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Autore: Elizabeth_Keats    01/03/2009    3 recensioni
"Mi presento: il mio nome è Edward Anthony Masen, ho 17 anni e vivo a Chicago. O, per meglio dire, vivevo, visto che dalle ultime settimane a questa parte mi sembra più consono usare il passato. Tanto per iniziare a farci l’abitudine, a quest’idea. Ormai per me il tempo non significa più nulla: è troppo breve il tempo che mi rimane e troppo lungo quello che mi sarebbe spettato." Breve ff sugli ultimi giorni di Edward da umano, la sua malattia e la vita ritrovata dopo la trasformazione in vampiro grazie a Carlisle. Recensite!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Edward Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2°

Words in the moonlight

 

Smisi all’istante di respirare, sia per la sorpresa di essere stato scoperto fuori dai ranghi che per ciò che mi trovavo di fronte. Non avevo mai visto nulla di simile e il primo pensiero che mi passò per la testa quasi istintivamente fu: “non è umano”. Ma subito lo scacciai come una mosca fastidiosa, vergognandomi un poco dell’insensatezza di tale affermazione.

«È tardi. Cosa ci fai ancora in piedi?».

La sua voce mi giunse lieve e delicata come una dolce brezza estiva e insieme melodiosa e sonora come il rintocco di campane dorate. Se prima ero rimasto sbalordito, ora lo ero ancora di più con quella voce meravigliosa che mi rapì subito, come il suono del flauto di un incantatore con un cobra.

«Io… io…» balbettai.

Ero troppo confuso e frastornato per dare una risposta sensata, come per trovare le parole adatte per descrivere la persona che avevo di fronte. Già il solo definirla “persona” a chiunque sarebbe parso svilente; non era un uomo qualsiasi, nel suo aspetto doveva esserci per forza qualcosa di surreale, quasi divino. Nemmeno l’essere più bello del mondo sarebbe mai stato degno di sedere sotto la sua ombra. Il colorito era pallidissimo, candido quasi come il camice che portava. Tra i lineamenti scolpiti, che sembravano essere stati studiati accuratamente da un maestro rinascimentale, spiccavano come due fuochi un paio di occhi color topazio di una profondità impensabile. I capelli biondissimi gli incorniciavano con dolcezza il viso, facendolo assomigliare a uno di quegli angioletti raffigurati in un affresco di qualche chiesa antica.

Quasi d’istinto pensai di essere morto e che, magari, un angelo bellissimo come quello fosse appena venuto a prendermi: ciò significava che ero finalmente libero dalla malattia. Poi sentii ancora quel familiare bruciore nei polmoni e capii che, visto che ero ancora nel mondo reale, quella doveva essere un’allucinazione causata dalla febbre oppure… la realtà. Dovevo essere rimasto lì imbambolato a fissarlo per parecchio tempo, visto che mi sorrise divertito e quel semplice gesto sembrò spargere nella penombra della camerata una luce radiosa

«Fa’ lo stesso. Non mi interessa sapere cosa stavi facendo. Ma adesso è meglio che tu ti metta a dormire sul serio, che ne dici?».

Mi si avvicinò ancora di più e un alito di vento proveniente dalla finestra mi portò il suo profumo: fresco e speziato, come di pini e frizzante aria di montagna, che mi fece subito revocare i bei giorni di libertà e le corse a perdifiato attraverso sconfinati prati verdi. Nel notare ancora una volta il mio sconcerto, lo strano individuo sorrise un’altra volta e, così facendo, potei notare, tra la sua chiostra di denti bianchissimi e perfetti, che i canini sembravano leggermente appuntiti. Sbattei le palpebre: doveva essere stata un’illusione dovuta alla scarsa luce. Con movimenti fluidi, senza fare il benché minimo rumore e usando la stessa delicatezza che avrebbe usato mia madre, mi sprimacciò il cuscino e mise a posto le coperte, in attesa che tornassi a fare il malato. Obbedii in silenzio senza però staccare mai lo sguardo da lui. Ero più che sicuro che quei due occhi dorati sarebbero riapparsi più di una volta nei miei sogni.

«Non ti ho mai visto qui…» sussurrai e la mia voce, uscendo in un rantolo dalla mia gola riarsa, mi parve rauca e goffa in confronto alla sua.

Prima di rispondere mi squadrò intensamente, quasi mettendomi in soggezione, e subito capii che dietro quel bel volto si nascondeva qualcosa di molto di più rispetto a quello che dava a intendere all’apparenza.

«Be’, sì, in effetti è da poco che lavoro qui. Il mio nome è Carlisle Cullen, ho 23 anni e mi sono trasferito da poco qui a Chicago da Londra. Mi sono laureato di recente in medicina all’università di Oxford e adesso sono qui a curare la gente dall’epidemia. Ti basta?».

Rimasi senza parole per qualche istante, colpito da quella presentazione così dettagliata, quasi che, nel parlarmi, avesse sbirciato sulla sua carta d’identità. Londra… mmm, sì, in effetti avevo notato uno strano accento che, di certo, non poteva essere americano.

«E come mai hai deciso di trasferirti qui in America… Carlisle? Dopotutto, dicono che Londra è una bella città».

