Capitolo 2°
Words in the
moonlight
Smisi
all’istante di respirare, sia per la sorpresa di essere stato
scoperto fuori
dai ranghi che per ciò che mi trovavo di fronte. Non avevo
mai visto nulla di
simile e il primo pensiero che mi passò per la testa quasi
istintivamente fu:
“non è umano”. Ma subito lo scacciai
come una mosca fastidiosa, vergognandomi
un poco dell’insensatezza di tale affermazione.
«È
tardi. Cosa ci fai ancora in piedi?».
La
sua voce mi giunse lieve e delicata come una dolce brezza estiva e
insieme
melodiosa e sonora come il rintocco di campane dorate. Se prima ero
rimasto
sbalordito, ora lo ero ancora di più con quella voce
meravigliosa che mi rapì
subito, come il suono del flauto di un incantatore con un cobra.
«Io…
io…» balbettai.
Ero
troppo confuso e frastornato per dare una risposta sensata, come per
trovare le
parole adatte per descrivere la persona che avevo di fronte.
Già il solo
definirla “persona” a chiunque sarebbe parso
svilente; non era un uomo qualsiasi,
nel suo aspetto doveva esserci per forza qualcosa di surreale, quasi
divino.
Nemmeno l’essere più bello del mondo sarebbe mai
stato degno di sedere sotto la
sua ombra. Il colorito era pallidissimo, candido quasi come il camice
che
portava. Tra i lineamenti scolpiti, che sembravano essere stati
studiati
accuratamente da un maestro rinascimentale, spiccavano come due fuochi
un paio
di occhi color topazio di una profondità impensabile. I
capelli biondissimi gli
incorniciavano con dolcezza il viso, facendolo assomigliare a uno di
quegli
angioletti raffigurati in un affresco di qualche chiesa antica.
Quasi
d’istinto pensai di essere morto e che, magari, un angelo
bellissimo come
quello fosse appena venuto a prendermi: ciò significava che
ero finalmente
libero dalla malattia. Poi sentii ancora quel familiare bruciore nei
polmoni e
capii che, visto che ero ancora nel mondo reale, quella doveva essere
un’allucinazione causata dalla febbre oppure… la
realtà. Dovevo essere rimasto
lì imbambolato a fissarlo per parecchio tempo, visto che mi
sorrise divertito e
quel semplice gesto sembrò spargere nella penombra della
camerata una luce
radiosa
«Fa’
lo stesso. Non mi interessa sapere cosa stavi facendo. Ma adesso
è meglio che
tu ti metta a dormire sul serio, che ne dici?».
Mi
si avvicinò ancora di più e un alito di vento
proveniente dalla finestra mi
portò il suo profumo: fresco e speziato, come di pini e
frizzante aria di
montagna, che mi fece subito revocare i bei giorni di
libertà e le corse a
perdifiato attraverso sconfinati prati verdi. Nel notare ancora una
volta il
mio sconcerto, lo strano individuo sorrise un’altra volta e,
così facendo,
potei notare, tra la sua chiostra di denti bianchissimi e perfetti, che
i
canini sembravano leggermente appuntiti. Sbattei le palpebre: doveva
essere
stata un’illusione dovuta alla scarsa luce. Con movimenti
fluidi, senza fare il
benché minimo rumore e usando la stessa delicatezza che
avrebbe usato mia
madre, mi sprimacciò il cuscino e mise a posto le coperte,
in attesa che
tornassi a fare il malato. Obbedii in silenzio senza però
staccare mai lo
sguardo da lui. Ero più che sicuro che quei due occhi dorati
sarebbero
riapparsi più di una volta nei miei sogni.
«Non
ti ho mai visto qui…» sussurrai e la mia voce,
uscendo in un rantolo dalla mia gola
riarsa, mi parve rauca e goffa in confronto alla sua.
