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Autore: keska    01/03/2009    10 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Arrivati al pronto soccorso, Carlisle ci fece entrare in ambulatorio e Edward mi fece sedere su una barella copertina

Capitolo riveduto e corretto

 

Appena arrivammo al pronto soccorso Carlisle guidò Edward nell’accettazione, scomparendo velocemente dietro le porte scorrevoli e assicurandoci che sarebbe tornato fra un attimo.

Edward, lontano da me più di quanto si potesse intuire vedendo le sue braccia strette attorno al mio corpo, mi fece stendere su una barella marrone, rivestita di carta grigiastra e ruvida.

Ansimai, stringendo forte la sua mano con la mia, quando fece per allontanarsi. Ero terrorizzata.

Scosse il capo, fissandomi evasivamente negli occhi. «Non me ne vado…» mormorò impercettibilmente «almeno… finché non so cosa… ti ha fatto» sbottò, a bassa voce, ma così minaccioso che mi causò un brivido.

Era distante, freddo. Mi sembrava un’altra persona rispetto a quella che poche ore prima, baciandomi, aveva detto di amarmi. E di certo non potevo prendermela con lui.

«Ti prego, Edward» annaspai, provando a sollevarmi. Gemetti, dolorante, una fitta al petto.

Mi bloccò, obbligandomi a rimanere stesa. «Stai giù» protestò debolmente, afflitto.

Afferrai la sua mano, contro il mio petto, con la mia, e me la portai alla guancia. «Mi dispiace, Edward. Non sai quanto mi dispiace» gemetti, tentando di reprimere le lacrime.

Allontanò lo sguardo, ferito.

«Non l’ho fatto per lui. Non l’ho fatto per proteggerlo» feci, premendo più forte la sua mano contro il mio viso e bagnandola con le lacrime che non ero riuscita a trattenere. «L’ho fatto per te, e l’ho fatto perché volevo…» singhiozzai «perdonami, Edward».

Si voltò nella mia direzione, turbato.

«Perdonami» continuai, allungando le mani per circondare il suo volto, «non solo per oggi. Perdonami per ogni giorno in cui, pur amandoti, non ti ho dimostrato quanti ti ami».

Sospirò, lasciando che lo avvicinassi a me, fronte contro fronte. «Lo so, che mi ami» mormorò mestamente «ma tu… c’era anche lui… amavi anche lui…».

«No» lo interruppi, serrando la presa sulle sue tempie, «no, Edward. Lui non c’è mai stato, mai. Ci sei stato solo tu. Sempre, solo, tu. Mi ha ingannata, mi ha confusa, mi ha forzata. Ma sapevo sin da principio di aver scelto te, di volere solo te. Non l’ho mai amato. Mai. L’amore vero si regala solo ad una persona, nella vita. E quella persona per me sei tu, e basta. Ti voglio dare la mia esistenza».  

I suoi occhi si sciolsero, nel dolore e nell’amore. Si avvicinò, abbracciandomi, premendo il viso contro la mia guancia.

«Che cosa voleva?» mormorò contro il mio collo.

Presi fiato in un risucchio. Non avevo più molto da perdere, dicendogli la verità. «Voleva… portarmi via con sé. Non gli bastava più… voleva… ha detto… ha detto che…io… io gli ho detto che lo odiavo» rabbrividii «voleva… oh, Edward… era così assurdo…».

«Cosa voleva?» ripeté, staccandosi per guardarmi negli occhi.

Abbassai il viso, incapace di sostenere il suo sguardo. «Mi ha chiesto di… andare con lui. Di… fare… di fare l’amore con lui» annaspai, strappando con la mano un pezzo di carta ruvida in un pugno.

La sua espressione si fece ancora una volta di vetro. Ringhiò.

«Ti prego!» lo supplicai, gettandomi fra le sue braccia nonostante il dolore, «non andare da lui. Ti prego. Voleva… voleva ucciderti Edward… Oh, ho tanta paura… Per favore, per favore… è scappato via, non tornerà più. Non te ne andare!» singhiozzai, piangendo a pieni polmoni.

Strinse gli occhi, afflitto, angosciato. «Non posso credere che sia stato tanto vile». Sospirò, accarezzandomi i capelli con le mani, «non posso credere che ti abbia lasciata, ferita, e sia scappato via».