Fece una smorfia. «Sì, forse un po’ troppo chiassosa e inquinata, però».

«Be’, non che Chicago sia una valle verde…». Cercai di sorridere, ma mi riuscì soltanto un ghigno scomposto simile al suo.

Lui sospirò e io mi maledissi: probabilmente avevo toccato qualche tasto dolente. «Hai ragione. Comunque diciamo che… avevo voglia di cambiare aria, forse anche perché pure io ero… cambiato ultimamente. Quell’ambiente mi stava ormai troppo stretto e sentivo che i miei orizzonti erano più ampi. Così eccomi qui…».

Quella risposta sgangherata non soddisfaceva di certo la mia ardente curiosità verso il nuovo arrivato, con il quale, nonostante la mia spiccata timidezza, avevo iniziato a conversare come se lo conoscessi ormai da tempo immemorabile. Però decisi che era meglio non indagare oltre, quindi lasciai cadere l’argomento. Chiusi per un attimo gli occhi, sentendo ancora una volta tutta la stanchezza crollarmi addosso. Si era ormai fatto tardi e il mio corpo sfibrato ribadiva la gran voce la sua necessità di riposarsi, ma io non avevo ancora voglia di abbandonarmi all’oblio del sonno, come avevo già fatto innumerevoli volte per non dovermi soffermare sulla mia disperata condizione. Volevo stare ancora a parlare con quell’individuo così strano, con quel Carlisle. Raccogliendo tutte le ultime energie che mi erano rimaste mi riscossi da quel torpore e tornai a fissarlo: senza che me ne accorgessi si era seduto sul bordo del mio letto e il chiarore della luna dava al suo incarnato pallido una sfumatura azzurrognola.

«E tu come ti chiami?» domandò e per la prima volta notai un certo disagio nel suo tono.

Cercai di tirarmi su con i gomiti per guardarlo meglio in faccia, ma un improvviso giramento di testa mi disse che era meglio rimanere dov’ero.

«Edward Masen» risposi.

Fece uno strano movimento con la testa che non riuscii ad interpretare ed ispirò a fondo. «Ah, sì, ho sentito parlare molto di te dagli altri medici. E anche di tu madre, Elizabeth, giusto?».

Con tutta la determinazione che possedevo e mordendomi forte il labbro inferiore, mi costrinsi a fissare il soffitto, per evitare che, dopo quell’allusione a mia madre, il mio sguardo vagasse sul letto di fianco al mio. Come avrebbe potuto la storia di una povera madre che, nonostante la sua salute già precaria, si ostinava a prendersi cura del figlio anch’esso malato non circolare tra i medici e le infermiere di turno, accompagnato magari da qualche testa scossa, da qualche sospiro triste, da qualche sguardo abbassato e da qualche espressione di compassione?

«Sì». Ora la mia voce era più decisa, come la morsa dei miei denti contro il labbro. Non mi andava di parlare di mia madre, negli ultimi tempi aveva sempre costituito un punto di sofferenza per me, che mi faceva stare ancora di male di quanto già non stessi. Era quel pensiero brutto che mi prendeva quando la febbre raggiungeva picchi particolarmente alti, quando mi sentivo mancare l’aria, quando mi sentivo morire e pregavo che tutto si spegnesse attorno a me. Era la lama affilata che andava a colpire senza pietà il mio tallone d’Achille.

Dal mio tono coinciso Carlisle dovette capire che, come per lui in precedenza, quello non era uno dei miei argomenti preferiti, visto che si affrettò subito a dire: «Scusa, mi dispiace».

«Non ti preoccupare», tanto il dolore ormai è mio amico: frase di circostanza.

Per qualche minuto, mentre io costringevo i miei pensieri a concentrarsi su una crepa nel soffitto, calò il silenzio tra di noi e la stanza era riempita soltanto dai respiri rantolanti degli altri malati. Il mio respiro, che prima si era fatto affannato, pian piano ritrovò il suo ritmo normale e, quando mi pareva che fosse ormai passata un’eternità e alzai lo sguardo per vedere se se n’era andato, lo ritrovai ancora lì al mio fianco, in rispettoso silenzio. La sua era un’espressione compassionevole di come ne avevo già viste tante da quando ero lì, ma in un certo qual modo diversa. Era come se… be’, come se, anche se ci conoscevamo da sì e no una decina di minuti, riuscisse a capire tutte le mie sofferenze, senza però darlo a intendere. Forse anche lui aveva sofferto come me e riusciva a mettersi nei miei panni ma… non voleva elevarsi a colui che conosce la soluzione di tutti i problemi. Per la prima volta da quando avevo fatto di quel letto d’ospedale da mia dimora estrema, mi sentivo vicino qualcuno che non era prodigo di pietà come gli altri medici, bensì i suoi sentimenti erano più che sinceri. Nessuno mi aveva mai guardato in quel modo. Non sapevo come descriverlo; non era pietà, non era voglia di ascoltarmi o di aiutarmi concretamente, non era semplice carità o affetto. Era qualcosa di più, che mi fece dire: “siamo sulla stessa barca”.

«Come ti senti?».