Prima
di rispondere mi squadrò intensamente, quasi mettendomi in
soggezione, e subito
capii che dietro quel bel volto si nascondeva qualcosa di molto di
più rispetto
a quello che dava a intendere all’apparenza.
«Be’,
sì, in effetti è da poco che lavoro qui. Il mio
nome è Carlisle Cullen, ho 23
anni e mi sono trasferito da poco qui a Chicago da Londra. Mi sono
laureato di
recente in medicina all’università di Oxford e
adesso sono qui a curare la
gente dall’epidemia. Ti basta?».
Rimasi
senza parole per qualche istante, colpito da quella presentazione
così
dettagliata, quasi che, nel parlarmi, avesse sbirciato sulla sua carta
d’identità.
Londra… mmm, sì, in effetti avevo notato uno
strano accento che, di certo, non
poteva essere americano.
«E
come mai hai deciso di trasferirti qui in America… Carlisle?
Dopotutto, dicono
che Londra è una bella città».
Fece
una smorfia. «Sì, forse un po’ troppo
chiassosa e inquinata, però».
«Be’,
non che Chicago sia una valle verde…». Cercai di
sorridere, ma mi riuscì
soltanto un ghigno scomposto simile al suo.
Lui
sospirò e io mi maledissi: probabilmente avevo toccato
qualche tasto dolente.
«Hai ragione. Comunque diciamo che… avevo voglia
di cambiare aria, forse anche perché
pure io ero… cambiato
ultimamente. Quell’ambiente
mi stava ormai troppo stretto e sentivo che i miei orizzonti erano
più ampi. Così
eccomi qui…».
Quella
risposta sgangherata non soddisfaceva di certo la mia ardente
curiosità verso
il nuovo arrivato, con il quale, nonostante la mia spiccata timidezza,
avevo
iniziato a conversare come se lo conoscessi ormai da tempo
immemorabile. Però decisi
che era meglio non indagare oltre, quindi lasciai cadere
l’argomento. Chiusi per
un attimo gli occhi, sentendo ancora una volta tutta la stanchezza
crollarmi addosso.
Si era ormai fatto tardi e il mio corpo sfibrato ribadiva la gran voce
la sua
necessità di riposarsi, ma io non avevo ancora voglia di
abbandonarmi all’oblio
del sonno, come avevo già fatto innumerevoli volte per non
dovermi soffermare
sulla mia disperata condizione. Volevo stare ancora a parlare con
quell’individuo
così strano, con quel Carlisle. Raccogliendo tutte le ultime
energie che mi
erano rimaste mi riscossi da quel torpore e tornai a fissarlo: senza
che me ne
accorgessi si era seduto sul bordo del mio letto e il chiarore della
luna dava
al suo incarnato pallido una sfumatura azzurrognola.
«E
tu come ti chiami?» domandò e per la prima volta
notai un certo disagio nel suo
tono.
Cercai
di tirarmi su con i gomiti per guardarlo meglio in faccia, ma un
improvviso
giramento di testa mi disse che era meglio rimanere dov’ero.
«Edward
Masen» risposi.
Fece
uno strano movimento con la testa che non riuscii ad interpretare ed
ispirò a
fondo. «Ah, sì, ho sentito parlare molto di te
dagli altri medici. E anche di
tu madre, Elizabeth, giusto?».
Con
tutta la determinazione che possedevo e mordendomi forte il labbro
inferiore,
mi costrinsi a fissare il soffitto, per evitare che, dopo
quell’allusione a mia
madre, il mio sguardo vagasse sul letto di fianco al mio. Come avrebbe
potuto
la storia di una povera madre che, nonostante la sua salute
già precaria, si
ostinava a prendersi cura del figlio anch’esso malato non
circolare tra i
medici e le infermiere di turno, accompagnato magari da qualche testa
scossa,
da qualche sospiro triste, da qualche sguardo abbassato e da qualche
espressione di compassione?
«Sì».