«Per questo ci sei tu, Edward» annaspai, stringendo la sua maglietta fra le mani «per questo ci sei tu. Non mi puoi lasciare sola. Ti ho dato la mia vita, ho solo te. Non mi puoi lasciare sola, ti prego».

Si chinò, baciandomi le palpebre pesanti. «Non ti agitare. Te l’ho detto, non ti lascio sola».

«Mai, ti prego» sussurrai, cercando di strappare un’ulteriore promessa, o di sentirlo in qualche modo più vicino a me.

Mi sorrise appena, un sorriso troppo debole per soddisfarmi. Sospirò, accarezzandomi una guancia. «Vedremo. Stai giù, per favore» fece, ricomponendosi in fretta.

In meno di due secondi la porta dell’ambulatorio si aprì. «Quali sono i sintomi?» chiese il dottore entrando nella stanza. Doveva essere lo specialista. Accanto a lui camminava Carlisle. A sua differenza aveva l’aria di un vero medico: quarant’anni, barba bianca, aspetto erudito, occhiali.

«Dispnea, shock, emottisi… lussazione e contusioni costali e trauma toracico» rispose attento Carlisle, riferendogli un quadro preciso.

Rabbrividii. Edward, al mio fianco, non parve stupito per la prole di suo padre; tuttavia, accorgendosi del mio sguardo spaventato su di lui, strinse più forte la mano con la mia.

Lo specialista annuì. «Com’è successo?» chiese, muovendosi per prendere dall’apposito contenitore un paio di guanti bianchi.

Fu Carlisle a rispondere prontamente, senza battere ciglio. «É caduta al ruscello, scivolata. Ha sbattuto sulle rocce».

Mi osservò attentamente. «Credi abbia un trauma cranico?».

Carlisle scosse il capo, seguendo gli stessi gesti del collega. «Lo escluderei, per ora. Ma sarebbe meglio aspettare i risultati della TAC».

L’uomo annuì, avvicinandosi nella mia direzione e tirando a sé un carrellino. «Sono il dottor Parks. Come ti chiami?» chiese, afferrando una lucina e puntandomela negli occhi. «Guarda il dito».

«Isabella… Bella, Bella Swan» mormorai disorientata, provando a seguire le sue istruzioni. Non era la prima volta che mi trovavo in quelle circostanze, sapevo come funzionava. Luce negli occhi, pressione, battito, esami… Ma questa volta non sembrava essere così facile.

Il dottor Parks contrasse il viso in una smorfia di disappunto. «Ah, senti il respiro?» fece, chiedendo a Carlisle, «com’è la saturazione?».

«Non abbiamo ancora verificato. Ho già un’idea di quello che potrebbe avere, ma vorrei che la visitassi tu, per conferma».

«Sì» scattò, allontanandosi per un attimo per accendere il neon sulla barella, «togli la maglietta» mi ordinò, prima di sollevare lo sguardo e notare, come se non l’avesse ancora visto, la presenza di Edward. «Dovresti uscire».

Sbiancai, sentendo il ritmo del respiro aumentare. Strinsi più forte la mano di Edward, voltandomi velocemente nella sua direzione.

Sospirò, allungando una mano per accarezzarmi il braccio.

Intervenne Carlisle a calmare la situazione. «Richard, la ragazza è scossa, non vogliamo che si agiti ancora. Credo che possa rimanere, si devono sposare ad Agosto».

Il dottore scosse la testa, in disappunto. «No, non vogliamo che si agiti» sospirò infine, fissandomi in attesa «la maglietta, per favore».

Rincuorata, a fatica, mi tirai a sedere. Furono le mani confortanti di Edward, discrete, ad aiutarmi a liberarmi della felpa che Esme mi aveva fatto indossare. Ogni contatto devoto della sua pelle contro la mia fu infinitamente rassicurante.

Mi stesi sul lettino, girandomi su un fianco, e il dottor Parks cominciò ad esaminare, attentamente, ogni lembo di pelle, tastandolo di tanto in tanto.

