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Autore: Koa__    23/11/2015    3 recensioni
Un cadavere scomparso. Un fazzolettino ricamato e sul quale una mano ignota ha scritto una strana filastrocca. Una copia del libro: "Il giardino segreto" vecchia di anni, recante diciture confuse e incomprensibili. Misteriosi personaggi dai segreti inconfessabili, si muovono in un minuscolo paesino dello Yorkshire. In tutto questo, Sherlock Holmes, venuto assieme al suo fidato amico John Watson per far luce su di un curioso mistero, si comporta in una maniera assai strana.
[Blandamente ispirata al romanzo di Frances Hodgson Burnett: "Il giardino segreto"]
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti di un giardino segreto'
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Capitolo ventesimo
 



 
A villa Gilmore, John c’era rimasto molto più di quanto non avrebbe voluto. Erano già passate le nove e mezza, quando si era finalmente richiuso alle spalle la porta della pensione dei Pinkerton, crollandovi contro. Onestamente e per quanto amasse prendersi cura degli altri, non aveva mai odiato tanto il proprio lato altruistico. Lo stesso che, più volte, aveva definito come molto stupido. In più d’un occasione, John si era sentito profondamente diviso. Dopo che era stato costretto a separarsi da Sherlock, interrompendo un po’ troppo bruscamente un bellissimo bacio, si era sentito quasi dilaniato dal dubbio. Perché da una parte aveva l’uomo di cui era innamorato e con il quale avrebbe desiderato trascorrere una stupenda notte d’amore, dall’altra invece c’era una donna bisognosa di aiuto. Non era davvero riuscito a lasciar perdere e il proprio senso del dovere lo aveva spinto ad aiutare Mary Jane la quale, in fondo, era pur sempre una loro cliente. Ci aveva pensato bene e, in quei pochi attimi e con ancora il sapore di Sherlock sulla labbra, si era ritrovato a riflettere sulla giovane Gilmore e sulla sua vita distrutta. Chiunque si fosse ritrovato in una situazione del genere, in cui ogni certezza era sembrata volersi sbriciolare, avrebbe reagito in quel modo. Mary Jane aveva avuto un piccolo collasso, nulla di serio, ma occorreva che qualcuno le stesse vicino. No, non aveva davvero potuto lasciarla sola e nonostante fosse stato traumatico il doversi separare da Sherlock, aveva dovuto farlo. Holmes, dal canto suo, non aveva dato segni di nervosismo o rabbia. Probabilmente, si era detto Watson, aveva inteso la serietà della situazione e non aveva obiettato. E poi avevano aspettato tanto, qualche ora in più non avrebbe fatto differenza. Pertanto, dopo essersi raccomandato con lui di cenare e dopo averlo baciato di nuovo, in un segno di saluto, aveva seguito Mr Pinkerton a villa Gilmore. L’impatto con l’aria fredda e umida dello Yorkshire era stato violento. Aveva percepito le guance accaldate, evaporare al contatto con quel refolo di vento bagnato che gli aveva stuzzicato il viso. Si era quasi pentito di aver lasciato un comodo nido a vantaggio di un buco di paese perduto nella brughiera, eppure non aveva nemmeno accennato a guardarsi indietro e, senza accorgersene, si era ritrovato a seguire Mr Pinkerton. Nonostante avessero coperto Mary Jane più o meno adeguatamente, Adam aveva lo stesso proceduto a passo affrettato deviando per un paio di scorciatoie di cui John ignorava l’esistenza. Tanto che il tragitto era risultato tutto sommato piuttosto breve, ciononostante gli era bastato affinché si perdesse a rimuginare nei propri pensieri. Quasi si era sentito in colpa a lasciare Sherlock da solo. In fondo era stato il primo loro vero bacio e aveva paura che Holmes si sentisse abbandonato o in un qualche modo rifiutato. Era stato anche tentato di tornare indietro per poter