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Autore: Angie Mars Halen    02/12/2015    1 recensioni
Dopo anni trascorsi senza mai vedersi, Nikki e un’amica di vecchia data, Sydney, si rincontrano durante il periodo più difficile e turbolento per i Mötley Crüe. Questa amicizia ritrovata, però, non è sconvolgente quanto la scoperta che la ragazza vive da sola con suo figlio Francis, la cui storia risveglia in Nikki ricordi tutt’altro che piacevoli. In seguito a ciò il bassista comincia ad avvertire un legame tra loro che desidera scoprire e rinforzare in nome della sua infanzia vissuta fra spostamenti e affetti instabili. Si ritrova così a riscoprire sentimenti che aveva sempre sottovalutato e che ora vorrebbe conquistare, ma la sua peggiore abitudine è sempre pronta a trascinarlo nel buio più totale e a rendere vani i suoi sforzi.
[1987]
[Pubblicazione momentaneamente sospesa]
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mick Mars, Nikki Sixx, Nuovo personaggio, Tommy Lee, Vince Neil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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9
NIKKI





Ne avevo abbastanza. Ero stanco di non avere le forze necessarie per affrontare una registrazione; ero stanco di vedere Mick dormire o fare finta di essere addormentato per non essere infastidito; ma, soprattutto, ero stufo di Vince che sembrava aver disimparato a fare l’unica cosa che fosse capace di fare in tutta la sua misera vita: cantare.

Questi erano solo alcuni dei motivi per cui decisi di abbandonare gli studi senza assistere all’ultimo tentativo del biondo, il quale era stato obbligato da Doc a mettersi il cuore in pace e a restare chiuso nella sala di registrazione per almeno mezz’ora, con la speranza che riuscisse a concludere qualcosa in più del solito. Mi alzai dalla sedia e varcai la soglia con passo deciso, determinato a non straziare più le mie orecchie e il mio cervello con gli sproloqui di Vince sulla sua ultima conquista che, a quanto pareva, lo aveva lasciato a bocca asciutta. Mentre scendevo le scale di fretta, sentii dei passi pesanti che mi rincorrevano. Non mi fu per niente difficile riconoscere che si trattava di Tommy, ma ignorai le sue richieste di fermarmi e procedetti finché non mi trovai nel parcheggio sul retro, dove il mio amico mi raggiunse con il fiatone.

“Cazzo, bello, volevi farmi rotolare giù dalle scale?” domandò sarcastico mentre cercava di regolare meglio il respiro.

Per tutta risposta alzai le spalle. “Nessuno ti ha chiesto di seguirmi.”

“E tu sei scappato via senza neanche salutare,” ribatté mimando un tono infantile, poi estrasse un pacchetto di sigarette e uno Zippo dalla tasca dei jeans e si accese una paglia. “Vuoi?”

“Perché no?” approvai prima di accenderne una per me. “Cos’è questa storia della cameriera, poi?”

Tommy sghignazzò e scosse il capo con fare piuttosto divertito. “Sei peggio di una vecchia zitella.”

“Sono solo curioso di sapere chi sarà a portare Vince sulla via errata distraendolo e facendolo impazzire più di quanto non abbia già fatto da solo,” ribattei.

Tommy esalò una nuvola di fumo grigio e la fissò mentre si dissolveva lentamente nell’aria. “Potrebbe anche sposarla che tanto resterebbe il marpione di sempre.”

“Infatti non intendevo dire che perderà la testa per lei, ma che sarà lei a farlo diventare matto con tutti i suoi capricci, le pretese e tutte queste cose assurde che fanno le donne,” specificai atono.

Tommy si lasciò sfuggire un sorriso sarcastico e scosse il capo. Non fu necessario che si esprimesse a parole perché capissi che i suoi gesti erano rivolti a Vanity, la ragazza che si presentava a casa mia quando lo decideva e che mi incasinava il cervello senza che ce ne fosse bisogno. In realtà, però, non era solo colpa sua. Tralasciando il fatto che ero stato proprio io a muovere il primo passo e a contattarla dopo averla vista in un video su MTV, non eravamo legati da nessun sentimento né da nient’altro che non fossero quantitativi esagerati di droghe di ogni genere o da casse di champagne. Vanity aveva un sacco di problemi e, proprio come per me, la causa di ognuno di essi era la droga. Tuttavia, lasciavo che entrasse in casa mia ogni volta che si presentava sia perché portava abbastanza sballo per entrambi, che per il semplice fatto che, se avessi indugiato anche solo cinque minuti prima di aprire la porta, avrebbe iniziato a sbraitare, attirando l’attenzione di tutti i vicini.

