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Autore: ___scream    29/11/2015    6 recensioni
[30 kiss otp challenge - raccolta - slash - newtmas]
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1- Un bacio al sapore di whisky
2- Un bacio sussurrato
3- Un bacio pieno di odio
4- Un bacio al cinema
5- Un bacio e poi addio
6- Un bacio fasullo
7- Un bacio al ballo scolastico
8- Un bacio sotto la pioggia
9- Un bacio da nerd
10- Un bacio magico
11- Un bacio al sangue
12- Un bacio alla sposa
13- Un bacio non voluto
14- Un bacio che uccide
15- Un bacio animalesco
16- Un bacio alla tua anima gemella
17- Un bacio in televisione
18- Un bacio a Dio
19- Un bacio sulla strada di casa
20- Un bacio sotto i fuochi artificiali
21- Un bacio da musical
22- Un bacio alla fine del mondo
23- Un bacio alla persona sbagliata
24- Un bacio davanti ai genitori
25- Un bacio incestuoso
26- Un bacio che mi ricorda la mamma
27- Un bacio che mi ricorda mio padre
28- Un bacio che vorrei dimenticare
29- Un bacio indecente
30- Un bacio dato per 30 volte
Genere: Fluff, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Minho, Newt, Thomas, Un po' tutti
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Genere: Romantico, Triste, Fluff
Words: 6438
Raiting: Verde
Pairing: Newt/Thomas, Minho/Teresa, minor Thomas/Gally, slash, het
Warning: AU, OOC
Note: *stende un velo pietoso su sé stessa*. Faccio schifo. Immensamente schifo. Studio come una malata per tutto il giorno, tutti i giorni, per ritrovarmi con un tre e mezzo sul libretto e vabbé non ho neppure il tempo di scrivere. Quindi mi dispiace davvero tanto se gli aggiornamenti sono una volta ogni morte di papa, cwc. Ciancio alle bande, questa cosina qui mi è venuta fuori mentre aspettavo il treno  - in ritardo come ogni giorno della mia vita. Il rapporto tra Thomas e Teresa è un po' una fissa, visto che io li amo come fratelli - e ho sperato che lo fossero per tutta la durata del primo libro, sigh - e niente, qui sono davvero fluffosi e okkay. Ci sono taaanti riferimenti a Glee (troppi). E vaaaaabbè, spero che sia decentina. Scusatemi ancora, e spero che vi piaccia! 
Disclaimer: non mi appartengono - o sarebbero ancora tutti vivi - non scrivo a scopo di lucro e bla bla bla. No, neppure Minho mi appartiene *sigh*


 


KISS ME LIKE YOU WANNA BE LOVED

We can live like Jack and Sally, if you want

 
 

Isaac Newton era in fila davanti a lui per la segreteria.

E Thomas non sapeva cosa fare.

 

C'è un momento, nella tua vita, in cui pensi 'oddio, e ora che faccio?'. Thomas non ci pensava quasi mai. Lui si nascondeva. Usava il suo QI altamente sviluppato in quasi tutte le situazioni della giornata, soprattutto quando non voleva incontrare persone spiacevoli, che portavano brutti ricordi e basta. E allora, le abilità che usava per pensare a come nascondere un possibile cadavere, le adoperava per effettuare la miglior fuga.

Così, Thomas Edison-Agnes, diciannove anni, uscito dal liceo con addirittura la lode e intento a frequentare la facoltà di Scienze Matematiche alla New York University, intratteneva rapporti sociali solamente con la sorella e con Minho, il suo migliore amico e – purtroppo – possibile cognato.

Aveva scelto apposta quell'Università e quella facoltà. Se n'era andato da Boston con le valigie e tutto, deciso ad allontanarsi dalla periferia in cui abitava e in cui si sentiva sempre così ingabbiato. I bulli che l'avevano preso di mira per tutti i quattro anni del liceo erano troppo stupidi per iscriversi ad una facoltà come quella – o a qualsiasi università, a dirla tutta.

Aveva lasciato indietro le camicie a quadri e le bretelle, aveva portato con sé solamente gli occhiali e la sua intelligenza, oltre alla sua collezione di libri, action-figures, cofanetti di serie TV e film fantascientifici e tanti, tanti, tanti, tanti fumetti.

Condivideva l'appartamento con la sorella – che, comunque, stava molto più tempo in quello di Minho, dall'altro lato del pianerottolo – vicino alla scuola di moda da lei frequentata.

Ad entrambi mancavano le loro mamme, ma il sentirle ogni giorno al telefono o comunque su Skype aiutava.

E okay, la sua vita magari non era entusiasmante quanto pensava che fosse, ma il fatto di trovarsi il ragazzo per cui aveva una cotta dal primo anno di liceo, giusto davanti a lui, in fila per la segreteria, era un colpo al cuore.

Soprattutto quando il ragazzo in questione non aveva fatto altro che prenderlo in giro per quattro lunghi anni, atteggiandosi nella sua divisa da quarterback della squadra di football del liceo.

Si sistemò gli occhiali dalla montatura nera con l'indice della mano destra, pregando qualsiasi entità divina di risvegliarsi nella sua camera, nel suo letto, al sicuro. Si maledisse da solo per non essersene rimasto a dormire, quella mattina. Tutto, tutto, era cominciato male, dal caffè in polvere finito alla sua tazza di Spiderman rotta, nel lavandino – e per fortuna che Teresa era a dormire da un'amica, o l'avrebbe ammazzata con la sola forza del suo sguardo. Il suo pullman era arrivato in ritardo, sballandogli il programma della giornata che aveva accuratamente stilato giusto la sera precedente. Se tutto non andava secondo i suoi piani, si sentiva male. Letteralmente male.