Gli occhi di Edward, color ambra per la caccia del giorno prima, mi fissavano attenti, dentro i miei. Averlo ancora accanto mi pareva un sogno. Non avrei dormito, non avrei mangiato, non avrei fatto nulla, se necessario, per potermi assicurare che rimanesse sempre accanto a me. Per fare in modo che mi sorridesse, che mi baciasse, che mi amasse.

Gemetti, ritirandomi istintivamente, quando la mano del dottore esercitò una maggiore pressione.

«Buona, buona» mi riprese con tono austero, muovendo la mano più in alto e premendo ancora.

Urlai, serrando gli occhi.

Edward sollevò una mano per accarezzarmi una guancia. «Shh, va tutto bene» mormorò piano, rassicurandomi.

Il dottore annuì. «Facciamola voltare».

Stesa, supina, continuò a tastare ogni lembo di pelle. Gemevo, dolorante, stringevo i denti, chiudevo gli occhi, quando le sue mani individuavano i punti più lesi. Carlisle partecipava all’attento esame. Edward, la cui mano non avevo mai lasciato, assisteva silenzioso.

Con le dita, tremanti, disegnai un cuore sul palmo della sua mano. Aprii appena gli occhi, cercando il suo sguardo. Ma era troppo distante per poterlo leggere davvero. Sospirai, angosciata.

Il dottor Parks si allontanò, gettando via i suoi guanti. Edward mi aiutò subito a rimettere la maglietta. «Facciamo subito gli esami, Carlisle. Ci sono costole fratturate e un emotorace. La ricoveriamo e decidiamo come intervenire» disse, premendo il testo rosso della chiamata.

«Sì, penso anch’io» fece Carlisle, d’accordo con le sue parole.

Rabbrividii, spaventata. Non avevo una precisa idea di quanto avevano detto ma… ricoverarmi… Cercai smarrita lo sguardo di Edward. Era statico, fermo. Avevo paura.

Arrivò un’infermiera, e i medici le diedero indicazioni sugli esami che avrei dovuto eseguire. La mia attenzione era catalizzata su Edward, al mio fianco. Non mi avrebbe mai perdonata davvero. L’ansia e l’angoscia mi stavano corrodendo.

La donna mi fece un cenno per farsi seguire. Stava prendendo una sedia a rotelle dal fondo della stanza.

«Edward» sussurrai, invitandolo a seguirmi. Implorandolo di seguirmi.

Sospirò, sollevando le braccia. «Bella…» mormorò a bassa voce.

Annaspai, morsi un labbro. Trattenni in ogni modo quelle lacrime infami che volevano traboccarmi dagli occhi. Non voleva venire. Forse, non era da Jacob che voleva andare. Forse, semplicemente, si era stancato di me.

Mi sollevai, tremante, dal lettino, puntellandomi sui gomiti. Sfuggii all’aiuto che le sue mani volevano darmi, mettendo i piedi a terra. Stare in posizione eretta acuiva il dolore alle costole.

Ma come mossi due passi, sentii le forze abbandonarmi. La testa girava, veloce, in preda alle vertigini. Caddi carponi, ansimando.

«Bella!» esclamò Edward, e le sua mani furono le prime che sentii sui fianchi.

Avevo paura che la forza che mi scorreva nelle braccia fosse troppo poca per sorreggermi. Tremavo, disorientata, confusa. Tremavo, e sentivo le voci dei due medici, i loro tocchi. Ma l’unico che percepivo con certezza era quello statico di Edward. Le sue mani salde.

Una goccia cadde dal mio viso. Una lacrima. Un’altra. Sangue.

Tossii, violentemente, e non sarei mai riuscita a reggermi ancora senza alcun sostegno. Tossii, e alla goccia di sangue che macchiava il pavimento se ne unì un’altra, e un’altra, e un’altra ancora.

«Bella!» mi chiamò ancora Edward, spaventato, sorreggendo tutto il peso del mio corpo. Stavo per perdere i sensi. Chiusi gli occhi, abbandonandomi. Mi prese fra le braccia, mi sollevò.

«Portala sul lettino» ordinò una voce risoluta. Carlisle. Sentivo delle mani sui polsi, dietro la nuca, sulla fronte. Alcuni deboli colpi sulle guance. Delle voci, confuse, agitate nella mia testa, che mi chiamavano.