Ora la mia voce era più decisa, come la morsa dei miei denti
contro il labbro. Non
mi andava di parlare di mia madre, negli ultimi tempi aveva sempre
costituito
un punto di sofferenza per me, che mi faceva stare ancora di male di
quanto già
non stessi. Era quel pensiero brutto che mi prendeva quando la febbre
raggiungeva picchi particolarmente alti, quando mi sentivo mancare
l’aria,
quando mi sentivo morire e pregavo che tutto si spegnesse attorno a me.
Era la
lama affilata che andava a colpire senza pietà il mio
tallone d’Achille.
Dal
mio tono coinciso Carlisle dovette capire che, come per lui in
precedenza,
quello non era uno dei miei argomenti preferiti, visto che si
affrettò subito a
dire: «Scusa, mi dispiace».
«Non
ti preoccupare», tanto il dolore ormai è mio
amico: frase di circostanza.
Per
qualche minuto, mentre io costringevo i miei pensieri a concentrarsi su
una
crepa nel soffitto, calò il silenzio tra di noi e la stanza
era riempita
soltanto dai respiri rantolanti degli altri malati. Il mio respiro, che
prima
si era fatto affannato, pian piano ritrovò il suo ritmo
normale e, quando mi
pareva che fosse ormai passata un’eternità e alzai
lo sguardo per vedere se se
n’era andato, lo ritrovai ancora lì al mio fianco,
in rispettoso silenzio. La sua
era un’espressione compassionevole di come ne avevo
già viste tante da quando
ero lì, ma in un certo qual modo diversa. Era come
se… be’, come se, anche se
ci conoscevamo da sì e no una decina di minuti, riuscisse a
capire tutte le mie
sofferenze, senza però darlo a intendere. Forse anche lui
aveva sofferto come
me e riusciva a mettersi nei miei panni ma… non voleva
elevarsi a colui che
conosce la soluzione di tutti i problemi. Per la prima volta da quando
avevo
fatto di quel letto d’ospedale da mia dimora estrema, mi
sentivo vicino
qualcuno che non era prodigo di pietà come gli altri medici,
bensì i suoi
sentimenti erano più che sinceri. Nessuno mi aveva mai
guardato in quel modo. Non
sapevo come descriverlo; non era pietà, non era voglia di
ascoltarmi o di
aiutarmi concretamente, non era semplice carità o affetto.
Era qualcosa di più,
che mi fece dire: “siamo sulla stessa barca”.
«Come
ti senti?».
Altra
frase di circostanza: ridicola. Come credeva che stessi? È
forse il genere di
domande che si fa a un moribondo?
Risi sguaiatamente,
ma, come il sorriso di prima, ne venne fuori soltanto qualcosa di turpe
e
cacofonico.
«Come
vuoi mi senta? Sto per morire!». E risi ancora.
Lui
abbassò lo sguardo e, come prima, mi sembrò che
tutta la compassione che aveva
rinchiusa nel cuore sgorgasse ora a fiotti da quelle iridi dorate. Ma
io volevo
infierire: non mi interessavano gli intercalari pietosi di
nessuno… anche se
sapevo benissimo che quella che mi stava dimostrano quel giovane
dottore era
una forma più elevata di misericordia, che però
non volevo né riuscivo a
decifrare.
«Sono
malato. La malattia mi logora ogni giorno, ogni minuto, ogni mezzo
istante. Sono
stanco. Stanco di tossire, di sentirmi debole, di delirare per la
febbre troppo
alta. Stanco di soffrire, di vedere gli altri soffrire. Ancora qualche
giorno e,
forse, finalmente avrò finito con questo tormento! La gente
qui muore, capito? Non
esce da qui, non ne esce viva e in salute. Muore, proprio come mio
padre, come
tanti altri che ho visto. Forse lei, dottore, ha sbagliato reparto se
credeva
di riuscire a guarire qualcuno. Ci portano qui e aspettiamo…
non facciamo nient’altro».