E adesso, a quanto pare, le entità divine a cui aveva chiesto ausilio non lo aiutarono affatto, facendogli rovesciare i libri dalle mani, proprio addosso alla schiena di Isaac Newton – no, purtroppo non lo scienziato.

Rimase con gli occhi chiusi per un secondo, il mondo che sembrava essersi fermato. Le mani gli tremavano, e il respiro gli si era fatto quasi pesante. Non riusciva a pensare, il suo cervello era in stand-by. Pensò di cominciare a correre via, lasciando stare i libri pagati una fortuna – sperando che qualche anima buona avesse avuto pietà di lui.

Si ricordò che gli dei amavano prendersi gioco degli umani, facendoli sentire come un pezzo di carta schiacciato a terra. Nel momento il rumore dei libri che cadevano al suolo giunse alle sue orecchie, reagì.

Si girò di scatto, fulminando quella montagna di merda di ragazzo che era inciampato, finendo proprio per urtarlo.

Nello stesso momento in cui si chinò per raccogliere i libri, Isaac Newton si girò.

Thomas chiuse gli occhi automaticamente, quasi aspettandosi il contenuto freddo e appiccicoso delle granite che riceveva giornalmente, in faccia.

«Edison?!».

È perché preferisco Loki a Thor, vero? Vero?!, pensò quasi istericamente, nella sua testa.

Alzò lo sguardo, incrociando quello dell'altro ragazzo, che lo guardava con una specie di smorfia divertita sul viso.

«Ti hanno tagliato la lingua, per caso?», continuò quello, imperturbato.

Lui scosse la testa, negando, raccogliendo poi i suoi libri e risistemandosi ancora una volta gli occhiali.

«Che sorpresa vederti qui», mormorò, a disagio. Perché non te ne torni a Boston, Isaac? Anche lì è pieno di università. LASCIA STARE NEW YORK, PER L'AMOR DEL CIELO!

Cercò di riafferrare le redini del suo autocontrollo, fallendo miseramente.

«Puoi dirlo forte!», esclamò Isaac. «Non avevo intenzione di trasferirmi qua, sinceramente, ma hanno uno dei corsi di letteratura inglese migliori di tutti gli Stati Uniti, quindi..», lasciò in sospeso la frase, gesticolando.

Bugiardo, potevi andare a Yale o Harvard!, pensò Thomas, aggressivamente.

«E tu.. fammi indovinare, Scienze Matematiche?».

Thomas annuì. «Pensavo fosse ovvio», si ritrovò a sussurrare.

Isaac lo sentì, e scoppiò a ridere. «Senti, che ne dici di andare a prendere un caffè? Pomeriggio o magari.. anche adesso. Lascia che finisca qua in segreteria, poi andiamo insieme, okay?».

No aspetta, cosa?

Isaac Newton aveva letteralmente passato quattro anni a rovesciargli granite in faccia, ad umiliarlo per i corridoi, a gettarlo nei cassonetti, addirittura, e adesso gli chiedeva tutto amichevole se voleva prendere un caffè?

Thomas si ritrovò a non sapere cosa rispondere. Per quante volte aveva immaginato una scena del genere, quando non riusciva a dormire la notte? Quanto aveva sognato di trovarsi seduto ad un tavolo da due con Isaac, vedere come bevesse il s uo caffè, pulirgli i baffetti di cioccolato con il fazzolettino o – oddio – con le sue labbra?

Un secondo dopo fu il turno di Isaac alla segreteria, e dopo cinque minuti – quando anche lui ebbe ritirato la sua lista dei corsi e la piantina dell'edificio – si ritrovò il suo sguardo speranzoso addosso.

«Allora, andiamo? Ho trovato giusto una caffetteria qualche giorno fa, e vende dei muffin che sono quasi una ragione di vita!».

Isaac si girò e lui fece per seguirlo quando si fermò. «Aspetta un attimo», disse, piatto.

L'ex-quarterback si girò, fissandolo confuso. «Che succede?».

Thomas si lasciò sfuggire una risatina nervosa. Davvero? Che succede e basta? «Hai passato quattro anni a prendermi in giro, a farmi sentire una merda davanti a tutta la scuola, e ora mi chiedi di andare a prendere un caffè insieme? Cosa vuoi fare, rovesciarmelo addosso per lasciarmi ustioni di terzo grado in faccia o altro..?», lasciò la frase incompleta, il nervoso che provava che cominciava a manifestarsi con qualche suo tic caratteristico – vedi: movimenti convulsi delle dita delle mani. Appena se ne rese conto, deglutì forte e cercò di controllarsi.

Isaac sembrò quasi ferito, quando lui finì di parlare.

Oh, no, ti prego. La mia vita è già miserabile così com'è, non voglio anche questo cliché da serie B.

«Speravo che questo caffè fosse una possibilità per chiarire», sospirò, alla fine.

Thomas lo guardò con occhi spalancati. «Chiarire?», ripeté. «Chiarire, Isaac? Pensi che un caffè basti per tutto quello che mi hai fatto? Oh, allora due parole davanti ad una tazza fumante mi faranno dimenticare tutte le volte in cui tornavo a casa piangendo per colpa tua, coperto di lividi e con la pelle appiccicosa per tutte le granite che mi tiravi in faccia?».

«Thomas, ascoltami-».

Isaac si guardò intorno a disagio, notando quanti occhi e orecchie indiscrete stessero origliando e assistendo alla loro piccola scenata.

Ma il moro se ne fregò, continuando bellamente a vomitargli addosso tutta la merda che gli aveva fatto passare. «No, no che non ti ascolto. Mi sono trasferito a New York per allontanarmi da tutto quello che mi ha perseguitato per anni, e adesso tu spunti all'improvviso, travolto dai sensi di colpa, fingendo di voler diventare mio amico?».

Okay, forse stava esagerando. Forse.