«Bella» un sussurro, addolorato. Un sospiro. «Bella, amore, apri gli occhi. Va tutto bene, tranquilla. Va tutto bene. Adesso Carlisle, adesso… ci sono io, Bella. Ci sono io, qui per te» mormorò, agitato e afflitto. E, piano, sentii le sue dita. Sul palmo della mano. Un cuore.

Aprii piano gli occhi, muovendo il capo da una direzione all’altra, irrazionalmente. Ero debole, ero confusa.

«Sono qui, accanto a te» mi richiamò la sua voce. Aveva capito, prima… aveva capito.

Lo fissai, insistentemente, cercando qualsiasi cosa nel suo volto.

Mi sorrise. Debolmente.

Feci immediatamente le lastre e la TAC. Edward mi seguì, mi seguì senza che glielo chiedessi con le parole o con lo sguardo, e mi tenne la mano stretta con la sua ogni istante in cui poté farlo, garantendomi continuamente la sua presenza e il suo sostegno. Mi rassicurò quando i miei occhi si facevano più spaventati, e un accarezzò, e mi baciò, ogni volta che gemevo, dolorante, o che sentivo il fiato più corto o la testa più leggera.

Attento a non farmi male mi sollevò dal lettino, prendendomi fra le braccia e facendomi scivolare sulla sedia a rotelle. A dividerci solo il sottilissimo strato del camice che mi avevano fatto indossare.

«La stanza è la N14, secondo piano» ci informò l’infermiera. «Avete bisogno che vi accompagni?».

Edward posò entrambe le mani sulla spalliera della sedia. «No, grazie, faccio da solo», rispose educatamente, cominciando a spingere. Si muoveva piano, il passo cadenzato e lento.

Gemetti debolmente, appoggiandomi, con cautela, allo schienale nero. Il movimento ritmico mi rimbombava nel corpo e nella testa. Mi sentivo spossata, dolorante. Mi girava la testa, e mi sentivo debole a ogni movimento. Non avrei immaginato di trovarmi nelle condizioni in cui versavo. Non potevo di certo oppormi all’evidenza: mi sentivo male. Ma odiavo ogni singola cosa di quello che mi circondava, men che Edward.

«Come ti senti?» mi chiese discretamente, decelerando appena il passo.

Scossi debolmente il capo. «Ce la faccio» sussurrai, arrossendo.

«Hai dolore?» chiese ancora.

Deglutii, e strinsi le mani sui manici. «Non è…» mi morsi un labbro «non così tanto» mentii, orgogliosa, spaventata.

Si fermò, sospirando. «Bella».

Il cuore accelerò la sua corsa nel petto. I miei occhi rimasero bassi, puntati sulle ginocchia e sul camice azzurro.

Edward fece il giro della sedia, piazzandosi davanti a me e chinandosi sulle ginocchia. Sollevò le ciocche di capelli che gli impedivano la vista dei miei occhi. «Bella, credo di doverti chiedere scusa anch’io. Non è solo colpa tua» ammise, mesto «forse… forse, per una volta, avrei dovuto smettere di cercare di fare la cosa che pensavo essere la migliore per te, e fare semplicemente quello che desideravo. Avrei dovuto smettere di spingerti fra le sue braccia con una mano, e tenerti a me con l’altra. Vedi?» fece, pedante «vedi le cose che abbiamo sbagliato? Ma ora sono certo» continuò «di volerti per me, e di non volerti spartire con nessuno».

«Edward…» mormorai, posando una mano sulla sua, sulla mia guancia.

«Per questo non posso fare a meno di incontrare Jacob…».

Annaspai.

«…con te, per parlare e chiarire una volta per tutte. Appena starai bene».

«Oh, Edward…» sospirai, prendendolo fra le braccia.

Mi strinse al suo petto, accarezzandomi i capelli con una mano. «Va tutto bene, Bella. Va tutto bene. Non ti lascio, non ti lascio. Andrà tutto bene…».

Mi portò fin nella stanza. Era una piccola stanza d’ospedale, di quelle che avevo imparato ad odiare nel corso della mia vita. Non era di grandi dimensioni, ma aveva un solo posto letto, e mi avrebbe così consentito una maggiore privacy. A colpirmi immediatamente fu l’odore dei fiori e la vista di un meraviglioso mazzo sistemato sul comodino. Di certo, i Cullen non erano creature prevedibili.

