che era giornata di manifestazioni in tutta la città. “Solo che non so se lo troverai, dato che oggi non ci sono lezioni.”
“Non ti preoccupare. Mi sta aspettando.” rispose con una tale risoluzione nella voce, che non ebbi il coraggio di obiettare. Lo sguardo mi cadde sulla vetrina del negozio dove ero appena stata e non mi sorpresi nel notare che la proprietaria mi stava guardando con uno strano sorriso complice sul viso. Sbuffai: probabilmente stava pensando che, qualunque conclusione sbagliata avesse avuto in precedenza, la sua previsione era stata esatta.

Percorremmo i primi metri di corso Italia completamente in silenzio. Mentre camminavamo l’uno accanto all’altra, provai a studiarlo un po’ di sottecchi: più gli stavo accanto, più mi sembrava che la somiglianza con Matsumoto fosse sempre più marcata; nonostante ad un primo sguardo sembrasse il tipico giapponese – occhi a mandorla e capelli lisci e scuri – bastava osservarlo meglio in volto per notare un paio di bellissimi occhi verde scuro. Ma non era solo questo: c’era qualcosa, nella conformazione del viso, nel colore della pelle, in qualcosa, insomma, anche se non sapevo spiegarmi bene cosa, che mi portava a pensare che dovesse avere una qualche origine occidentale. Che, naturalmente, era la stessa constatazione che avevo fatto quando avevo visto Matsumoto per la prima volta. Inoltre, era più alto di me di almeno dieci centimetri e mi ricordai che, da quanto avevo letto in giro su internet, Matsumoto doveva avere più o meno quell’altezza. Ero tentata di chiedergli se non fosse davvero lui, ma qualcosa mi trattenne: sicuramente avrebbe pensato che mi ero interessata a lui e lo stessi aiutando non tanto per altruismo, quanto per farmelo amico per avere un autografo o qualcosa del genere. E, se non fosse stato lui, come era più probabile, che figura avrei fatto? Meglio evitare di pensarci.
“Sei uno studente Erasmus?” chiesi per rompere il ghiaccio. Dopotutto, era una domanda giustificata, no? Stava andando da un professore universitario, del resto.
“Erasmus? Cos’è?”
Decisamente avevo preso una cantonata.
“Studenti che decidono di studiare all’estero per un anno a cui vengono convalidati gli esami e le prove che fanno. Pensavo che lo fossi, visto che parli molto bene l’italiano e cerchi un professore universitario.”
Lui scosse la testa. “Niente di simile. Sono venuto qui semplicemente in vacanza.”
“Venire in vacanza a Bari? E cosa pensi di trovare?” chiesi.
Mi pentii subito della domanda: sapevo quanto i giapponesi fossero discreti, quindi immaginai che la mia constatazione dovesse averlo infastidito parecchio. Per un po’ non disse niente e stavo già per scusarmi con lui, quando riprese a parlare: “C’è… c’è una persona che conosco. Il professore Amani sa dove posso trovarla.”
“Ah.”
Mi astenni da ulteriori commenti, onde evitare di dire qualcosa che avrebbe potuto offenderlo.
“Conosco bene l’italiano perché l’ho studiato fin da piccolo.”
“Oh. Sapevo che in Giappone amano molto il nostro Paese, ma non credevo fino a questo punto!” scherzai.
“Beh, ci sono molti italiani in Giappone.”
Annuii distrattamente, mentre gettavo lo sguardo verso la piazza di fronte alla stazione centrale, ancora piena di manifestanti. Sospirai: non sarei tornata tanto presto a casa, quel giorno. Forse dovevo avvertire il signor Marcello…
Solo allora ricordai che, da quando avevo chiuso la chiamata in faccia a mia madre, quella mattina, non avevo più riacceso il cellulare. La tentazione di tenerlo ancora spento era forte, ma poi mi resi conto che quell’avventura inaspettata mi aveva completamente distolto dai miei problemi e che, forse, sarei stata anche in grado di sopportare una conversazione con lei su quell’argomento. Forse, eh.
Accesi il telefono e un secondo dopo me ne pentii: in meno di due minuti squillò almeno sette volte.
“Sei abbastanza cercata, noto.”
“Già.” non ero proprio in vena di scherzare: c’erano tre chiamate di mia madre, due suoi messaggi in cui mi chiedeva che fine avessi fatto e altre due telefonate di Ilaria. Esattamente le due persone che non volevo sentire. Tutta la simpatia nei confronti della mia genitrice era improvvisamente scomparsa.
“Qualcosa non va?”
“No, tutto bene.” Mentii.
Non finii neanche di parlare che il Canone di Pachelbel iniziò a riecheggiare nella strada. Lessi il nome sul display e sospirai:
“Pronto.” dissi rassegnata.
“Oh, finalmente, Stella! Dove sei? Perché hai il cellulare spento?”
“Sono all’università, mamma. Ho lezione. O pensi che devo tenere il telefono acceso anche quando seguo?”
“No, certo che no, solo che… ero preoccupata per te, cara.”
Sbuffai.
“Sto benissimo, mamma. Sono ancora viva, sono giovane e ho tutta la vita davanti. Posso provarci ancora.”
“Ma hai faticato così tanto! Mi… mi dispiace, ecco. Vorrei essere lì a consolarti…”
“Non ce n’è bisogno, te l’ho detto. Sto benissimo. E ora scusami, sta per ricominciare la lezione.” Chiusi, senza darle neanche il tempo di replicare.
Sentivo che mi stava guardando senza darlo a vedere, ma non mi fece domande e io gliene fui molto grata; tuttavia mi resi conto che avrei dovuto dire qualcosa: “Scusa per la brutta scena a cui hai assistito. Mia madre sa sempre cogliere il momento sbagliato per fare domande.”
Sorrise e un angolo del mio cervello registrò che anche Matsumoto, nelle foto, sorrideva in quel modo, ma non volli badarci. “Non ti preoccupare. Ti capisco perfettamente.”
Risposi al sorriso: probabilmente, la vita dei figli era uguale in qualsiasi parte del mondo.
Neanche due secondi dopo, il cellulare squillò di nuovo; guardai ancora una volta il display.
“Ciao, Ilaria.” Risposi con voce piatta.
“Mara, finalmente! E’ da stamattina che ti cerco!”
No, eh! Ancora un’altra allusione alla sera precedente e avrei iniziato ad urlare come un’ossessa, poco importa che la gente per strada mi avesse preso per una pazza sclerotica.
“Ilaria, sto bene, ok? Dateci un taglio, per favore! Non è successo niente di irreparabile, ci proverò ancora e ancora. E se non andrà bene, vorrà dire che non è la strada giusta per me, ok? Ma piantatela, per favore!”
Le parole mi erano uscite come un fiume in piena ed ero conscia di aver iniziato ad urlare. Non mi importava. Non mi interessava neanche che lui mi prendesse per psicopatica.
“Ehm… Mara, veramente… volevo solo chiederti se sai se domani c’è lezione.”
In un secondo, la mia furia si placò del tutto: “Eh?”
“Oggi,” proseguì lei, come se stesse parlando con una bambina di cinque anni a cui le cose andavano spiegate più volte “sapendo dello sciopero, non ho neanche tentato di raggiungere l’ateneo, ma Enrico mi ha detto di averti vista.”
“S… sì…”
“Perciò volevo sapere se si sa niente per domani.”
“Ehm… no… cioè… credo che domani estetica ci sia. Lo sciopero è solo oggi, no?”
“Saggia constatazione, Watson. Allora ci vediamo domani, ok?”
“S… sì”
Avevo bisogno di una vacanza, questo era certo.
“Mara?”
“Sì?”
“Va tutto bene. Non ti preoccupare di niente, ok?”
“Sì, hai ragione. Ci vediamo domani, allora.”
Chiusi la comunicazione e spensi il telefono: meglio evitare altre figuracce assurde per un po’.