chiarire il concetto, ma poi le sue gambe non avevano accennato a volersi fermare e lui era andato avanti. Allora aveva estratto il cellulare di tasca, ma non sapendo quali parole utilizzare, aveva preferito lasciar perdere. Magari, si era detto, ci avrebbe pensato più tardi. Purtroppo, però, una volta giunto alla villa era stato distratto da altro. Valutare la situazione di Mary Jane quando lei ancora dormiva, era stato decisamente complesso. Aveva optato per una visita sommaria, che era principalmente servita ad accertarsi circa i parametri vitali. Ma dopo che si era ritrovato a coprire di nuovo la giovane Gilmore con un plaid, si era reso conto che sarebbe potuto rimanere lì per molto più tempo di quanto non avesse ipotizzato inizialmente. A causa di quel sedativo che le aveva dato, avrebbe potuto dormire per delle ore. Dopo che se n’era reso conto, John aveva quindi mandato un messaggio a Sherlock, per informarlo, dicendogli di andare a dormire e di non aspettarlo sveglio. Poi, però, e dopo che Sherlock non aveva accennato a volergli rispondere, John era stato assalito dall’agitazione. A nulla era servita quella tazza di tè che si era preparato, appena dopo passate le otto. Di certo non lo aveva calmato, né in alcun modo, la teina era riuscita a distendergli i nervi. A un certo punto aveva anche pensato di chiamarlo e soltanto per sapere che cosa stesse facendo, ma poi aveva finito col rinunciarci. Cosa avrebbe potuto dirgli? Sono qui, ma vorrei essere lì con te per fare l’amore? No, suonava stupido anche solo a pensarla una cosa del genere. Magari avrebbe potuto tentare con un: sono seduto in poltrona di fronte al camino acceso e ti vorrei tra le mie gambe. Per carità, pensò immediatamente dopo, scacciando il pensiero, questo era addirittura volgare oltre che offensivo. Quindi aveva optato per un dignitoso silenzio, che s’era trasformato in un opprimente tarlo nel cervello. Uno di quelli da non ascoltare mai e che gli suggeriva di mollare tutto e fuggire, che non c’era niente di male a seguire la passione una volta o l’altra. In fondo, Mary Jane era soltanto addormentata. Di certo non era moribonda e… No, non poteva. Annuì, ben deciso e stoico mentre s’affondava le unghie nella coscia. Era un dottore e aveva dei doveri morali, che diamine aveva fatto anche un giuramento! Ora della fine, dunque, si era lasciato cadere sulla poltrona cercando di trovare conforto nel tepore delle fiamme del camino, e da lì non s’era più mosso. Almeno fino a quando, un ora e mezza più tardi, aveva sentito la porta d’ingresso aprirsi e il dottor Matt comparire con un gran sorriso in volto. Era il dottore che aveva in carico l’ambulatorio di zona. Proprio lui. Quell’uomo. Sì, proprio quello stesso tizio che conosceva a stento e che ora adorava per il tempismo, oltre che per l’idea di venire fin lì. Il dottor Matt che in futuro avrebbe ribattezzato come il suo faro nella nebbia. Lui che si era presentato a villa Gilmore con un ombrello ridotto in pessimo stato, ma con un gran sorriso in volto.
«Cosa fai qui?» aveva istintivamente domandato John, alzandosi dal comodo rifugio che s’era ritagliato e andando incontro al giovane dottore, con fare piuttosto incredulo.
«Adam mi ha detto di venire» aveva annuito Matt. «Mi ha telefonato un’oretta fa, raccontandomi quello che era successo e che Mary aveva avuto un crollo. Scusa, sono riuscito a liberarmi solo ora.»
«E quindi tu ri-rimarresti? Cioè resteresti qui per la notte?» aveva domandato, inceppandosi appena di un’emozione che non riusciva a contenere e che gli era esplosa in viso. Era l’idea di potersene andare da lì, di poter tornare da Sherlock a invadergli ogni cosa in maniera prepotente, oltre che a farlo balbettare come un ormonale adolescente.