Ad aspettarmi, sedute sul letto, Esme e Alice.

Sorrisi appena, sforzandomi di dimostrarmi più in salute di quanto non fossi.

«Bella!» esclamò la mia amica non appena mi vide. «Oh, Bella!» fece, gli occhi colmi di tristezza, precipitandosi ad abbracciarmi.

«Va tutto bene» sussurrai appena, accarezzandole piano la schiena, «va tutto bene, davvero».

Si staccò appena per fissarmi negli occhi. «Mi dispiace così tanto. Io… non so cosa succede» fece, le parole che volavano veloce fuori dalla sua bocca. «É tutta colpa mia, ti ho fatta stancare così tanto! Se solo avessi saputo…».

Sussultai, colpita. «Non è colpa tua» feci, a bassa voce, «non… non è colpa tua» ripetei a voce più alta deglutendo. «Alice, per favore» la supplicai, «non pensarci neppure. Non farlo».

Edward posò una mano sulla mia spalla, accarezzandomi con l’altra i capelli. «Alice» mormorò, scuotendo il capo, «va bene così. Basta».

Ma la piccola vampira stava tremando, preda dei sensi di colpa. «Avrei dovuto vederti, Bella. Non c’è ragione per cui non avrei dovuto farlo. Ma ero così presa dal matrimonio che non sono riuscita a farlo, a capire che stavi male. E ora è tutto confuso e indistinto» mormorò, mesta, fissando senza riuscire a reggerlo lo sguardo di Edward «non riesco a vederti chiaramente. Oh, e se fosse successo qualcosa di più grave? E se fosse…?» singhiozzò, portandosi entrambe le mani al viso.

«Alice, Alice. Smettila!» la chiamai, tendendomi nella sua direzione, «non è colpa tua se non mi hai vista. Tu stai organizzando il mio matrimonio. Per me. Tu non hai il dovere di vegliare su tutto ciò che mi accade» alzai gli occhi al cielo, stringendo i pugni sulle ginocchia. Respirai a fondo, recuperando il fiato che mi era stato sottratto per parlare. «Lo fa già Edward, senza che nessuno glielo chieda».

Si chinò, alle mie parole, al mio fianco, sussurrando a bassa voce: «a quanto pare non è abbastanza. Forse dovrei darmi più da fare, Bella?».

M’irrigidii e scossi il capo, storcendo le labbra.

«Ragazzi» intervenne Esme, abbracciando la figlia, «l’importante è che ora la situazione si risolva, va bene? Facciamo stendere un po’ Bella».

La sorrisi, riconoscente.

Fu Edward ad aiutarmi a sollevarmi dalla sedia, tenendomi per i fianchi. Quando fui in piedi, compresi quanto il senso di debolezza e spossatezza di stesse espandendo velocemente nel mio corpo. Mi strinsi alla sua camicia, tremando per mantenermi sulle gambe, nonostante sostenesse lui stesso gran parte del mio peso. Mi pulsava la testa, dolorosamente, cadendo di tanto in tanto preda della vertigini.

«Non… non mi sento tanto bene…» mormorai contro il suo petto.

Mi accarezzò i capelli, preoccupato, sostenendo meglio il mio peso. «Le costole? Esme, chiama Carlisle per favore…». Il un rapido movimento mi sollevò da terra, prendendomi fra le braccia per adagiarmi direttamente fra le coperte, sul letto. Posò una mano su una guancia, e mi baciò la fronte.

«Edward…» feci, prendendola fra le mie «non… non ti preoccupare eccessivamente, ti prego» protestai debolmente, nonostante il tono delle mie parole chiedesse il contrario.

Alice si avvicinò, osservandomi in silenzio, preoccupata. «Febbre?» chiese, voltandosi verso il fratello.

Annuì seccamente. «Non vedi altro?».

Sospirò, sconsolata. «No, purtroppo». 

Carlisle entrò in camera pochi minuti più tardi, immergendosi in un buio silenzio. Mi doleva la testa, le membra, e il clima di muta penombra alleviava solo leggermente il mio malessere.