“Io me ne vado a casa. Non ho più voglia di stare qui,” dissi dopo aver schiacciato il mozzicone con la suola di uno stivale, poi sollevai il capo in direzione del mio amico. “Stasera Vanity è impegnata. Perché non vieni da me a bere qualcosa?”

Tommy si grattò la nuca. “Ah, bello, verrei volentieri, ma ho promesso a mia moglie che avrei cenato insieme a lei in un posto carino vicino al mare.”

Posto carino... ripetei mentalmente, e ringraziai il cielo o chiunque fosse alla guida di questo mondo perché l’elevata quantità di zucchero contenuta in quella frase e nel suo stesso sguardo non mi aveva fatto cariare i denti seduta stante.

“Non importa,” lo liquidai mentre estraevo le chiavi della motocicletta dal giubbotto di pelle.

“Non te la prendere!” esclamò Tommy esibendo un sorriso sforzato. “Giuro che la prossima volta vengo, ma oggi non posso proprio.”

Saltai in sella alla mia Harley Davidson e sollevai un pollice. “Va tutto alla grande, non ti preoccupare.”

Il rombo del motore mi impedì di sentire le ultime parole di Tommy, il quale prese a sbracciare per salutarmi mentre mi allontanavo.

Essendo l’orario di punta, preferii non immettermi nella freeway con il rischio di rimanere bloccato nel traffico e optai per una strada secondaria che attraversava le colline. Era caratterizzata da diverse curve e conduceva ugualmente a Van Nuys, il distretto in cui vivevo da ormai un anno. Seguii il viale principale costeggiato da edifici bassi e grigi e da qualche palma che si stagliava nel cielo terso, conferendo alla strada un aspetto ancora più desolato, poi raggiunsi Sherman Oaks e svoltai sul Valley Vista Boulevard. La mia casa era facilmente riconoscibile perché era l’unica che al posto di un giardino ben curato aveva una specie di foresta pluviale fatta di alberi mai potati ed erba mai tosata, ai quali si aggiungeva qualche sacco dell’immondizia che dimenticavo di mettere fuori dal cancello il giorno in cui passava il camion della nettezza urbana, e alcuni utensili per il giardinaggio abbandonati dove capitava. Mi nascosi sotto alcune chiome scure e rigogliose che facevano ombra sul vialetto mentre attendevo che il cancello si aprisse e, non appena entrai in giardino, da dietro un cespuglio sbucò Whisky, una delle mie poche ragioni di vita. Si lanciò in una folle corsa verso di me, scodinzolando e muovendo la testa in alto e in basso, con la lingua rosa che penzolava e sbavava. Non appena si trovò ai miei piedi, iniziò a girare in tondo come se avesse voluto inseguire la sua stessa coda, gemendo e digrignando i denti in quella che voleva essere una sorta di sorriso canino. Appoggiai una mano aperta sulla sua schiena e accarezzai il mantello maculato, lasciandomi sfuggire un sorriso compiaciuto. Il contatto con il mio palmo sembrò calmarlo e, sempre con la coda che sembrava roteare da tanto era felice, mi seguì fino in casa. La mia maledetta casa. Tutta buia, in disordine, con i gargoyle che spuntavano da ogni mensola e le tende di pesante velluto cremisi che impedivano alla luce di entrare. Pensai sarcasticamente che avrei potuto affittarla per girare qualche horror di serie B.

Sospirai e un senso di nausea mi assalì insieme all’odore di chiuso e alla tristezza che le pareti trasudavano. Se avessi frugato nei cassetti avrei sicuramente trovato un po’ di roba, ma siccome non ne sentivo ancora un bisogno soffocante, provai ad aspettare che la fame diventasse insopportabile. Lanciai la giacca sullo schienale di una sedia, abbandonai gli stivali in un angolo del salotto e mi lasciai cadere sul divano. Se ci fosse stato Tommy avremmo fatto casino per tutto il tempo – avevo anche fatto scorta di birra e Jack –, invece lui aveva preferito passare la serata nel suo castello con Sua Maestà Sua Moglie.