«Certo che sì, sono qui apposta» sorrise il giovane medico. «E poi non ho nulla da fare. In fondo sono io il suo dottore, non tu, quindi vattene, dai...» concluse, scherzando mentre si levava la giacca e la lanciava sullo schienale della poltrona del soggiorno.
«Io non so che dire, Matt.»
«Dimmi solo cosa le hai dato e poi sparisci» gli disse, accennando con un lieve cenno del capo a Mary Jane stesa sul divano.
«Le ho iniettato un sedativo, l’unico che avevo a portata di mano. Avrei preferito evitarlo, ma sono stato costretto perché era davvero molto agitata.»
«Povera ragazza» mormorò il giovane medico, scrollando ripetutamente il capo. «Credo bene che abbia reagito in questo modo, con quello che ha saputo… voglio dire, una notizia come quella avrebbe sconvolto chiunque. Ehi, ma sei ancora qui, tu?» disse infine, voltandosi verso John e ridendo con fare canzonatorio.
«Grazie, Matt, grazie davvero. Ti devo un favore» gli aveva detto John, prima di recuperare la giacca e uscire di corsa. Da quel momento in avanti non aveva pensato più a niente, né alla pioggia che s’era fatta intensa, né al fatto che Mary Jane doveva ancora pagarli. Tutto quanto parve sfumare. A esser importante, era unicamente Sherlock Holmes. Non doveva e non voleva curarsi di altro se non della sua bocca morbida, della sua pelle calda premuta contro la propria, dei ricci che gli si agitavano in testa e di quella schiena muscolosa che tanto avrebbe voluto accarezzare. Certo, avrebbero dovuto anche parlare di quanto stava succedendo loro, ma come prima cosa dovevano baciarsi. Magari, poi John lo avrebbe riversato su un letto, su una poltrona o un divano, o un tavolo, o una qualsiasi superficie piana disponibile. Il resto, oh tutto quanto il resto, sarebbe venuto dopo. Ora doveva farci l’amore e doveva farlo bene. Eh, perché lo voleva. E da un tempo così lungo da aver perduto il conto dei giorni. Desiderava quell’uomo con tutto sé stesso, ne bramava la pelle liscia e bianchissima. La stessa che voleva toccare, sfiorare, baciare e leccare fino a perderci la testa. Doveva sfiorarlo, era proprio un impellente bisogno fisiologico, al pari di respirare. Se non l’avesse fatto sarebbe impazzito. Era ormai vitale il sfinirlo di baci, piuttosto che fargli arrossire gli zigomi con parole sconce sussurrate a un orecchio. Alla pensione, però, ancora non ci era arrivato e con soltanto quelle vaghe idee in mente, si era ritrovato a correre ancora più veloce e al tempo stesso a sorridere. Mentre percorreva stradicciole che conosceva ormai a memoria, John Watson aveva riso. Lo aveva fatto di felicità e liberazione. Perché con l’idea di Sherlock già in testa, le dita gli formicolavano e il respiro si faceva ancor più accelerato mentre l’eccitazione diveniva incontenibile.
 
E ora si trovava lì, dopo una corsa sfrenata fatta sotto a una pioggerella fine e impalpabile. Se ne stava poggiato contro una porta chiusa, a sorridere e sospirare. Come un perfettissimo e beato idiota.
«Ben tornato, dottore.» Fu la voce di Mrs Pinkerton, a destarlo. Watson sussultò vistosamente, tentando di riprendere il filo logico delle idee mentre si levava la giacca. Colto da un brivido di freddo, prese a sfregarsi le mani l’una contro l’altra mentre un delicato profumo di sformato invadeva l’ambiente, stuzzicandogli un appetito che fino a quel momento era rimasto nascosto, sepolto sotto ben altri pensieri.
«Le ho tenuto in caldo la cena» disse la donna, con una qual certa tenerezza nel modo di parlare che la faceva apparire come infinitamente materna «gliela porto ora?»