«Carlisle» fece Edward, sussurrando, alzandosi per andare incontro al padre, «temo che abbia la febbre. Ha detto di non sentirsi bene».

Annuì, mi venne vicino, e posò una mano fredda sulla mia fronte. Rabbrividii. «Sì. Trentotto e tre, credo» fece inflessibile. D’altronde, anche se la mia mente fosse stata più lucida in quel momento, non avrei voluto aspettarmi nulla di meno da dei secoli passati in ospedale e sensi ipersviluppati.

Sbattei debolmente le palpebre, sentendo gli occhi caldi e gonfi.

Mi sorrise, rassicurante. «Resta a letto, riposati». Sollevò lo sguardo in cerca di suo figlio «assicurati che lo faccia. Vado a ritirare i risultati degli esami e sono da voi. Vediamo se posso darle qualcosa».

Alice mi aiutò a spogliarmi di quel camice che aveva definito “orrendo”, ed aiutarmi a infilare il pigiama che lei stessa mi aveva previdentemente portato. Ogni movimento mi procurava fitte acute dalla cintola in su. Mi sistemai sotto le coperte, stremata, e subito il tepore collaborò a farmi assopire. Chiusi gli occhi.

«Dormi…».

«Mi sono appena svegliata» borbottai, protestando debolmente. 

«Sei debole». Una mano fredda, con un gesto confortante, mi accarezzò la fronte e i capelli.

Sospirai di sollievo.

«Dormi Bella amore…».

 

«Bella! Cosa le è successo?».

Aprii gli occhi di scatto, allarmata. Ansimai. Avevo riconosciuto quella voce: mio padre.

«Papà» mormorai, tentando inutilmente di tirarmi a sedere «calmati…per favore…». Parlavo con voce fioca.

Mio padre, in piedi al centro della stanza, si avvicinò al mio letto a grandi passi, allungando le braccia nella mia direzione. «Bells! Come ti senti?» mi chiese, agitato, preoccupato «sei così pallida…».

«Così…» sussurrai, lasciandomi andare, senza forze, sul cuscino. Senza neppure la forza di far imporporare le guance.

«Stai giù, Bella, non ti sforzare» mi sussurrò Edward, al mio fianco, aiutandomi a sistemarmi fra le coperte.

Il volto di Charlie si fece velocemente paonazzo. «Edward Cullen. Mi devi una spiegazione» sbottò bruscamente.

Trattenni il fiato, preoccupata per la piega che stavano prendendo le cose. Era davvero assurdo il ribaltamento della verità che era avvenuto. La persona per cui patteggiava, tra le braccia di cui aveva cercato di spingermi, mi aveva fatto questo. E proprio Edward, che invece mi aveva aiutata e salvata, stava andando in contro al rimprovero di mio padre.

«Charlie. Si sieda, prego» gli rispose, offrendogli la sedia con la solita cortesia che lo contraddistingueva.

Mio padre lo squadrò, in silenzio, e Edward sostenne educatamente il suo sguardo. Ci si lasciò cadere. «Allora? Cos’è successo?» chiese ancora, esigendo una risposta.

Edward sospirò, parlando pacatamente e con convinzione. «Eravamo a fare un pic-nic in riva al fiume. Bella è scivolata sul limo».

Strinsi i pugni sul lenzuolo, agitata, ansando. «Papà, non è stata colpa di Edward…» sussurrai, ansiosa, senza forze.

Edward si voltò nella mia direzione, passandomi una mano sulla fronte per darmi sollievo. «Shh Bella, non fa niente» mi rassicurò con dolcezza.

Mio padre serrò i pugni lungo i fianchi. «Edward! Io ti avevo affidato mia figlia!» esclamò a gran voce, minacciandolo con un dito.

«Papà» ansimai, ansiosa, provando a sollevarmi. Ero così afflitta, che avrei voluto urlargli la verità in faccia.

«Ti ho dato la mia benedizione!» continuò, ignorandomi completamente «E tu non sei stato capace di prenderti cura di lei!».

Strinsi più forte le mani sul lenzuolo, tremando.

«Bella!».

Mi accorsi che il respiro mi si bloccava fra i denti.

Non riuscivo più a respirare.

   
 
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