Il dipartimento del professor Amani era al primo piano dell’ateneo, dalla parte opposta rispetto alle segreterie degli studenti. Non ero molto pratica di quella zona, visto che le aule e i dipartimenti che mi interessavano si trovavano per lo più al secondo piano; tuttavia, quello di lingue e culture europee era forse l’unico che interessava tutte le facoltà e per questo era anche molto frequentato dagli studenti che ponevano mille e più domande ai docenti.
Perciò, mentre percorrevo i corridoi che ci conducevano verso la stanza del professore, mi stupii non poco nel trovarlo quasi deserto; un secondo dopo, il pensiero che la manifestazione avesse attirato a sé anche molti studenti fu un motivo sufficiente per farmi ammettere che, in fondo, anche quel male non era del tutto nocivo.
“Siamo quasi arrivati.” Dissi. Da quando avevamo raggiunto l’università, qualcosa in lui era cambiato: non che prima fosse stato molto comunicativo, ma, all’improvviso, avevo avvertito una certa tensione nell’aria, il presentimento che qualcosa di molto importante, per lui, stesse per accadere. Probabilmente anche l’idea di avere accanto una possibile malata di mente non doveva essergli di molto conforto, ma feci finta di non pensarci.
Fu quando finalmente ci trovammo all’imboccatura del corridoio dove si trovavano i dipartimenti degli insegnanti di lingue che sentii qualcosa di caldo stringermi la mano con forza, quasi avesse paura di quello che sarebbe accaduto.
Sul momento, però, non ci badai più di tanto, perché a pochi metri da noi avevo intravisto il motivo per cui eravamo lì.
“Benedetta, perché sei qui?” stava dicendo il professor Amani ad una donna di fronte a lui, che ci dava le spalle “Ti ho già detto che te l’avrei portato, non potevi…”
“No, Saverio, non potevo. Non capisco perché non sia venuto direttamente da me, invece di chiamare te.”
“Non lo so. Ma se cerca me, non sarebbe meglio che tu l’aspettassi da un’altra parte?”
“Eccolo.” gli indicai l’uomo “Quell’uomo in giacca e cravatta è il professor Amani!”
Ma lui non parve prestare ascolto alle mie parole: era impallidito all’improvviso e fissava le due persone di fronte a noi come se avesse appena visto un fantasma.
“Haha-ue…”

