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Autore: Elizabeth_Keats    08/02/2009    4 recensioni
"Mi presento: il mio nome è Edward Anthony Masen, ho 17 anni e vivo a Chicago. O, per meglio dire, vivevo, visto che dalle ultime settimane a questa parte mi sembra più consono usare il passato. Tanto per iniziare a farci l’abitudine, a quest’idea. Ormai per me il tempo non significa più nulla: è troppo breve il tempo che mi rimane e troppo lungo quello che mi sarebbe spettato." Breve ff sugli ultimi giorni di Edward da umano, la sua malattia e la vita ritrovata dopo la trasformazione in vampiro grazie a Carlisle. Recensite!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Edward Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1°

Over the mirror

 

Mi presento: il mio nome è Edward Anthony Masen, ho 17 anni e vivo a Chicago. O, per meglio dire, vivevo, visto che dalle ultime settimane a questa parte mi sembra più consono usare il passato. Tanto per iniziare a farci l’abitudine, a quest’idea. Ormai per me il tempo non significa più nulla: è troppo breve il tempo che mi rimane e troppo lungo quello che mi sarebbe spettato. Secondi, minuti, ore… non sono niente in confronto all’eterna oscurità a cui sto andando in contro, a quella voragine senza fondo a cui mi sto avvicinando pian piano, passo per passo. È il 1918, anche se non so di preciso che giorno di quale mese: ormai ho smesso di tenere il conto da un po’. Però deve essere estate, credo, anche se ora tutto, perfino il sole ardente che mi batte sul volto, mi sembra freddo: anche alla febbre alta ho fatto l’abitudine. Mio padre, Edward Senior, è un avvocato di successo e io, fino a qualche settimana fa, un ragazzo allegro e solare, seppur un po’ timido e incredibilmente sensibile, nel pieno dei suoi anni e a cui piaceva fantasticare a più non posso sul suo futuro, una lunga strada aperta davanti a sé. Quelli erano gli anni della guerra, ma io non provavo dolore e tristezza come gli altri, anzi nella distruzione generale vedevo la mia prima possibilità. La possibilità di farmi notare, di far vedere quanto valevo e, da quando avevano abbassato l’età di arruolamento a diciotto anni, contavo i giorni che mi separavano dalla mia partenza per il fronte. Mia madre, a buon ragione, aveva paura per me, ma non mi importava più di tanto, non mi importava che stessi per prendere parte a uno dei banchetti più cruenti della storia: ero solo un ragazzo e, come tale, volevo sognare. Ero ingenuo e, benché fossi considerato quasi un adulto, non avevo idea di cosa fossero davvero il male e la sofferenza. Poi tutto, dai miei progetti alla mia spensieratezza, è cambiato. Mi sono ammalato gravemente di spagnola, come i miei genitori, e sono finito in un letto d’ospedale. Dove mi trovo tutt’ora. Per consolarmi cerco di parlare al passato, come se fossi già morto, visto che so benissimo che questa sarà la mia sorte. Lo leggo sui volti delle infermiere che vanno e vengono tra le corsie con sguardo basso, me ne sono conferma i colpi di tosse dei miei compagni di sventura. E poi… lo so. Dicono che in punto di morte, quando l’anima inizia a staccarsi dalle sue spoglie terrene, si capiscono molte cose. Io ho capito quale sarebbe stata la mia fine appena ho visto mio padre spirare nel letto a fianco al mio. Non ricordo neanche se ho pianto; a causa della febbre alta ormai sono perennemente calato in uno stato di semi-coscienza. Quando ho preso atto di questa cosa, del fatto che di lì a breve sarei morto, però non ho avuto paura. Sarebbe stata come una dose di morfina soltanto un po’ più forte, che avrebbe messo a tacere per sempre i dolori del corpo e dell’anima, regalandomi finalmente un sonno tranquillo lontano dal fuoco della febbre e dai continui spasimi. Mi rendevo conto che non ero più il bel ragazzo medio borghese, istruito e dalle maniere raffinate, a volte un po’ superficiale, che dava molte cose per scontate; ora ero un qualunque malato terminale, come ce n’erano a centinaia in quegli anni di epidemia. Pian piano avevo iniziato a cancellare i miei progetti futuri e i miei sogni, avevo iniziato a parlare di me stesso al passato, come se fossi già morto: era il mio modo di accettare la cosa. Era stato facile dopotutto, rinunciare alla vita e a tutto il resto; un po’ come prendere la propria agenda e cancellare tutti i programmi del weekend e quelli delle settimane a venire: i miei impegni arrivavano solo fino a venerdì, di lì in poi il nulla. E ora non facevo altro che aspettare il fatidico momento nel quale avrei smesso di bruciare.