«Quindi
tu hai già gettato la spugna? Tutto qui? Ti arrendi e
basta?».
«Tic
tac, tic tac. Non sono io che decido, è il tempo, il poco
tempo che mi rimane
che mi fa pensare questo. Non Dio, non una medicina: non servono a
nulla quando
senti dentro di te i minuti che si accorciano».
«Non
Dio?».
«No.
Se dipendesse da lui di certo non sarei qui, no? Dio è
amore, dicono, e qui non
c’è amore: solo l’ultimo capitolo di un
libro più o meno lungo».
Tacque
ancora una volta: forse l’avevo messo in
difficoltà. E mentre parlavo quasi
ansimante sentivo tutto il dolore accumulato che mi si riversava
addosso come
una doccia fredda. E io lasciavo che quell’acqua sporca
corresse, non mi
affannavo a frenarla. C’era, dopotutto, e non riuscivo a
trovare alcuna scusa
abbastanza valida per negarne l’esistenza. Tutti i miei
pensieri affannati,
tutte le angosce che mi avevano stretto la gola e preso allo stomaco,
tutte le
lacrime calde che mi avevano irritato le guance, tutte le preghiere
farfugliate, tutti gli insulti rivolti a nessuno, a
un’ingiustizia astratta ma
presente, tutta la stanchezza che mi aveva atterrato più di
una volta. Tutto mi
crollò addosso, con un suono indistinto e metallico, come un
chiacchiericcio
assordante e confuso.
«Però
c’è ancora qualcuno che spera per
te…» sussurrò Carlisle. Non sembrava
voler
difendere la sua posizione né tentare di farmi cambiare
idea: un altro punto
che non riuscivo a capire. «C’è ancora
tua madre. Da quando sono qua vi ho
osservato a lungo: non è insensato, tragicamente romantico o
drammatico quello
che sta facendo. Lei ha ancora la forza di lottare, tu no».
Strinsi
i pungi e quell’ultima frase mi cadde addosso come
l’ultimo masso della
valanga, il più pesante.
«Ognuno
ha il diritto di credere in quello che ritiene più giusto e
di spendere il
tempo che gli è concesso come meglio crede».
«Non
dovresti denigrare così tua madre, giudicando
così superficialmente il suo
amore per te. Si vede che sei ancora molto
giovane…» fu il suo commento
sussurrato tra i denti.
«Non
molto più giovane di qualcun altro» replicai
squadrandolo da capo a piedi.
Questa
affermazione lo punse sul vivo, facendogli aggrottare le sopracciglia e
socchiudere le labbra come per rispondere a tono. Ma poi
sembrò ripensarci e,
lasciandomi lì stupito e frastornato, si alzò dal
bordo del letto con un altro
dei suoi movimenti fluidi e si allontanò come un fantasma
silenzioso, senza
aggiungere altro.
Ma io sapevo con certezza che l’avrei rivisto. Prima della fine.
Capitolo particolarmente difficile: spero di aver reso bene l'idea. Il personaggio di Carlisle non è ancora ben definito e lui è stato il punto più difficile di tutta la situazione. Comunque avrò occasione di rivederlo meglio nei prossimi capitolo. Va bene, non aggiungo altro: sta a voi commentare. Ringrazio:
dora92: grazie mille per i complimenti! Ok, è noto che io con gli aggiornamenti frequenti non vado molto d'accordo (soprattutto a causa dell'ispirazione e della pigrizia). Spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo!
Wind: grazie anche a te! Mi fa sempre piacere sentirmi dire che so identificarmi bene con un personaggio!
Faby hale: sì, ho deciso che andrò anche un po' oltre la trasformazione, ma non troppo, sennò diventerebbe la storia della famiglia Cullen, quando io invece voglio sioffermarmi solo su Edward e tutti gli annessi e connessi alla sua trasformazione
Mi aspetto mooooooooooooooolte recensioni, eh? See you soon guys! <3