«No, non subito» negò John, con decisione. «Devo prima parlare con… sa dov’è Sherlock?» le domandò, a quel punto, guardandosi attorno con aria confusa. Trovava strano che non se ne stesse rilasciato sulla poltrona a sorseggiare una tazza di tè, o che non avesse già sentito la sua voce troneggiare giù per le scale. «Sarà di sopra» mormorò, con fare meditabondo e proprio mentre Mrs Pinkerton portava in tavola un piatto e delle posate, depositandoli proprio accanto al cestino del pane ancora ben pieno.
«Oh, non ce lo troverà» brontolò lei, strofinandosi le mani nel grembiule fiorato «Mr Holmes è tornato a Londra.»
 
John Watson era abituato alle situazioni critiche, sapeva come affrontare un problema e da quando viveva e lavorava con Sherlock, aveva persino imparato a pensare come lui. Ad agire con una qual certa logica, che in passato raramente gli era servita a qualcosa. Era pronto a tutto, sempre. Ciononostante, dovette ammettere che reagì piuttosto male alla notizia. La prima cosa che provò fu il panico, di quello profondo che prese a divorargli le viscere dello stomaco e che era tanto potente e dirompente, da fargli battere il cuore in maniera forsennata. Panico, cui seguì un’orda di confusione che presto gli deformò i lineamenti del viso di un evidente non capire.
«Cosa? E quando? Pe-perché?» balbettò, malamente. Non aveva pensato alla possibilità che potesse accadere una cosa simile, era completamente impreparato e no, non sapeva cosa fare. Dove doveva andare? Doveva chiamarlo? Al telefono? E avrebbe risposto? Non era molto meglio una mail o un messaggio? No, s’arrabbiò battendo un piede a terra. Non era così che sarebbe dovuta andare. Avrebbero dovuto baciarsi, e ridere, e parlare e… cosa era potuto accadere? Che avesse avuto ragione nel pensare che l’esser andato via con Mary Jane, avrebbe potuto venir interpretato nel modo più sbagliato da Holmes? Eppure non aveva dato l’idea d’esser nervoso o di essere arrabbiato o magari sì e, o diavolo, era così confuso!
«Non ha nemmeno finito la sua cena» proseguì una sempre più fastidiosa Mrs Pinkerton «è saltato su come una molla ed è corso via. Un’ora dopo è sceso con i bagagli già pronti, ha pagato il conto per tutti e due voi e poi è andato via.»
«Sa se ha ricevuto una telefonata?» s’azzardò a chiedere, e dalla sua voce ora trasudava una ben chiara irritazione. «Ha visto se stava facendo qualcosa con il cellulare come mandare un messaggio o una mail?»
«No… ecco… io… non mi pare che abbia ricevuto chiamate, né che abbia parlato con qualcuno» balbettò la donna, distogliendo lo sguardo stranamente a disagio. Aveva un comportamento che insospettì un già troppo nervoso John. Forse era intimidita, pensò scacciando però immediatamente dopo il pensiero ritenendolo come stupido. Avrebbe seriamente dovuto indagare oltre nella strana ritrosia manifestata dalla padrona di casa, tuttavia la sua mente volò altrove. Si sentiva così confuso, che la sola cosa che gli era necessaria fare a quel punto, era razionalizzare. Questa volta dovette forzare sé stesso di molto, ma era obbligato a pensare con logica perché aveva bisogno di capire i motivi che avevano portato all’allontanamento di Holmes. La logica poteva far supporre che Sherlock avesse ricevuto una chiamata da Lestrade o una mail da un cliente, ma soltanto per un caso straordinariamente interessante, se ne sarebbe andato via all’improvviso. Sapeva anche che Sherlock cadeva preda della sua mente quando qualcosa lo stuzzicava, in quei casi finiva col non badare più ad altro; possibile però che volesse passar sopra alla prospettiva di una notte insieme? E poi, Holmes