Ma se io avevo perso la speranza e mi avviavo con la pacatezza di un condannato verso quell’epilogo triste ed irreversibile, c’era, invece, chi cercava ancora qualcosa a cui aggrapparsi goffamente continuando a lottare invano. Puro istinto di sopravvivenza, forse. Sentii una mano sfiorarmi delicatamente la guancia e socchiusi gli occhi quel tanto che mi permetteva il mio fisico debilitato. Avrei potuto riconoscere quel tocco tra milioni, anche perché era una delle poche cose che potevo considerare se non calde almeno tiepide. Il volto di mia madre si abbassò sul mio per deporre un bacio leggero sulla mia fronte imperlata di sudore e i suoi capelli bronzei, delle stesso colore dei miei, mi coprirono la visuale come un’ala protettrice. Ne inspirai il profumo zuccherato per l’ennesima volta e quello costituiva uno dei miei ultimi ponti con la vita. Il suo respiro era caldo sul mio volto e chiunque avrebbe potuto notare in quel volto pallido ed emaciato i segni indelebili della malattia che la stava rosicchiando inesorabilmente. Ma nonostante lei stesse male come me, si era sempre rifiutata di starsene con le mani in mano e fare la malata. Nonostante la febbre che le annebbiava la vista e la tosse che scuoteva il suo corpicino fragile che diventava ogni giorno più magro, s’ostinava a fare la spola tra me e mio padre. Quando conservavo ancora un barlume di forza e lucidità mi ero arrabbiato con lei e l’avevo rimproverata, ma non c’era stato nulla da fare e anche le preghiere dei medici non erano valse a nulla. Non sapevo come aveva preso la morte di papà, non avevo nemmeno avuto il coraggio o la forza di chiederglielo, ma sapevo benissimo che soffriva molto più di quello che dava a vedere. Aveva amato molto mio padre, ma di certo al momento provava molto più dolore nel vedere il suo unico figlio costretto in un letto senza possibilità di uscirne. Per questo mi stava costantemente vicina, peggiorando così ancora di più la sua già fragile salute, e forse anche perché era convinta che ce l’avrei fatta. Ma io ero più realistico: a volte mi veniva quasi voglia di saltare in piedi e mettermi a urlare che ormai era finita, che non valeva la pena di affaccendarsi attorno a me, sarei morto in poco tempo. Però avevo l’energia necessaria sì e no per mettere insieme due pensieri di senso compiuto e anche quello a volte mi riusciva difficile e poi, di sicuro, non sarei mai stato capace di infrangere così brutalmente le deboli speranze di Elizabeth Masen.

Osservo con occhi socchiusi il sopraggiungere della notte: i colori dorati del sole abbandonano pian piano la finestra di fianco al mio letto per tingersi di mille tonalità vermiglie e violacee prima di far approdare l’oscurità. Per una volta tanto il silenzio era arrivato nella camerata: niente colpi di tosse, gemiti, pianti, urla, ansiti, preghiere recitate tra i denti. E mentre fisso l’ultimo raggio di luce scomparire oltre il davanzale mi viene quasi da sorridere, ma questa volta si tratta di un sorriso amaro. Buffo. In quel momento mi sentivo proprio come quell’ultimo raggio di sole che si spegneva dolcemente e senza far rumore per lasciare posto a qualcos’altro. Me ne volevo andare così, con quel briciolo di serenità che mi era concesso. Sentivo la vita evaporare dalle mie membra desolate come il calore del sole aveva abbandonato quella giornata: l’ennesima. Per lasciare posto alla frescura della notte e al silenzio: magari anche quello che mi attendeva era così. Rimasi a lungo ad osservare quella finestra: dopotutto non avevo molto altro da fare, no? Quando si è malati di solito o ci si lamenta o si dorme per recuperare le forze. Io non mi ero mai lamentato e non avevo la benché minima intenzione di farlo: non avrei fatto altro che aggravare la salute e il dolore di mia madre nel palesare quanto soffrivo. Quindi bocca cucita ed espressione neutra. Non volevo neanche dormire. Ormai approfittavo di ogni singolo momento di tregua che mi dava la febbre, ogni secondo di lucidità a qualsiasi ora per osservare il mondo, per assaporare ogni minima particella di vita, per riassumere in qualche giorno quello che avrei potuto, dovuto provare in anni. È vero che cercavo di distaccarmi dalla vita per alleviare la sofferenza che avrei sperimentato una volta che me fossi dovuto separare a forza, ma questo di certo non mi impediva di osservarla, di respirarla per decodificare frettolosamente tutto ciò che aveva da dirmi. Non ne ero più dipendente, ma volevo solo capirla, analizzarla.