Continuava a pensare di avere ragione – e, in effetti, ce l'aveva. Forse aveva sbagliato il contesto in cui cominciare quella discussione.

Ma, fino a prova contraria, Isaac non smentì quello che disse. Anzi, non disse proprio niente. Si limitò a starsene zitto, la bocca chiusa come da una zip.

«Vaffanculo», gli sputò addosso, alla fine, superandolo e stringendosi i libri al petto. Gli diede una spallata, uscendo dalla hall della facoltà.

Appena l'aria fredda gli colpì il viso, chiuse gli occhi e sospirò profondmente.

Camminò per le strade di New York con la mente annebbiata dallo sfogo che aveva appena fatto, con le spalle più leggere. Si era tolto tutto quel peso di dosso dopo averlo retto per quattro anni.

Infilò le chiavi nella toppa della porta di casa come in trance. Nello stesso modo, le ripose nel piattino all'entrata.

«Tom, tutto okay?».

Non rispose a sua sorella, chiudendosi in camera, sbattendo la porta con un tonfo sordo. Si tolse la giacca, buttandola sulla sedia vicino alla scrivania, prima di sfilarsi velocemente le scarpe. Tirò le tende per far cadere la stanza in una semi oscurità, la testa ancora annebbiata. Scostò velocemente le coperte, buttandocisi sotto; tutti i programmi che aveva stilato accuratamente per la giornata erano dimenticati, il carico di emozioni che lo aveva investito che cominciava a pesare. Chiuse gli occhi, sospirando per l'ennesima volta. Il nodo che aveva in gola cominciò a sciogliersi, e le lacrime gli pizzicarono da dietro le palpebre. Strinse forte i denti, spingendo la testa nel cuscino.

Piano piano, nello stesso momento in cui le lacrime d'umiliazione scendevano sulle sue guance, Morfeo lo prese in braccio e lo cullò fino a quando non cadde in un sonno profondo, senza incubi.

 

 

Teresa entrò in camera sua quando ormai era buio. Reggeva un piatto e camminava nell'oscurità con sicurezza. Posò il piatto sul comodino, prima di sdraiarsi accanto al fratello.

Thomas, che era sveglio, si rigirò nel suo abbraccio, affondando la testa nella crocchia del suo collo. Cominciò di nuovo a piangere silenziosamente, le spalle che si alzavano ritmicamente per colpa dei suoi singhiozzi silenziosi.

Teresa lo strinse a sé, baciandogli la testa nera e cullandolo. «Shh, Tom. Ci sono io qui con te», mormorò, come un mantra.

Thomas strinse convulsamente la sua maglietta larga con le dita, sfogandosi con le lacrime.

Tutto, tutto quello che aveva passato in quegli anni, gli ritornò alla mente come un pugno piazzato sul viso.

La puzza dei cassonetti, la sensazione di affogare quando gli afferravano la testa e gliela spingevano giù nella tazza del cesso, i lividi per tutte le spallate contro gli armadietti e gli spintoni.

«Va tutto bene. Sei al sicuro qui, Tom. Non ti lascerò mai andare».

Lui annuì, seppur poco convinto, tirando su col naso in un modo poco elegante. «Ti amo, Teresa».

Non era insolito che se lo dicessero, esprimevano i loro sentimenti liberamente, senza vergogna. L'orgoglio maschile non aveva mai bloccato Thomas dal dire a sua sorella quello che provava per lei, ossia un semplice e profondo amore che non sarebbe mai finito. Avrebbe sempre, sempre, amato Teresa. Era la sua sorellina, la metà perfetta che lo completava. Insieme erano un tutt'uno.

Teresa sorrise, posandogli un altro bacio sulla fronte. «Ti amo anch'io, fratellino».

E non era neppure un segreto che Teresa provasse le stesse cose per lui.

 

*

 

«Praticamente, c'è questo ragazzo che è una testa di cazzo», stava dicendo Minho, la bocca piena di sushi. «E crede di essere migliore di me a suonare il pianoforte, tanto che mi ha lanciato una sfida. E sapete come finiscono queste cose, alla NYADA? Che uno di noi due finirà per essere il zimbello di tutti nei corridoi e alle lezioni», spiegò, ingoiando. Ruttò, prendendo un sorso di coca cola.

Teresa lo guardò leggermente disgustata, prima di prendere una bacchettata di ramen. «Tu sei il migliore, amore. Vedrai che lo farai nero».

«Poco ma sicuro, baby!», fu quello che esclamò il coreano, stampandole un bacio sulla guancia. «E Tom, tu ovviamente ci sarai. Ci sarai e voterai per me, qualsiasi sia il tuo vero giudizio. Spero di essere stato chiaro».

Thomas ridacchiò, cambiando canale. «Sai che sceglierei te tra tutti gli altri, Min».

«Aw, un'altra frase come questa e mi avrai definitivamente conquistato», asserì. Mosse le bacchette fra le dita, slittando sul tappeto per raggiungere il pezzo di sushi che aveva scelto. Thomas aprì la sua lattina di Sprite, cominciando a muovere la graffetta avanti e indietro, ripetendo l'alfabeto in testa. Minho sembrava ipnotizzato dai movimenti, visto che seguiva la mano muoversi avanti e indietro con gli occhi, il pesce freddo ancora in bocca.

«Non puoi farti due fratelli in una sola volta!», protestò Teresa. Questo attirò l'attenzione di entrambi, e la graffetta si staccò esattamente sulla lettera N. La tirò lontana, contro il muro tinto di beige, sospirando amaramente.

«Ma questo è il bello di essere fidanzati con una persona che ha un fratello gemello! C'è sempre una doppia possibilità. Vai male con uno? Hai l'altro», esclamò Minho, sorridendo convinto. Prese una bacchettata dal suo cartoncino di ramen, masticando allegro.