faceva sempre di tutto perché avesse con sé il suo blogger (come affettuosamente lo chiamava) più di una volta era arrivato al punto di far irruzione all’ambulatorio e strapparlo ai pazienti; perché quindi questa volta non lo aveva portato via da Villa Gilmore? Neanche si era preoccupato di mandargli un messaggio per informarlo. Per questo era convinto che doveva trattarsi di altro, forse di un qualcosa di personale e che aveva più precisamente a che fare con quanto stava accadendo fra loro. Con quello che era successo o che sarebbe potuto accadere, forse si era spaventato. In fondo non avevano mai affrontato un discorso serio e John stesso doveva confessare che era stato parecchio irruente, non mancando di far vedere quali fossero le intenzioni che aveva per il futuro. Più ci pensava e più era sicuro che quella di Sherlock era una vera e propria fuga. Una fuga nella notte. Il che non era poi da ritenersi nemmeno tanto strano, considerata l’incertezza e il non parlarsi dei giorni passati. Troppi dubbi si erano messi tra loro, troppe mezze parole contornate da eccessivi e pesanti silenzi. Magari aveva avuto paura, si disse. Eppure era strano anche questo perché era insolito che Holmes scappasse così. Sherlock era più uomo da fuggire in altri modi, avrebbe preferito chiudersi in camera o indossare di nuovo una maschera di indifferenza, sarebbe stato decisamente più da lui. Perché si trattava di Sherlock ed era più uomo da barriere mentali, che da fughe improvvise. Per questo, John si stava convincendo che doveva essergli successa una qualche cosa. Per quale motivo si sarebbe dovuto prendere il disturbo di mettersi a tavola, per poi lasciare il tutto a metà? E non c’entrava con l’appetito, quando Sherlock decideva di cenare, di sicuro non spariva a metà e senza una ragione apparente. Non era da lui. No, qualcosa lo aveva spaventato. Forse una parola, o un concetto a cui aveva pensato all’improvviso. Fu a quel punto che capì. Perché era tanto elementare, da essere persino banale. Perché con Holmes scomparso e Mrs Pinkerton tanto ritrosa, la soluzione era a prova di idiota.
«Cosa gli ha detto?» domandò John, facendo sussultare una spaventata Mrs Pinkerton. Non si era nemmeno premurato di sollevare il volto, aveva tenuto gli occhi bassi e con lo sguardo rivolto a terra e i pugni serrati, pareva l’immagine della rabbia più pura. Tanto che la donna, intimorita, prese ad indietreggiare rintanandosi in cucina quasi si sentisse più al sicuro. Non chiuse la porta, non fuggì di sopra. Semplicemente rimase lì ferma, aggrappata allo stipite.
«I-Io» balbettò lei, di nuovo sempre più spaurita e confusa.
«Che cosa ha detto a Sherlock?»
«Io… ecco… potrei essermi lasciata scappare qualcosa su, insomma, su quella rovina famiglie. Non volevo sconvolgerlo, davvero, mi deve credere, dottor Watson e non mi sarei aspettata che se scappasse via in quel modo. Ho anche provato a fermarlo, ma non c’è stato niente da fare. Mi dispiace, mi dispiace.»
«Oltre a questo? Conosco Sherlock e so che c’è dell’altro: deve esserci; che gli ha detto ancora?» urlò, furioso.
«Ecco, io…»
«Cosa?» gridò, con rabbia.
«Ch-che doveva fare attenzione a non farsi fregare l’uomo da quella puttana! O che lei poteva, ecco, poteva già essere nel letto con quella.»
«Cristo» imprecò Watson, battendo un pugno sul tavolo con violenza e facendo franare a terra posate e bicchieri. «Non che le interessi, ma sono andato da Mary Jane perché sono un medico e Sherlock lo sapeva perfettamente. Dannazione, e ora che faccio?» domandò, parlando più che altro con sé stesso e prima di lasciarsi cadere contro alla parete.
