“Voglio
sapere tutto di quel tizio, dove mangiava, cosa beveva, cos’ha fatto negli ultimi
15 anni avete capito?” esclamò Hotch guardandoli in volto uno per uno
“Ma non
siamo noi ad vere il caso” obiettò J.J.
“ Non mi
importa” rispose Hotch tagliente” non importa quanto ci metteremo, ma voglio
sapere cosa ci faceva William Reid con gli scagnozzi di…”.
Qualcuno
si schiarì la voce e nella stanza calò il gelo.
J.j.
lasciò cadere i fogli che teneva in mano, Garcia, senza sapere perché chiuse
immediatamente il pc e adottò una posa neutra.
Morgan si
rannuvolò in viso e Prentiss assunse un’aria decisa, quasi di sfida.
Era
entrata la Strauss.
Non
credevano di vederla comparire così presto.
Pensavano
di avere più tempo.
Catherine
Strauss non perse tempo con le presentazioni, avanzò fino al centro della
stanza, guardandosi intorno guardinga, poi incrociò le mani sui fianchi e parlò
rivolta a Hotch, ma indirizzandosi chiaramente a tutti.
“So che
cosa avete intenzione di fare”.
Morgan
fece per parlare, ma un’occhiata di Hotch lo zittì. Diceva non peggiorare le cose.
Morgan
tacque.
La
Strauss continuò.
“Sono
consapevole che si tratta di un vostro collega e che siete disposti a fare
qualsiasi cosa per lui”.
J.J.
si mosse a disagio sulla sedia “ma non tollererò alcuna intrusione nelle
indagini degli Affari interni. Per inciso verrete tutti interrogati dall’agente
Benson che aspetta qui fuori. La documentazione di
cui vi siete occupati finora verrà sequestrata, così pure tutti i materiali sul
caso”
“Ma…”obiettò
Prentiss.
“Nessun
ma agente Prentiss, se vi sorprenderò a perseguire con un atteggiamento che
reputo ostile e irrispettoso di questa istituzione vi farò sospendere”. Detto
ciò Catheryne Strauss si voltò per avviarsi all’uscita,
poi si fermò e nuovamente rivolta a Hotch esclamò “L’agente Gideon e il dottor
Reid non si sono presentati davanti alla Commissione degli Affari Interni, se
avete occasione di sentirli comunicate che sono stati sospesi con effetto
immediato fino a nuovo ordine”.
Hotch si
passò una mano tra i capelli, avevano le mani legate.
Almeno
apparentemente.
Prentiss
guardò il cielo plumbeo fuori dalla finestra, dov’erano finiti Reid e Gideon?
Reid
aveva lasciato la madre alle cure dell’ospedale. Come al solito era duro da
accettare, ma non c’era niente che potesse fare per lei, se non…
Forse le
ho già fatto abbastanza male, pensò mentre a lunghi passi si avviava alla
biblioteca principale.
Era
sempre lì che si rifugiava quando aveva bisogno di pensare, di stare
tranquillo. Funzionava un po’ come lo chalet di Gideon.
In realtà
era arrabbiato. Molto arrabbiato, con se stesso, con William, sì anche con lui.
A
ripensarci gli sembrava quasi di impazzire.
Doveva
sapere. Tutto.
Tutto
quello che aveva fatto suo padre in quegli anni, ciò di cui si era occupato, il
suo lavoro, le conoscenze, le amicizie, la vita privato oh sì anche quella e
perché aveva scelto quel giorno per tornare a farsi sentire.
L’avrebbe
scoperto. A ogni costo.
“Pronto
Jason?”
Hotch si
spostò in un angolo della stanza, guardandosi intorno “sì ho immaginato
che…senti non ho molto tempo, no non dirmi dove sei, preferisco non saperlo,
solo…” Hotch si prese qualche secondo per esporgli quanto doveva dirgli molto in fretta “…Catheryne Strauss, sì lei hai indovinato…cercheremo di
esserti d’aiuto, ma…va bene farò attenzione, non preoccuparti per noi…” Il
tempo stava per scadere, di lì a poco la porta si sarebbe aperta e sarebbe
stato il suo turno di testimoniare “…e Gideon, so che non c’è bisogno di dirtelo…”
una lieve pausa “ prenditi cura di Reid!”.
Dall’altro
capo del telefono Gideon chiuse piano cellulare.
In realtà
non si sentiva molto vicino né alla prima né alla seconda delle raccomandazioni
di Hotch.
Come al
solito, in queste situazioni, gli accadeva di sentirsi responsabile.
Per tutto
quello che era successo e ciò che ancora poteva accadere.
Anche se
tutti gli dicevano che non c’entrava nulla, anche se sostenevano che non
avrebbe potuto fare niente per evitare l’inevitabile….lui si sentiva responsabile.
Era
sempre stato così.
E, a
maggior ragione, in questo caso, che li aveva visti coinvolti tutti, compreso
il ragazzo a cui aveva preso a voler bene come a un figlio.
In quella
storia, in tutta quella storia, fin dall’inizio c’era qualcosa che non
quadrava. Dalla comparsa quantomeno improvvisa di William Reid fino alla sua rocambolesca
fine in quella casa.
Aveva
alcune teorie, ma non poteva dirsi certo di nulla finché non avesse fatto delle
ricerche.
Per prima
cosa chiamò il suo amico Arthur Crane all’anagrafe.