Teresa gli tirò uno scappellotto sulla nuca, facendogli andare di traverso il cibo. «La prossima che dici una cosa del genere, ritieniti definitivamente morto».

Minho non si arrese. Quando ebbe finito di tossire, continuò:«Mi ami comunque, Tessa. Non cercare di negarlo». Teresa roteò gli occhi in modo teatrale, prendendo un sorso della sua bevanda gassata. «E, Tom», riprese Minho. «Lo sai che sono sempre stato ben disposto ad accettare qualsiasi proposta che comprenda una cosa a tre con voi due».

La ragazza sospirò pesantemente, mentre Thomas scoppiò a ridere. «Mi distruggerebbe doverti dividere con mia sorella anche a letto, Minho».

«Okay, io me ne vado a mangiare in cucina, voi continuate pure a flirtare e a fare battute sui fratelli gemelli, mi raccomando».

Si alzò dal parquet, prendendo le sue scatole di sushi e sparendo in cucina. Minho la seguì con lo sguardo, gli occhi quasi adoranti. Poi, si mise vicino al suo migliore amico, che non vide lo scambio di occhiate che i due fidanzati si rivolsero. Era il momento che stava aspettando da tutta sera. «Mi vuoi dire che cos'hai, ora? Tessa ha detto che hai pianto tutta notte».

Thomas tenne gli occhi incollati allo schermo della TV, senza vederla realmente. Il programma parlava di una donna tradita dal marito, in tutti i modi possibili. Era sposato solamente con l'idea dell'uomo di cui si era innamorata, che aveva mentito perfino sulla sua identità, essendo un gangster della mafia. Scosse impercettibilmente la testa, distogliendo la sua attenzione dai fotogrammi. Poi, lentamente, sospirò. «Isaac Newton».

Sentì Minho grugnire. «Tutto qui? Amico, sei un genio della fisica, risolvi problemi come io apro il frigorifero: in un attimo. Davvero, non devi preoccuparti di andare male-».

«Isaac Newton della nostra vecchia scuola, Min», lo interruppe lui, stancamente.

Un silenzio pesante scivolò fra di loro, interrotto solamente dalle bacchette che cadevano sul pavimento in legno. Thomas si girò, occhieggiando il migliore amico.

Minho fissava il mobilio davanti a sé con il viso trasformato in una maschera di puro shock, disgusto, odio. Rabbia. Thomas poteva quasi vedere i ricordi degli anni passati solamente guardandolo negli occhi.

«Che cosa ti ha detto? Ti ha fatto qualcosa?», chiese, la voce terribilmente bassa, come se stesse ringhiando. Puntò il suo sguardo su di lui, prima di tirargli su le maniche della felpa per vedere se ci fosse la presenza di qualche livido.

«Minho, fermati. Non mi ha detto o fatto niente», lo fermò lui, afferrandogli il viso fra le mani e facendo incontrare i loro occhi. Roteò i pollici sulle sue guance, in un gesto fraterno e tranquillizzante, che sapeva di casa. «Voleva risolvere», continuò. «Mi ha invitato a prendere un caffè insieme, ma io ho rifiutato e l'ho mandato a fanculo».

Il coreano fece una smorfia che assomigliava ad un sorriso divertito, prima di stringerlo in un abbraccio e seppellire la faccia nella sua spalla. «Se quel coglione osa alzare anche un solo dito su di te, giuro che ritroveranno solo dei pezzi del suo corpo», mormorò, la bocca premuta nella stoffa della sua felpa. Thomas sorrise, accarezzandogli la testa e i capelli neri. «Grazie, Minho».

Teresa decise di ritornare fra di loro proprio in quel momento, e Minho si staccò in parte da Thomas per farle posto. Rimasero tutti e tre abbracciati, le schiene premute contro il divano e i cuori che battevano all'unisono: tre ingranaggi arrugginiti che andavano avanti da una vita intera.

E Thomas si sentì così fortunato ad averli tutti per sé; sua sorella e il suo migliore amico: la sua famiglia.

 

 

*

 

Thomas non amava definirsi nerd.

O meglio, non amava quand'erano le altre persone a definirlo in quel modo. Pochi sapevano il vero significato della parola, e altrettanti pochi non la usavano come insulto.

Sua sorella lo usava più come un soprannome tenero, e le sue mamme pure. Era il nerdaccio della situazione quando azzeccava tutte le risposte alle domande dei giochi da tavolo, o quando finiva un videogame in un giorno solo – record che Minho cercava di battere a tutti i costi, non riuscendoci.

Alla fine, Thomas si trovava bene immerso da film fantascientifici, serie TV, libri, fumetti e tomi di materie scientifiche. Sul letto della sua camera, aveva una coperta di pile che amava con tutto sé stesso, regalatagli da Teresa quando avevano solo cinque anni, raffigurante la tavola periodica degli elementi.

Era solo un bambino occhialuto e con un pigiamone intero, quando l'aveva ricevuta. Aveva abbracciato sua sorella e le aveva stampato un bacio sulle labbra, facendo scoppiare a ridere le loro mamme. Susan aveva fatto una foto ai figli, proprio in quel momento, e l'aveva messa sul camino in gran mostra. Thomas sorrideva e arrossiva ogni volta che la vedeva.

Amava sua sorella. Non c'era niente di incestuoso in quello, era solo puro e semplice amore fraterno. Erano inseparabili, lo erano stati fin dal loro concepimento, se si voleva essere pignoli.

Avevano passato due anni insieme in orfanotrofio, e Thomas – anche se, naturalmente, non si ricordava niente di quel periodo – sentiva una sensazione calda all'altezza del petto ogni volta che ci ripensava.