Nello stesso istante in cui stavo per chiedere se avessi capito bene quello che aveva detto, o se piuttosto non fosse stato frutto della mia fantasia, la donna si voltò e ci vide.
Non ci fu bisogno di alcuna risposta: quegli occhi verde scuro, quella strana luce che vi si accese quando il suo sguardo cadde su di noi, quelle lacrime che affiorarono immediatamente, e quella tristezza velata di malinconia e di stupore furono più eloquenti di mille spiegazioni.
“Hiroshi…”
Ci fu un lungo, lunghissimo silenzio, carico di cose non dette che nessuno, oltre loro due, avrebbe mai potuto capire. Istintivamente, cercai di fare qualche passo indietro, per lasciarli soli, ma qualcosa mi bloccò: abbassai lo sguardo e i miei occhi caddero sulle mie dita che venivano strinte dalle sue.
“Sei cresciuto…” stava dicendo la donna “E’… è tanto tempo che non ci vediamo.”
Hiroshi non disse niente. La sua mano strinse ancora un po’ la mia, ma senza farmi male, lo sguardo immobile e duro come il ghiaccio.
“Come stai?”
Ancora una volta il silenzio cadde tra di noi. Il professor Amani non distoglieva l’attenzione dalla donna neanche per un istante e io mi sentii sempre più fuori luogo. Dovevo andarmene. Ma come?
“Bene.”
Ancora silenzio.
Vi è mai capitato di trovarvi in una situazione alquanto imbarazzante e l’unica cosa che desiderate è che si apra una voragine che vi ingoi e vi faccia sparire da lì? Ecco, mi sentivo nello stesso modo.
Gli occhi della donna, ancora velati di lacrime, caddero su di me e si illuminarono per un attimo: “E questa ragazza chi è? La tua fidanzata?”
Sentii le mie guance diventare calde, troppo calde. “No, ecco, veramente io…”
“E’ solo una mia amica.”
Silenzio. Ancora. Nonostante fossero già passati parecchi minuti, la tensione era ancora palpabile. Troppo.
“Hiroshi, Benedetta, perché non andiamo tutti insieme a prenderci un caffè per parlare un po’? Se vuole unirsi anche la tua amica…” la proposta gli era uscita con foga, troppa. Solo in quel momento compresi quanto quella situazione fosse imbarazzante anche per lui.
“Non ora, Saverio. Ero solo venuto a dirti che, se mi cerchi, alloggio al solito albergo, più o meno fino alla settimana prossima. Adesso sono stanco e vorrei solo riposare.”
Detto questo, finalmente mi lasciò la mano e si allontanò senza aggiungere altro.


Nota dell’autrice
Ovviamente, nonostante cerchi in tutti i modi di eliminare gli errori di battitura, chissà perché, questi spuntano come funghi (e spesso ci si mette anche Word che non collabora). Un grazie speciale va quindi a Maja per avermi fatto notare alcune sviste che ho tempestivamente corretto.
   
 
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