“Qui non
risulta, no Morgan..no, ti ho detto di non toccare, attento a…” Garcia si
protese per acchiappare al volo una cartella contenente una serie di documenti.
“Stavo
solo cercando di aiutare!” rispose Morgan
“Sì, ma
facendomi pressione non…HOTCH!!” lo esclamò così ad alta voce che Morgan
trasalì suo malgrado.
Con un
veloce movimento del braccio Garcia nascose dietro la sua schiena
l’incartamento e rivolse al supervisore il suo migliore sorriso.
“Noi…noi
stavamo…” accennò Garcia.
“So benissimo
cosa stavate facendo qui nascosti” fece Hotch incrociando le braccia sul petto
con espressione severa.
“Hotch
senti…” attaccò Morgan.
“Fatemi
vedere cosa avete scoperto, prima che la Strauss decida di controllare anche
qui!”.
Giunto
davanti all’ospedale St.Paul Gideon si chiese
un’ultima volta se quella fosse davvero la mossa giusta.
Si diceva
che lo faceva per avere una conferma definitiva, in realtà sapeva bene di aver
già deciso cosa fare.
Allora
perché andare fin lì? Perché parlare col primario e ancora, perché far valere,
per una volta, l’unica peraltro, la sua influenza per scopi personali?
Che si
trattasse solo una mera curiosità? O era davvero l’ultimo tassello che gli
mancava per completare un puzzle sapientemente costruito.
Ancora se
lo stava domandando mentre un’infermiera gli apriva la porta della stanza di
Diana Reid.
La donna
sedeva alla finestra, di spalle. Indossava una vestaglia beige e sembrava
completamente assorta nella sua attività di contemplazione.
Gideon
rimase ad osservarla per alcuni minuti pensando a quante volte il membro più
giovane della loro squadra doveva aver assistito a una scena simile.
Se si
concentrava bene poteva quasi vederla.
Una cosa
apparentemente normale, i passi di un bambino di ritorno da scuola, le risate e
una donna alla finestra, le voci in lontananza, un quadretto quasi perfetto se
solo…
Poi
l’immagine sfumò e Gideon tornò al presente.
“Lei è un
uomo tenace” fece la donna voltandosi verso di lui.
Gideon
trasalì.
Diana
Reid sorrise “avanti, so perché è venuto qui, mi faccia quella domanda”.
Non si
era aspettato una reazione così repentina e ne fu sorpreso.
“Saprà
meglio di me che noi schizzati abbiamo dei brevi periodi di lucidità, è stato
fortunato agente Gideon”.
“Come…”
di nuovo quella donna lo sorprese, poi capì e sorrise “…le lettere”.
“Ho
indovinato subito chi era, Spencer l’ha descritta molto bene” osservò
vivacemente Diana “lei è una delle poche persone capace di batterlo a scacchi”.
Gideon
annuì e in quel momento si dimenticò del motivo che l’aveva condotto lì.
“Come non
risulta nessun William Reid residente a …guarda meglio!!” insistè
Morgan alle spalle di Garcia.
“Forse
aveva un buon motivo per nascondersi” riflettè Hotch
andando avanti e indietro per la stanza.
“Già i
fratelli Genco, ma perché? Come ha fatto a entrare in
contatto con quei criminali?”
Il sole
stava calando.
Gideon si
alzò dal letto dove si era seduto “è ora” mormorò e si avviò all’uscita.
Giunto
sulla soglia udì la voce perfettamente limpida di Diana Reid “e quella domanda
agente Gideon?”
“Io…”mormorò
Gideon. Ora si vergognava del motivo che l’aveva spinto lì “non…”.
“Lei
voleva chiedermi perché ho deciso di avere Spencer nonostante la mia malattia,
nonostante sapessi che avrebbe potuto ereditarla e che avrebbe dovuto convivere
con un genitore…come me” esclamò la donna guardandolo dritto negli occhi.
Gideon
annuì piano “...ma non deve rispondere, mi scusi, ho sbagliato a venire qui”.
“Aspetti”
fece di nuovo Diana.
Quella
donna non gli dava tregua.
“Mia
madre…” cominciò Diana, la sua voce tremò, ma dopo qualche istante riprese “io…volevo…volevo
solo stringere anch’io un bambino tra le braccia”.
Poi
tacque.
Gideon
annuì piano.
Il 224 di
Parker Street ospitava un edificio molto dimesso.
C’era la
portineria, ma sembrava deserta. Era tutto aperto.
Ora
avrebbe ottenuto delle risposte, la verità forse o solo un pallido residuo di
essa.
Entrò
senza esitazioni e si fermò al secondo piano.
Quella
porta, piuttosto anonima non gli diceva niente.
E forse
era un bene, d’altra parte tutta la vita di suo padre ora gli sembrava come
evanescente, una sorta di miraggio rivolto al pubblico pagante e, soprattutto,
a suo figlio.
Non gli
importava più.
Girò la
maniglia e avanzò di qualche passo all’interno della stanza.
Gli
sembrava di stare sospeso, come se fosse imprigionato in una bolla di sapone,
senza poter respirare.
All’improvviso
avvertì l’impellente bisogno di uscire, di respirare un po’ d’aria.
Fece per
voltarsi, ma una voce lo raggiunse da dietro.
“Ti stavo
aspettando”.
Si girò
di scatto.