Teresa era sempre stata lì per lui, come lui era sempre stato presente per lei. Bastava che si stringessero le mani per ritornare a sorridere, per sentirsi di nuovo bene con il mondo. Senza l'uno, l'altra sarebbe morta in pochi giorni. Non potevano separarsi, per quanto ridicola e patetica potesse sembrare la cosa. Poi, quand'era arrivato Minho, tutto sorrisi sdentati e macchinine gialle, Thomas aveva fatto spazio nella sua vita e nel suo cuore, e così aveva fatto Teresa. Avevano fatto entrare nei loro cuori una persona fantastica, che non li avrebbe mai giudicati per qualsiasi cosa.

Non lo sorprendeva più di tanto il fatto che Teresa se ne fosse innamorata. Minho era semplicemente il ragazzo più formidabile del pianeta Terra – dell'universo intero – ed era praticamente uno di famiglia.

Senza quelle due persone – pazze da legare, a momenti fastidiose, che riempivano ogni spazio che lui lasciava vuoto, senza però soffocarlo – probabilmente non sarebbe stato neppure ancora vivo.

Sospirò, toccandosi l'interno dei polsi e guardando come quelle cicatrici piccole, leggere, quasi delicate risaltassero maggiormente sotto la luce dell'abat-jour appoggiata sulla scrivania.

Sarebbero rimaste per sempre impresse nella sua pelle. Come un ricordo, indelebile, che anche quando tutto gli era sembrato nero e oscuro, lui ce l'aveva fatta. Ce l'aveva fatta a rimettersi in piedi e a continuare.

 

 

*

 

Quel mattino, New York era parecchio movimentata. Si destreggiò abilmente fra taxi e metropolitane, un libro in bilico sul braccio, aperto sull'argomento dell'esame che doveva tenere.

Si sedette non appena salì sul vagone della metro, tirando fuori gli occhiali dalla montatura nera dalla loro custodia. Sfogliò il libro, ripassando mentalmente le frasi sottolineate e le formule cerchiate con la biro nera. Ha sempre preferito quella blu, le pagine gli sembravano meno scritte e il tutto risultava molto più.. leggero.

Erano piccole cose che notava ogni volta, e il trovarsi in mano una biro nera lo faceva diventare quasi malinconico. Nonostante il nero lo trovasse comunque interessante come colore; gli dava l'idea di mistero e allo stesso tempo di trasparenza. L'oscurità non si nasconde, è sempre lì in agguato. Si mostra con tutta la sua potenza e la sua forma, e Thomas lo trovava magnifico.

Chiuse il libro, rilassandosi contro lo schienale del sedile. Tre fermate, e sarebbe dovuto scendere. Alzò gli occhi, incrociando la figura di una ragazza minuta, seduta con la schiena ricurva e una cascata di capelli verdi che le sfioravano le ginocchia per colpa della testa piegata. Quella la sollevò, incontrando il suo sguardo. La pelle era quasi completamente ricoperta da inchiostro – o almeno, quello che si poteva vedere – e solo la faccia sembrava essere salva e immacolata. Thomas la trovava un'opera d'arte. Le rivolse un sorriso appena accennato, lottando per distogliere lo sguardo dalle rose blu e nere dipinte sul suo collo.

«Sai che si può riconoscere un sorriso vero da uno fatto per circostanza?».

Thomas sobbalzò, guardando di nuovo la ragazza. Lei si tolse in fretta le cuffiette bianche che aveva alle orecchie.

«Le persone mi rivolgono sorrisi di circostanza non appena notano i miei capelli e i miei tatuaggi». Incrociò le dita, continuando a parlare. Thomas notò che aveva dei disegni pure sulle mani, e avrebbe tanto voluto osservarli da vicino. «L'unico è mio fratello», continuò. «Lui è l'unico che non mi guarda con occhi diversi. E anche tu. Osservi i miei tatuaggi e i miei capelli, ma non con disgusto. Ti piacciono, e lo noto».

«Non sono così idiota da giudicare le persone dall'aspetto fisico», riuscì a mormorare Thomas, imbarazzato. «I tuoi tatuaggi sono stupendi», aggiunse, poi.

La ragazza sorrise, prima di alzarsi e sedersi accanto a lui. La metro si fermò, facendo salire un uomo con un cane e una donna con indosso un tailleur elegante, coperto da un cappotto grigio che lasciava aperto. Si spostarono tutti nei vagoni in fondo, lasciandoli da soli a conversare.

«Sonya», si presentò la ragazza, tendendogli la mano tatuata. Lui la strinse, sorridendo. «Thomas».

«Be', Thomas, vedo che hai un libro molto noioso appoggiato sulle gambe. Facoltà di Scienze Matematiche?».

Lui annuì. «Esattamente». Non si offese neppure quando la sua nuova amica definì la sua passione noiosa. Per lui la matematica era semplicemente una fonte di gioia. Cosa molto insolita da sentire in giro; lui si rilassava risolvendo disequazioni e problemi. Era assetato di conoscenza scientifica, e la matematica poteva offrigliela ogni volta che apriva uno dei libri riposti accuratamente nella sua libreria.

«Tu, invece?», le chiese.

«Psicologia. Volevo iscrivermi a Medicina, ma è mio fratello il genio dei due. Anche se a sua volta ha rinunciato a farsi il culo su tomi e tomi e altri tomi, e quindi ha seguito la sua passione».

«Anche lui ha i capelli colorati e tanti tatuaggi?».

Sonya scosse la testa, ridendo. «Niente di tutto questo. È piuttosto..normale. Sempre appiccicato ad un libro dietro l'altro».

Rimasero in silenzio, e la metro si fermò di nuovo. Una madre e sua figlia si sedettero davanti a loro, perse nella discussione che stavano avendo.

«Mi piaci, Thomas. Mi piace il modo in cui mi hai guardato senza alzare un sopracciglio».