E io? Cosa ne sarebbe stato di me se anche lui mi avesse dimenticato? Non avrei avuto nessuno su cui contare dato che l’unica persona che frequentavo era instabile quanto me.
Sentii Whisky uggiolare e percepii il tepore del suo muso adagiato sul mio ginocchio. Aprii gli occhi e, proprio come avevo previsto, mi stava fissando con uno sguardo abbattuto come se avesse percepito la mia malinconia.

“Non guardarmi così. Sei un pointer, non un cocker,” lo ammonii come se avesse potuto capirmi, tanto che continuò a fissarmi con gli occhi tristi.

Tornai ad appoggiare il capo allo schienale del divano e ripensai a Tommy, che in quel momento doveva essere a casa sua a prepararsi per la cenetta romantica, contento come un bimbo in un negozio di caramelle. Lo vedevo davanti allo specchio intento ad aggiustarsi il farfallino, con il mento proteso in avanti e il suo consueto sorriso largo e soddisfatto.

‘Fanculo... io ero a casa da solo ed ero l’unico ad esserlo visto che pareva che adesso anche Vince avesse trovato qualcuna disposta a sopportarlo.

Allora perché io non avevo mai trovato nessuno? L’unica mezza-fidanzata che avevo avuto, come la definivano i ragazzi, l’avevo mollata perché si stava costruendo una buona carriera e non aveva più bisogno di me. Ci eravamo persino incrociati qualche settimana prima agli studi e lei era sbiancata dalla paura che le avevo fatto con la mia faccia pallida e la motivazione di un bradipo con la bronchite che avevo nel muovermi e nel fare le cose. Pensai che, se ai tempi dei London fossi veramente riuscito a farmi avanti con Sydney, saremmo senz’altro finiti male come era successo con Lita. Se solo fossi stato una persona normale, avrei potuto trovare qualcuno disposto a starmi vicino, ma non lo ero e sapevo che sarei rimasto da solo fino alla fine dei miei giorni, un evento che forse non era neanche poi così lontano.

Un altro guaito soffocato attirò la mia attenzione e stavolta Whisky aveva piazzato le zampe anteriori sul divano e mi guardava con le orecchie basse, muovendo il naso umido.

“Smettila, stupido, e torna per terra,” gli ordinai, ma lui continuava a stare immobile e in bilico sulle zampe posteriori.

Ero convinto che quel cane avrebbe preferito essere stato adottato da qualcun altro piuttosto che da me. L’avevo portato a casa qualche mese prima perché ero convinto che mi avrebbe aiutato a distrarmi dai miei casini, senza pensare che avrebbe trascorso la maggior parte del tempo a scorrazzare in totale solitudine nel mio giardino disordinato perché sarei stato impegnato con le registrazioni e forse anche con un nuovo tour mondiale. Avevo pensato solo a me, non a lui – il mio solito egocentrismo del cazzo. Eppure, nonostante tutto, quel cucciolo troppo cresciuto sembrava essersi veramente affezionato a me, ma lui era un cane e, per quanto fosse estremamente intelligente e affettuoso, non avrebbe mai potuto sostituire l’amore di un essere umano.

Gli occhi iniziarono a pizzicarmi nel momento in cui l’uggiolio di Whisky si intensificò. Presto si annebbiò anche la vista, il respiro divenne irregolare e qualcosa di caldo cominciò a colare lungo le mie guance, fino ad insinuarsi tra le mie labbra, permettendomi di riconoscerne il sapore salmastro.

Stavo piangendo.

“Cazzo,” imprecai quando me ne resi conto. “Non di nuovo!“

Le lacrime iniziarono a scendere copiose e il cane non esitò a saltare sul divano per accucciarsi in grembo a me, per quanto la sua taglia glielo permettesse. Non era grande ma nemmeno piccolo, per cui impiegò un po’ di tempo prima di trovare la sua posizione ideale, dopodiché appoggiò il muso sul mio braccio e sospirò come se avesse voluto dirmi “che cazzo, padrone, non è che posso sempre pensarci io a te quando ti fai prendere dalle paturnie...”.