«Lo può ancora raggiungere» insinuò Mrs Pinkerton, dando a John una punta tenue di speranza «il prossimo treno per Londra ci sarà soltanto alle dieci e Mr Holmes è uscito da qui soltanto un quarto d’ora fa.» Non si premurò nemmeno di risponderle e senza neanche recuperare la giacca dall’appendiabiti, prese la porta e corse fuori. Fuori in quel paesino sperduto in una brughiera fredda e inospitale. Un paesino di fantasmi accucciati dietro alle finestre e che, ora, spiavano quel qual certo dottor Watson correre sotto la pioggia rada. Forse, ipotizzò, provavano pena per lui. John però non badò loro. Perché lui correva, su per una piazza buia, illuminata di rado dai pochi lampioni che proiettavano a terra fasci di luce calda e avvolgente. Correva. Veloce. Sotto la pioggia che ora scendeva più battente. Nel freddo che pungeva e che gli scivolava fin sotto la pelle. Finché, a un certo punto, entrò in stazione. Era deserta. Poche luci al neon illuminavano la banchina. Lo schermo elettronico con orari e annotazioni era acceso e proiettava a terra un fascio di luci aranciate. Lui era lì, s’accorse immediatamente dopo aver varcato il cancello aperto. Stava seduto su di una panchina. Era Sherlock Holmes e lo era come non lo aveva mai visto. Si era ben riparato in un cappotto e aveva il rigido colletto tirato su, a pararlo dagli spifferi mentre la sciarpa blu era annodata al collo. Sarebbe stata l’immagine stessa della perfezione, in puro stile Mr Holmes, se non fosse stato per quella postura. Soltanto a guardarsi era doloroso, al punto che John provò una fitta al petto che gli fece mancare il respiro. Non lo aveva mai visto in quel modo, in uno stato d’animo di pura confusione. Quanto aveva provato in passato non pareva essere minimamente paragonabile a questo. Mai lo aveva trovato così, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e l’espressione devastata su di un volto affondato tra le mani. Cosa gli aveva fatto? Pensò John, mentre muoveva un primo passo in sua direzione. Possibile che l’idea di un tradimento potesse ridurre il sempiterno algido Holmes, in un simile stato? A essere ancor più drammatico, c’era il fatto che Sherlock lo stava fissando con grandi occhi grandi lucidi. Aveva pianto? Si domandò in un fugace attimo, poco prima di rinsavire. Sherlock Holmes non piangeva per nessuno; perché avrebbe dovuto farlo per lui?
«Ciao» sussurrò John, sentendosi immediatamente così troppo stupido da maledirsi mentalmente. Lo vide sollevare il volto e occhieggiarlo appena, spiandolo timidamente quasi non volesse farsi trovare a guardarlo negli occhi. Lo vide tentare di ricomporre una postura dritta e rigida, quindi si alzò con un movimento fluido. Probabilmente stava provando a salvare almeno un minimo le apparenze e in parte, John doveva ammettere che c’era riuscito perché ora un lieve sorriso gli era nato in viso. Un sorriso purtroppo enigmatico e dai contorni incomprensibili.
«Ti bagnerai» gli disse, studiandolo da capo a piedi con quel suo solito fare carico di superiorità che in quel momento era decisamente odioso, nonché impossibile da sopportare. Con tutto quel che avrebbe potuto dirli, se ne usciva con quello? Doveva spiegargli molte cose, innanzitutto cosa ci faceva lì sotto la pioggia ad aspettare un treno che lo avrebbe portato via. E poi cosa cavolo gli era saltato in testa.
«Dove cazzo stai andando?» gli urlò contro, senza preoccuparsi d’apparire furioso.
«A Londra, io… c’è un caso che…»
«Non dire stronzate, Sherlock» sbraitò. «Non c’è nessun caso. La verità è che stai scappando. Non so perché lo stai facendo, ma è così e voglio sapere il motivo.» Gridava, John Watson, urlava e sbraitava in quella stazione deserta. Lì, riparato dalla pioggia, ma ancora fradicio. Urlava perché, in realtà, dentro di sé era terrorizzato. Aveva paura d’aver fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa di terribile e di aver perso il suo grande amore, prima ancora d’averlo avuto davvero. Erano stati così vicini, mentre adesso gli pareva d’avere di fronte un Dio irraggiungibile, una montagna invalicabile. Quello era un incubo, un orribile sogno dal quale non riusciva a svegliarsi.