Altra frase di circostanza: ridicola. Come credeva che stessi? È forse il genere di domande che si fa a un moribondo?  Risi sguaiatamente, ma, come il sorriso di prima, ne venne fuori soltanto qualcosa di turpe e cacofonico.

«Come vuoi mi senta? Sto per morire!». E risi ancora.

Lui abbassò lo sguardo e, come prima, mi sembrò che tutta la compassione che aveva rinchiusa nel cuore sgorgasse ora a fiotti da quelle iridi dorate. Ma io volevo infierire: non mi interessavano gli intercalari pietosi di nessuno… anche se sapevo benissimo che quella che mi stava dimostrano quel giovane dottore era una forma più elevata di misericordia, che però non volevo né riuscivo a decifrare.

«Sono malato. La malattia mi logora ogni giorno, ogni minuto, ogni mezzo istante. Sono stanco. Stanco di tossire, di sentirmi debole, di delirare per la febbre troppo alta. Stanco di soffrire, di vedere gli altri soffrire. Ancora qualche giorno e, forse, finalmente avrò finito con questo tormento! La gente qui muore, capito? Non esce da qui, non ne esce viva e in salute. Muore, proprio come mio padre, come tanti altri che ho visto. Forse lei, dottore, ha sbagliato reparto se credeva di riuscire a guarire qualcuno. Ci portano qui e aspettiamo… non facciamo nient’altro».

«Quindi tu hai già gettato la spugna? Tutto qui? Ti arrendi e basta?».

«Tic tac, tic tac. Non sono io che decido, è il tempo, il poco tempo che mi rimane che mi fa pensare questo. Non Dio, non una medicina: non servono a nulla quando senti dentro di te i minuti che si accorciano».

«Non Dio?».

«No. Se dipendesse da lui di certo non sarei qui, no? Dio è amore, dicono, e qui non c’è amore: solo l’ultimo capitolo di un libro più o meno lungo».

Tacque ancora una volta: forse l’avevo messo in difficoltà. E mentre parlavo quasi ansimante sentivo tutto il dolore accumulato che mi si riversava addosso come una doccia fredda. E io lasciavo che quell’acqua sporca corresse, non mi affannavo a frenarla. C’era, dopotutto, e non riuscivo a trovare alcuna scusa abbastanza valida per negarne l’esistenza. Tutti i miei pensieri affannati, tutte le angosce che mi avevano stretto la gola e preso allo stomaco, tutte le lacrime calde che mi avevano irritato le guance, tutte le preghiere farfugliate, tutti gli insulti rivolti a nessuno, a un’ingiustizia astratta ma presente, tutta la stanchezza che mi aveva atterrato più di una volta. Tutto mi crollò addosso, con un suono indistinto e metallico, come un chiacchiericcio assordante e confuso.

«Però c’è ancora qualcuno che spera per te…» sussurrò Carlisle. Non sembrava voler difendere la sua posizione né tentare di farmi cambiare idea: un altro punto che non riuscivo a capire. «C’è ancora tua madre. Da quando sono qua vi ho osservato a lungo: non è insensato, tragicamente romantico o drammatico quello che sta facendo. Lei ha ancora la forza di lottare, tu no».

Strinsi i pungi e quell’ultima frase mi cadde addosso come l’ultimo masso della valanga, il più pesante.

«Ognuno ha il diritto di credere in quello che ritiene più giusto e di spendere il tempo che gli è concesso come meglio crede».

«Non dovresti denigrare così tua madre, giudicando così superficialmente il suo amore per te. Si vede che sei ancora molto giovane…» fu il suo commento sussurrato tra i denti.

«Non molto più giovane di qualcun altro» replicai squadrandolo da capo a piedi.

Questa affermazione lo punse sul vivo, facendogli aggrottare le sopracciglia e socchiudere le labbra come per rispondere a tono. Ma poi sembrò ripensarci e, lasciandomi lì stupito e frastornato, si alzò dal bordo del letto con un altro dei suoi movimenti fluidi e si allontanò come un fantasma silenzioso, senza aggiungere altro.

Ma io sapevo con certezza che l’avrei rivisto. Prima della fine.

Capitolo particolarmente difficile: spero di aver reso bene l'idea. Il personaggio di Carlisle non è ancora ben definito e lui è stato il punto più difficile di tutta la situazione. Comunque avrò occasione di rivederlo meglio nei prossimi capitolo. Va bene, non aggiungo altro: sta a voi commentare. Ringrazio:

dora92:  grazie mille per i complimenti! Ok, è noto che io con gli aggiornamenti frequenti non vado molto d'accordo (soprattutto a causa dell'ispirazione e della pigrizia). Spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo!

Wind: grazie anche a te! Mi fa sempre piacere sentirmi dire che so identificarmi bene con un personaggio!

Faby hale: sì, ho deciso che andrò anche un po' oltre la trasformazione, ma non troppo, sennò diventerebbe la storia della famiglia Cullen, quando io invece voglio sioffermarmi solo su Edward e tutti gli annessi e connessi alla sua trasformazione

Mi aspetto mooooooooooooooolte recensioni, eh? See you soon guys! <3

  
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