“Hai ragione, Whisky, ma sei l’unico che sembra essere veramente disposto a farlo,” mormorai mentre lo stringevo delicatamente a me.

Restammo fermi così per una decina di minuti, come se anche lui fosse stato una persona, e cominciai a pensare che quel cane avesse veramente una componente umana nel DNA. Gli altri cani che avevo avuto quando andavo in giro per il Paese con i miei nonni e ci fermavamo in qualche località sperduta del Texas o dell’Idaho non mi consideravano più di tanto. Preferivano scorrazzare per i campi a prendere le pulci piuttosto che appoggiare la testa contro il mio petto quando piangevo perché mi mancava mia madre. In compenso a quei tempi ci pensava Nona a scovarmi quando mi rintanavo nel capanno degli attrezzi o dietro una balla di fieno a frignare. Mi prendeva in braccio a dispetto del mal di schiena, mi portava nella roulotte, mi appoggiava delicatamente a sedere sul tavolo come se fossi stato un vaso di cristallo, poi tirava fuori una moneta da dieci centesimi dal vecchio barattolo di latta in cui raccoglieva gli spiccioli. “Prendi la bicicletta, va’ in paese e comprati dei pop-corn al burro” mi diceva, e io mi asciugavo le lacrime aiutandomi con l’intero braccio, la ringraziavo – ai tempi mi ricordavo ancora della corretta abitudine di dire grazie – e sfrecciavo verso il negozio più vicino.

Adesso però Nona non c’era più e io non avevo nemmeno fatto in tempo a ringraziarla per tutti i sacrifici e le rinunce che aveva fatto per me, sempre ammesso che potessi mai esserle abbastanza riconoscente.

Nona, senza di te vado fuori di testa.

Un fulmine balenò nella nebbia pestilenziale che oscurava il mio cervello.

Mi asciugai gli occhi sul dorso della mano incurante del trucco che aveva creato un composto viscido e denso mescolandosi con le lacrime, scansai il cane cercando di non spaventarlo e arraffai il primo pezzo di carta che trovai. Mi raggomitolai poi sul tappeto impolverato, avvicinai il viso al foglio stropicciato e iniziai a scrivere con foga, rischiando di bucare la carta. Quando ebbi terminato, mi ritrovai con una mano sudata stretta intorno al pennarello verde che avevo usato e davanti a una colonna composta dalla stessa frase riscritta per almeno una decina di volte come un lamento sussurrato nel buio della cameretta di Frankie Feranna.

Nona... I’m out of my head without you.

Quelle parole iniziarono a rimbalzare contro le pareti della mia testa e sembravano creare delle vibrazioni così potenti e assillanti che mi costrinsero a tenermi il capo con entrambe le mani. Dovetti liberarne una per aggrapparmi al tavolino da caffè e rimettermi in piedi, barcollante come se avessi disimparato a camminare da un momento all’altro. Attesi che quella sgradevole sensazione di vertigini sciamasse e intravidi la mia chitarra acustica appoggiata sul tavolo del salotto. Tirai su col naso: avrei potuto trovare una melodia adatta per quelle otto parole così vere e spontanee, ma lo avrei fatto solo dopo essermi rifocillato dell’unica sostanza che sembrava tenermi in vita, condannandomi a morte.




N.D’.A.: Ciao a tutti!
Come avevo già anticipato, questo capitolo vede il ritorno di Nikki. Spero di aver fatto passare almeno un po’ la fame a tutti quelli che non vedevano l’ora che ricomparisse!
Oltre a Nikki, comunque, ho deciso di far entrare in scena anche Whisky, il cane di cui parla nella sua biografia. Nessuno di noi autori EFP ne ha mai parlato, se non forse una volta (ma non ricordo chi né dove, purtroppo), allora ho pensato che sarebbe stato carino inserirlo nel mio racconto e dare un ruolo anche a lui. Insomma, tutti sappiamo quanto a Nikki piacciano i cani – avete visto che carini che sono i due cuccioli che ha preso di recente? <3 Ad ogni modo, spero che la mia scelta sia di vostro gradimento.
Detto questo, sparisco e vado a studiare, ma non prima di aver ringraziato chi mi segue! ♥
Aspetto i vostri commenti!
Un abbraccio e a mercoledì prossimo,

Angie Mars






   
 
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