Lui sorrise, alle parole. «Non ce n'era bisogno. Non sei diversa. O meglio, lo sei ma in modo positivo. Non c'è niente di sbagliato nell'essere diversi. È una cosa che mi ha insegnato mia sorella», disse. «Anche se ci ho messo tanto per capirlo», aggiunse, quasi sussurrandolo a sé stesso.

Sonya gli rivolse un'occhiata incuriosita, mentre si stava giusto alzando in attesa della sua fermata. Si sentì tirare per un braccio e la sensazione distinta della punta di un pennarello che gli macchiava la pelle della mano.

La metropolitana si fermò e le porte si aprirono, e Sonya gli sorrise. «Ciao, Thomas. Buona fortuna per il tuo esame di matematica».

Lui ricambiò il sorriso, scendendo dal vagone e guardandolo mentre ripartiva. Riabbassò lo sguardo sul dorso della sua mano, trovandoci sopra scritte delle cifre. Non ebbe neppure il tempo di realizzare che aveva appena socializzato che si sentì investire da una gioia inspiegabile. Il sorriso non se ne andò dalle sue labbra, rimanendoci per tutta la giornata.

 

*

 

Chiamò Sonya il giorno dopo.

In tutta verità, non la chiamò neppure: le inviò un messaggio, a cui lei rispose con una faccina felice.

Erano giusto seduti su una panchina, lui con il suo immancabile libro sottobraccio e lei con i capelli verdi raccolti, che reggeva un album da disegno. «Sai cosa, Thomas? Sei una persona interessante, ma lo potresti essere ancora di più sulla carta», gli aveva detto, un sorriso furbo disegnato sulle labbra.

Non aveva capito bene quella frase, finché non l'aveva vista disegnare velocemente sul foglio con la matita grigia. Quando le aveva chiesto una spiegazione, lei aveva semplicemente affermato che le persone, disegnate su un foglio, potevano apparire in due modi: o aperti quasi quanto le gambe di una prostituta, o blindati come una cassaforte. Thomas, inizialmente, aveva riso per i paragoni usati dalla sua nuova amica – era strano definire qualcuno così, all'infuori di Minho -, poi ci aveva ripensato e si era ritrovato affascinato da quelle lettere messe insieme. Il chiedersi come sarebbe apparso in quel ritratto, fu una condizione direttamente proporzionale alla consapevolezza di quelle parole.

Stava bene in compagnia di Sonya, e tutto quello che Isaac Newton aveva riportato a galla, era stato annegato per l'ennesima volta, quasi brutalmente. Non poteva, però, mentire a sé stesso. Per quanto Sonya fosse una ragazza fisicamente attraente e con un QI altamente sviluppato, non provava nient'altro che il semplice ed innocente sentimento dell'amicizia per lei.

Aveva provato ad accennarglielo, e lei non aveva fatto altro che buttare la testa all'indietro, in una risata cristallina.

«Thomas, io sono lesbica. Non ho nessun interesse per i ragazzi», gli aveva detto, la voce tremolante per colpa delle risa.

Thomas aveva sospirato, sollevato. Non gli era però sfuggita l'occhiata quasi preoccupata che la ragazza gli aveva rivolto, dopo la sua confessione. Capendo immediatamente il motivo, le prese la mano, bloccando i movimenti sul foglio. «Non devi preoccuparti: te l'ho detto che non ho pregiudizi sulle persone».

Lei si era aperta in un sorriso. «Meno male».

La loro conversazione finì lì, e ci fu solamente il rumore di una matita che slittava abilmente sul foglio bianco.

 

 

*

 

Teresa e Minho adoravano Sonya.

Fu quasi sorprendente come le cose si evolsero dopo quel pomeriggio.

La ragazza abitava in un piccolo appartamento con il fratello, più grande di un anno. Si era diplomata prima, in un collegio privato femminile. Sonya continuava a ripetere che quel posto, pur essendo stato una prigione per lei, era meglio di una scuola pubblica – al contrario del fratello, scappato dal collegio maschile in cui i suoi genitori lo avevano rifilato, dopo nemmeno una settimana. Si era mantenuta in contatto con alcune sue vecchie compagne di liceo, anche se non aveva instaurato dei rapporti forti e duraturi con nessuna di loro.

Lei e Teresa uscivano spesso per andare a fare shopping – o solo per urlare istericamente davanti alle vetrine, occhieggiando tutti i capi troppo costosi per poterseli permettere al momento. Thomas si asteneva da queste loro attività, restando a casa a guardare film o a studiare.

Fu sorprendente il modo in cui Sonya entrò nelle loro vite, un tornado di capelli colorati e tatuaggi. Si organizzavano perfettamente con gli orari scolastici di tutti e quattro, ed erano diventati un gruppetto affiatato. Si era integrata perfettamente con le loro tradizioni – come il giapponese al Mercoledì o la maratona Marvel ogni due settimane – e ne avevano inventate di nuove. I suoi gusti erano pressapoco uguali ai loro, ed era una cosa davvero.. figa. Thomas era al settimo cielo.

L'università stava andando perfettamente, aveva quella che poteva definire come vita sociale minima, e aveva trovato una versione a dir poco giurassica di un numero di Capitan America, risalente al '49. Lo aveva pagato una fortuna, ma erano soldi ben spesi.

Le loro madri sarebbero andate da loro per Natale, anche per conoscere questa Sonya di cui entrambi i gemelli parlavano spesso.