Si è ormai fatto buio del tutto e nel cielo notturno iniziano ad apparire le prime stelle. Ciò significa che ci sarà luce e bellezza anche nel “dopo”? Inizio a tracciare linee immaginarie che uniscono i singoli granelli d’oro che trapuntano il cielo, creando forme bizzarre. E per un momento la mia mente torna serena, si distende, non pensa più al presente, al dolore, a ciò che l’attende. No, è proprio come un tempo quando, sdraiato nel mio letto confortevole (ben diverso da questo bianco, anonimo, sterilizzato) osservavo la volta celeste, fantasticando su un domani assolato e radioso prima di addormentarmi. All’improvviso sento un briciolo di forza invadermi braccia e gambe, la nebbia si dirada un po’ dalla mia vista e per la prima volta mi rendo conto del velo di sudore che mi ricopre da capo a piedi, soffocandomi come una pellicola di plastica. Trovo perfino la forza di mettermi a sedere e mi meraviglio: che mia madre non avesse sperato invano? Ma poi sento ancora il peso che mi grava sulla testa e che mi rende gli arti pesanti, i brividi che mi scuotono ogni tanto e il fuoco che mi brucia i polmoni. Trattengo a stento un colpo di tosse per non svegliare mia madre che dorme nel letto di fianco, che prima occupava mio padre. L’hanno portato via qualche giorno fa, all’obitorio, mentre la mamma piangeva e posata un’ultima carezza piena d’amore sulla sua guancia pallida e ormai fredda. E io non sono riuscito nemmeno a salutarlo, non sono stato capace di bagnare le sue mani livide con le mie lacrime: stavo troppo male, non mi rendevo conto che quella era l’ultima volta che lo vedevo. Forse a volte la febbre è una benedizione…

Con gesti lenti e misurati getto le gambe giù dal letto e il tocco del pavimento è come ghiaccio per me. Distolgo lo sguardo dalla figura magra e pallida, dal respiro irregolare e la fronte imperlata di sudore al mio fianco: non voglio calcolare quanto tempo le resta ancora. Il mio sguardo vaga per la stanza: altri letti con altre figure tutte uguali. Alla fine la mia attenzione è attirata da un oggetto riflettente sul comodino: un piccolo specchio. Senza esitare allungo il braccio e lo prendo; non so come sia arrivato fin qui, ma non m’importa. Il mio fiato bollente ne appanna per un attimo la superficie e poi, alla tenue luce della luna appena spuntata, vedo… me. O almeno quello che dovrei essere io; stento a riconoscermi. Quella che mi fissa con un’espressione tirata e rassegnata è una faccia nuova, un fantasma spuntato da uno dei miei tanto incubi infantili. Il colorito è pallidissimo, quasi cereo, e smorto come una pianta cresciuta al buio. I lineamenti sembrano essersi affilati, induriti dal dolore; perfino le labbra sembrano più sottili e formano quasi una linea dritta e brutale sotto il naso diritto, ormai dimentiche di qualsiasi tipo di sorriso. Profonde occhiaie incorniciano un paio di occhi verdi in cui, però, si può cogliere ancora uno scintillio, seppur debole, di vita. Infine i capelli bronzei, una volta ben pettinati e brillanti al sole, ora sono scompigliati e incollati alla fronte madida di sudore. Sembro un vampiro. Con un calcolo veloce, tenendo conto del mio aspetto e della stanchezza che opprime il mio corpo, calcolo di avere sì e no un paio di giorni di vita. Tre, per essere ottimisti. Guardo ancora una volta il mio riflesso da film dell’orrore. E, ancora una volta, mi viene da sorridere. Sapevano tutti che la signorina Chamberlain, figlia di un famoso notaio, mi moriva dietro e i suoi sospiri e allusioni alla mia bellezza “divina” mi riempivano le orecchie all’infinito ogni volta che lei e la sua famiglia erano invitati a casa nostra per cena (di certo mio padre sperava per me un matrimonio degno del mio livello sociale). Ma la signorina Chamberlain non mi era mai interessata e di sicuro la mia bellezza era l’unica fonte del suo arrossire quando io entravo nella stanza: mi sarebbe piaciuto vedere se fossi riuscito a suscitare in lei la stessa emozione anche in questo stato.

Un rumore secco, proveniente dall’altra parte della camerata, mi fa sussultare e alzare repentinamente gli occhi dallo specchio con il cuore in gola. Una figura in camice bianco, sicuramente uno dei medici di turno, è in piedi sulla soglia e controlla che tutto sia a posto. Poi il suo sguardo cade su di me, seduto sul letto, e prima che io possa realizzarlo è al mio fianco.

Dico fin dall'inizio che questa sarà una ff di pochi capitoli, in primis perchè non ho voglia di impegnarmi con una cosa lunga e poi perchè l'argomento trattato si svolge nell'arco di qualche giorno (quindi le fasi immediatamente prima e immediatamente dopo la trasformazione di Edward, anche se sto pensando di inserire qualche flash-back sulla vita umana di Ed). Inoltre non assicuro di riuscire ad aggiornare con una certa regolarità, visto che ho altre ff in cantiere senza contare poi gli onerosi impegni scolastici. Be', non faccio anticipazioni di nessun tipo e non dico nient'altro: voglio sapere cosa ne pensate a freddo. A presto!

Recensite in tanti mi raccomando!!!!

  
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