 
Sherlock esordì qualche istante più tardi. Lo fece con una voce insolitamente sottile che a stento riuscì a sovrastare il rumoreggiare della notte, ma che si limitò a fendere di poco le nebbie della brughiera. Lo fece tenendo lo sguardo basso, rivolto a terra e con le mani affondate nelle tasche del cappotto. John non sapeva che quelle dita lunghe e affusolate si stavano torcendo e che il cuore di Holmes batteva tanto rapidamente, che si sentiva soffocare. Non aveva idea del fatto che il suo Mind Palace era letteralmente sconvolto e che non sapesse come fare per rimettere le cose nel loro ordine. Tutto quello a cui badò John Watson fu al proprio, di terrore. Sentiva una paura tanto grande da oscurare ogni cosa, un panico, capace di offuscare ciò che sapeva del carattere di Sherlock.
«Ho impiegato metà della mia vita a costruire il mio Mind Palace» se ne uscì, a un certo punto. «Sai quanti anni ci ho messo per farlo, John? Tanti che nemmeno me ne ricordo. Troppi, al punto che ho dovuto rimuovere i ricordi di me stesso chiuso qui dentro» disse, indicandosi la tempia. «So che quando ero adolescente rimanevo dei pomeriggi rintanato in una delle poche stanze che avevo. C’era Redbeard in quella camera e io potevo ordinare a Mycroft di fare tutto quel che volevo. Di solito mi leggeva delle storie. Amavo quella stanza, perché non ero solo. Perché Mycroft c’era sempre quando avevo bisogno di lui, non era via per la scuola, non era a un qualche stupido seminario estivo. Poi il numero di ricordi e informazioni è cresciuto e ho fatto dei cambiamenti, ne sono stato costretto. Anni, John, quanti anni… Ma non me ne pento: non è stato tempo perso. Oggi, però, qualcosa è cambiato e sei stato tu, John. Tu hai cambiato tutto.»
«Cambiato in che senso?» lo interruppe.
«A-apro le stanze e ti trovo che sei già dentro. Sei ovunque, entri ed esci come ti pare. Mi cambi le cose, mi modifichi i ricordi. Ci sono immagini della mia infanzia in cui tu sei con me e questo non è possibile. Non è possibile. John, io lo so cosa vuoi da me, per noi. Stare in una relazione… Io non so come si fa. Non so se ne sono capace. Temo di deluderti» ammise, infine, trovando soltanto in quel momento il coraggio di sollevare il viso. Watson incontrò i suoi occhi e li scoprì lucidi, carichi di una confusione che toccava il cuore. Provava pena per lui e nel frattempo sentiva il bisogno di sanare tante pene. Il dramma era che non aveva idea di come fare, sarebbe bastato un bacio? Oppure era insufficiente? Come poteva affrontare tutto quel dolore? O il pensiero di trovarsi davanti a un uomo che aveva vissuto senza nessuno e che a tutt'oggi si considerava ancora solo come un tempo. «Non penso che tra me e te possa funzionare» riprese Sherlock. «Io finirei col farti soffrire. Tu avrai sempre bisogno di una donna, oggi non c’è stata, ma avrai sempre bisogno di una Mary Jane. Magari tra un po’ di anni penserai che di me ne hai abbastanza e deciderai di lasciarmi. Io non so, non lo so se sarò capace di sopportarlo.»