Isaac Newton era nel dimenticatoio. Thomas non ci pensava più, e si stava pure frequentando con un ragazzo della facoltà di Belle Arti, Gally – sì, l'aver fatto perfino colpo su un ragazzo aveva sorpreso anche lui, all'inizio. In tutta verità stava cominciando a sentirsi a suo agio con sé stesso, ed era una cosa che sia Sonya, che sua sorella e Minho lo aiutavano ogni giorno a fare. Non poteva ignorare i miglioramenti che stava facendo e voltare il viso dalla parte opposta. Era piuttosto fiero di sé stesso, a dirla tutta.

Insomma, tutto stava andando come doveva andare.

 

 

«Devi assolutamente venire a mangiare da me, Sabato. Ho preso una nuova teglia per la pizza, bucherellata sul fondo per rendere la crosta croccante».

Thomas scrisse velocemente il risultato del problema che stava risolvendo, prima di rivolgere tutta la sua attenzione all'amica.

«Certo, Sabato non ho niente da fare», affermò, sbadigliando.

«Qualcuno ha fatto le ore piccole, qui?», cinguettò diabolica Sonya, ridendo subito dopo.

«I teoremi mi hanno tenuto sveglio fino alle due, abbi pietà di me», rispose Thomas, ignorando volutamente il messaggio nascosto dietro quelle parole.

«Un teorema di nome Gally, Tom?».

Lui arrossì fino alla punta delle orecchie per l'insinuazione. «Non dire sciocchezze», borbottò.

«Sabato. Domani. Otto e mezza. Non portare vino, mio fratello non sopporta la vista dell'alcool. Ieri si è preso una sbronza assurda».

Non riuscì a ribattere niente che la ragazza gli chiuse il telefono in faccia. Sospirò teatralmente, tornando alle sue formule.

 

Era stato poche volte a casa di Sonya; quest'ultima veniva sempre da lui e Teresa, dove c'era anche Minho. Il condominio era abbastanza alto, e il portiere gli sorrise quando entrò.

Salì velocemente le scale fino al 17, suonando il campanello.

Quando la porta si aprì, lui si sentì svenire. Improvvisamente, tutte le cose belle che gli stavano succedendo, si sgretolarono. Non era destino che fosse felice. Non poteva esserlo, il passato doveva sempre tornare per prendersi gioco di lui, ripetutamente. Sbiancò, facendo un passo all'indietro. La gola era secca, le parole erano quasi come bloccate fra le corde vocali, troppo codarde per uscire. Deglutì rumorosamente, e fece quasi male. «T-Tu che ci fai qui?», balbettò.

Isaac Newton lo stava fissando con la stessa espressione dipinta in faccia, completamente scioccato.

«Io, hm..», tossì. «Io vivo qui», mormorò quello, abbassando lo sguardo al pavimento.

«COSA?», si ritrovò ad urlare.

Isaac Newton era il fratello di Sonya.

Il fratello maggiore con la passione per i libri e l'aspetto sobrio, che odiava la vista dell'alcool il giorno dopo essersi preso una sbronza. Il ragazzo che voleva diventare medico, ma che aveva deciso di dedicare la sua vita alla letteratura. Il ragazzo che Sonya adorava, che riteneva la propria ancora e di cui parlava sempre. Strano che non le fosse sfuggito il fatto che si chiamasse Isaac, che fosse biondo e che avesse frequentato la Glade High School, dopo essere scappato dal fottuto collegio maschile. Oh, non dimentichiamoci il piccolo dettaglio che vedeva protagonista Thomas sbattuto contro gli armadietti giornalmente.

«Ragazzi, che ci fate sulla porta?», esclamò Sonya, facendo capolino. Thomas la guardò, gli occhi spalancati e il respiro che accelerava.

La ragazza lo fissò preoccupata, avvicinandosi rapidamente a lui.

Thomas non la vedeva più tanto bene, e la testa gli girava. La vista cominciò a farsi sfuocata, il familiare mattone sul cuore che ricominciava a pesare, quasi come se si stesse lasciando andare senza più trattenersi per non schiacciarlo. Deglutì più e più volte, la bocca aperta in cerca di ossigeno. Ossigeno che prontamente sembrava non arrivare. Si aggrappò allo stipite della porta con la mano, strizzando gli occhi e aprendo e chiudendo più volte le palpebre. La vista era completamente sfuocata, vedeva solo dei puntini colorati.

«Tom? Thomas? Thomas, è un attacco di panico?», chiese Sonya, terrorizzata. Si sentì trascinare dentro casa, Sonya che gli parlava con la voce alterata dalla paura.

«Thomas concentrati su di me. Guardami».

I suoi occhi incrociarono quelli dell'amica, che gli prese il viso fra le mani. «Tom, coordina i tuoi respiri con i miei. Piano. Uno e due. Uno e due. Uno e due. Così, bravo».

Chiuse gli occhi, dopo che si calmò, sbattendo la testa contro la parete in modo violento. Cominciò a piangere inespressivo.

«Tom, che succede?», gli chiese ancora Sonya, asciugandogli le lacrime con i pollici. «Che succede?». Si ritrovò pressato contro il corpo dell'amica, che lo abbracciò forte.

Lui non rispose, risollevando le palpebre e guardando Isaac Newton, che se ne stava in piedi vicino allo stipite della porta della cucina, uno sguardo terrorizzato dipinto in volto.

Si fissarono in silenzio, e sentì Sonya trattenere il respiro.

«Tu conosci Newt», sussurrò la ragazza.

Newt. Che lui si ricordasse, non aveva mai sentito qualcuno dare un soprannome ad Isaac Newton, al liceo.

Thomas agitò la testa in segno affermativo, non fidandosi della propria voce, distogliendo lo sguardo.

Passarono qualche secondo, che lui riempì respirando profondamente e cercando di riprendere il controllo del suo cervello e del suo corpo.

Sei più forte di così, Tom, pensò. Ce la puoi fare.

«Forse è meglio che vi lasci da soli..», mormorò la ragazza, alzandosi dal pavimento e fissandoli entrambi. «Sarò in camera, se.. vabbè, avete capito», borbottò, prima di sparire nel corridoio.

Isa- Newt si avvicinò a lui, lentamente, con passi misurati. Gli porse una mano, che lui accettò. Lentamente si tirò su, la stanza che girava intorno a lui. Chiuse gli occhi, prendendo un respiro profondo. «E così, sei il fratello di Sonya», fu quello che riuscì a dire. Tossicchiò.

«Sì. Non ha frequentato la scuola pubblica per.. problemi. Atti di bullismo». E a Thomas veniva da ridere, perché Newt era quello che lo bullizzava più di tutti al liceo. Lui e i suoi amici idioti.

Soffiò una risata nervosa e sarcastica. «Com'è stato essere il lupo cattivo per cinque anni?», sputò, tagliente.

Newt sospirò, guardandolo negli occhi. «Quello non ero io, Tommy».

Non notò neppure il soprannome, rispondendo con ironia:«Vuoi dirmi che quello che mi picchiava e mi spingeva la faccia nel cesso era il tuo clone cattivo?».

«Voglio dirti che quello non ero io e basta. Entravo in quella scuola e cambiavo. Vedevo te e cambiavo. Dio, non sai che terrore ho provato quando- quando non mi eccitavo più guardando Kelly Janson ma mi succedeva a vederti senza maglietta negli spogliatoi?».

Thomas fece un sorriso finto alla confessione. «Perfino un gay represso. Sei lo stereotipo del cattivo ragazzo che diventa buono nei film di Serie B, Newt».

Il ragazzo grugnì, prendendosi la testa fra le mani. «Devi credermi, Thomas».

Lui fece una smorfia, le lacrime che bruciavano ma che lui non doveva lasciar uscire. «No, in realtà no. Non ho bisogno di crederti. Adoro tua sorella e la voglio nella mia vita, come amica e confidente. Con questo non vuol dire che debba sopportare anche te». Newt sembrò ferito al commento, ma Thomas non riuscì a sentirsi in colpa. «Dì a tua sorella che mi dispiace», finì, in un tono tagliente come un coltello.

Fece per girarsi e andarsene, quando Newt lo afferrò per un braccio. Non disse niente.

S'immobilizzò, sentendo la mano di Newt scivolare lungo il suo braccio, fino a raggiungere la sua mano.

Lentamente, afferrò gentilmente il suo indice e il suo medio sinistro, allacciandoli alle sue medesime dita.

Thomas spalancò gli occhi, il respiro che diventava sempre di più pesante.

Il bacio vulcaniano.

Si girò alla velocità della luce, fissandolo negli occhi ma non interrompendo il contatto delle loro dita.

«Penso di essermi innamorato di te, Tommy», sussurrò Newt.

A Thomas sembrò così debole che non se la sentì a uscire da quella porta. Poi, la consapevolezza delle parole che erano uscite dalla sua bocca lo colpì come un fulmine.

Penso di essermi innamorato di te, Tommy. Ogni parola gli si era bloccata nella gola, la mente che stava faticando a processare il tutto. Semplicemente lo guardò in faccia, la bocca semi aperta dallo stupore e completamente in shock. Chiuse gli occhi per qualche secondo, quasi immaginandosi una granita in faccia e un eccesso di risate da pare di Newt e dei suoi amici idioti. Era ancora il suo incubo ricorrente, e se in passato lo scacciava immaginando di avere accanto lo stesso bullo di cui era perdutamente cotto, ora non riusciva a trovare un appiglio a cui aggrapparsi.

«So che hai sempre amato la fantascienza e tutte queste cose. Ho letto centinaia di libri su robot, navicelle spaziali e sull'Universo. Mi sono visto tutti gli episodi di Star Trek e tutti i film di Star Wars, e mi sono reso conto che li ho adorati perché mi ricordano così tanto te in ogni scena», continuò.

Thomas non riusciva quasi a respirare. Aveva aspettato per una vita di sentire quelle parole uscire dalle labbra di Isaac Newton, e adesso che le sentiva veramente non riusciva a muoversi, pensare, o addirittura rispondere.

«Non ti sto dicendo di ricambiare i miei sentimenti. Sono stato crudele con te, in così tanti modi che mi faccio schifo da solo. Ho preteso di odiarti quando in realtà quello che detestavo era me stesso e basta», continuò. «Ma ti amo, Tommy. Penso di averlo sempre fatto, in realtà. Ti sto solo dicendo che.. che cercherei di renderti felice. Assurdamente felice. Ti terrei al sicuro da tutto e da tutti, me compreso».

Un silenzio cadde fra di loro, spesso come un muro di mattoni e cemento armato. Deglutì rumorosamente, pensando ad una possibile risposta.

Il moro non replicò niente, avvicinandosi ancora e sollevando le loro dita intrecciate. Le osservò, sentendole lentamente pizzicare al contatto. Tutto il suo corpo stava quasi vibrando.

Poi, rise. Semplicemente rise, una lacrima che scese dal suo occhio sinistro. Non si curò di asciugarla, continuando a ridere. Newt lo guardava come se fosse impazzito. Si portò le loro dita alla bocca, baciando quelle dell'altro ragazzo. «Questa è la cazzata più grossa della mia vita, Newt», sospirò. «Ma non me ne frega davvero niente. Dio, fatemi una statua su Marte se sarò vivo nei prossimi mesi di questa relaz-».

Fu interrotto da Newt che premeva le labbra sulle sue, sorridendo come un bambino nel giorno del suo compleanno.

Thomas si separò da lui pochi istanti dopo, lasciando un'altra risatina tremolante. «La mia vita è come un fottuto film di serie B», disse.

 

Che, nel suo linguaggio, corrispondeva ad un ti amo anch'io. 

  
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