«Sherlock» mormorò John, incredulo. A essere assurdo era il fatto che, potenzialmente, aveva ragione. Ogni relazione sentimentale aveva un margine di rischio, tutti potevano venir lasciati prima o poi, ma questo non impediva al mondo di andare avanti. Già, ma Sherlock Holmes non era il mondo. Lui era sempre vissuto ai margini della società, lui era da sempre diverso. Migliore, forse, ma di certo solo. E per quanto in quel momento, John fosse sicuro del fatto che lo avrebbe amato per sempre, non poteva dire cosa sarebbe potuto succedere da lì a dieci anni. Nessuno avrebbe potuto, né lui, né Sherlock e nemmeno l’onnisciente Mycroft Holmes. John non era mai stato uomo da tradire, era vero, tanto che la sola idea lo faceva sentire sporco. Di sicuro non sarebbe stato capace di allontanare Holmes dalla sua vita. Di certo non in quel modo, nessuna Mary Jane avrebbe mai retto il confronto con l’unico consulente investigativo al mondo. D’altra parte non riusciva a immaginarsi senza di lui ed era più che mai convinto che sarebbe stato sempre così. Allo stesso tempo, però, comprendeva le paure e i timori di Sherlock. Come poteva rassicurarlo circa una cosa del genere? No, non poteva proprio bastare un bacio o un abbraccio. Tutto questo era grande, era enorme e lui non era proprio nessuno per potergli far cambiare idea. Poteva dirgli che non lo avrebbe mai tradito, ma non poteva assicurargli che sarebbero rimasti insieme per sempre. Dannazione! Imprecò fra sé. Come potevano affrontare un discorso del genere in un posto come quello? Era assurdo anche solo a pensarci.
«Senti, torniamo alla pensione» tentò di dire «ne parleremo davanti a una tazza di tè, lì sarà tutto più semplice.» Non fece però nemmeno in tempo a terminare la frase, che sentirono il treno fischiare in lontananza e dopo qualche istante, questo svoltò dalla curva rallentando la sua corsa.
«John, c’è una cosa che devi sapere» riprese Sherlock a voce un poco più alta e mantenendo una sorta di contatto visivo, seppur ancora titubante. «È una cosa che ti devo dire da tanto tempo e che non ho mai trovato il coraggio di confessarti p-perché non pensavo che lo volessi. Non credevo che potessi provare quello che hai detto di, uhm, provare» Sherlock s’interruppe, prima tossì rumorosamente e poi sospirò in modo nervoso, grattandosi quindi la nuca con fare imbarazzato. «Ho paura che finiremo col distruggerci perché io non sono una persona buona, John e ogni tanto penso delle cose che se tu conoscessi i miei pensieri smetteresti di amarmi perché nessuno, nemmeno John Watson, potrebbe amare qualcuno come me. Qualcuno che pensa che… Perché non sono l’eroe che credi, non lo sono per niente. Ciononostante lo devi sapere, io voglio dirtelo. Anche se non è logico. Io non riesco più a tenermelo dentro e quindi ecco, te lo dico. Io sono perdutamente innamorato di te e voglio che tu sappia che qualsiasi cosa accadrà in futuro, non smetterò mai di proteggerti e di amarti.» Detto questo, Sherlock afferrò la valigia che aveva riposto da un lato e salì sul treno, poco prima che le porte si chiudessero.
 
John rimase a lungo a fissare il convoglio che lasciava la stazione. Lo guardava e nel contempo un po’ moriva. Era come se una parte di lui fosse salita su quel convoglio e se ne stesse andando via assieme Sherlock. Non lo aveva fermato perché sapeva che in parte aveva ragione. E se fosse andata male? Se avessero finito col farsi del male a vicenda? Erano solo paure, le loro o c’era anche un fondo di verità? Non lo sapeva, non poteva saperlo. Lui era solo certo del fatto che lo amava e che non poteva allontanarsene. Tutto ciò che fece lì, in quella stazione deserta, sotto la pioggia, fu correre. Correre a perdifiato. Correre dietro al treno. E quindi lo fece. Corse, svelto, veloce, incurante di ogni cosa persino delle grida del capotreno. Corse, finché la banchina glielo concesse. Poi, semplicemente, si fermò. Tutto quello che in futuro si rese conto di ricordare di quei momenti era che, in fondo al marciapiede, praticamente immerso nella brughiera buia e nera, c’era rimasto per delle ore.
«Ritorna da me» sussurrò al vento, mentre una lacrima gli rigava il volto. Il treno però era già sparito e Sherlock se n’era andato con lui.
 



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