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Autore: C and S_StorieMentali    04/12/2015    5 recensioni
Samantha è la secondogenita di Clary e Jace. La sua vita sembra procedere come al solito, tra le peripezie per nascondere la sua identità di Shadowhunter agli amici mondani e tra i continui battibecchi con Max, il figlio di Simon e Isabelle. Samantha, però, non sa che il male è in agguato... E' del tutto ignara di quello che si nasconde nell'ombra, che di soppiatto entrerà nella sua vita, sconvolgendone gli equilibri e costringendo la giovane Cacciatrice a intraprendere un'avventura che mai avrebbe immaginato, un'avventura al termine della quale dovrà compiere una scelta che decreterà il suo destino e quello dell'intero Mondo delle Ombre... Tutto ciò che conosce crollerà, e, forse, anche la realtà dei mondani è in grave pericolo.
Dal CAPITOLO 1: "Premetto che essere la figlia dei due Shadowhunters più famosi degli ultimi tempi non è per niente così eccitante come sembra. Mi spiego: se i tuoi genitori, durante la loro adolescenza, hanno compiuto mirabolanti avventure che farebbero la barba persino a un cane parlante (di questo parleremo più tardi... Effettivamente riguarda più me che loro, la storia del cane), be', tutti si aspettano grandi cose da te."
SPOILER COHF!
Genere: Azione, Comico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Sorpresa, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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POV MAGNUS
 
-Potresti andare a prendermi un cocktail, micino? E non dimenticare l’ombrellino. Sai che lo adoro!-
Viola. Un vivace, lezioso, adorabile viola. Il mio mondo quel giorno era di quel colore. Viola l’oceano infinito, viola il cielo, viola quel biondo pezzo di manzo che correva sul bagnasciuga. Sì, avevo fatto decisamente un affare comprando quel paio di occhiali da sole. Peccato che il mio micino non la pensasse così. Mi stava guardando come se fossi completamente ammattito. Cosa che sentivo di non dover escludere.
-Da quando sono diventato il tuo cameriere personale, Magnus? E piantala di chiamarmi micino.-
-Come tu desideri, biscottino. E poi suona così bene cameriere personale… Sarebbe uno scenario incredibilmente interessante, sai…-
Le guance di Alec si tinsero di un adorabile rosso peperone e i suoi occhi, dopo avermi fulminato, stavano caparbiamente studiando la sabbia bianca e fine. Sorrisi, sapendo che lui non l’avrebbe notato. Adoravo farlo arrossire… Lo scrutai, aspettando il momento in cui avrebbe alzato lo sguardo, deciso a farmi una ramanzina. Eh, sì, oramai eravamo diventati una vecchia coppia; ciò non toglieva che, a pensarci bene, la nostra cabina mi era apparsa incredibilmente confortevole, accendendo la mia fantasia perversa. Era una calda giornata di sole, lì sull’isola dal nome impronunciabile dispersa nel Pacifico: il mare era una distesa cristallina, azzurra e brillante come gli occhi del mio micino scontroso; la sabbia bianca e fine mi solleticava la pianta del piede. E, a voler essere onesti, Alec sarebbe stato da dio con un completo bianco da cameriere. Oh, sì, sarebbe stato costretto ad esaudire tutte le mie richieste. In quel momento notai una piccola goccia marina scendere dai capelli neri del mio pesciolino, disegnare la linea squadrata della sua mascella, scivolare lungo il pomo d’Adamo, delineare la linea dei suoi pettorali, muoversi lungo quegli adorabili quadratini chiamati addominali e scomparire lungo la linea del suo inguardabile costume da bagno. Deglutii, sentendo il desiderio crescere in me. Avevo assoluto bisogno di andar in quella cabina…
-Ehm, Magnus?-
-Sì, micino…cosa c’è?-
-Visto che vuoi tanto disperatamente un cocktail perché non lo fai comparire con i tuoi poteri?-
Lo fissai con una espressione allibita, aprendo la bocca per sottolineare la mia incredulità.
-Per chi mi stai prendendo? Per Harry Potter?
Lui sbuffò contrariato per poi alzarsi, con un adorabile cipiglio di rassegnazione. Lo vidi allontanarsi verso il chiosco con una mano corsa a spettinarsi i capelli, tentando di asciugarli. Mi beai della vista del suo culo perfetto e dannatamente invitante, lasciandomi per un secondo andare alla fantasia. Ma, stranamente, quel giorno avevo ben poca voglia di scherzare. Perfino l’idea della cabina non riusciva a risollevare del tutto il mio umore. Ecco uno dei momenti della vita in cui sei confuso, svogliato, in difficoltà. E ti rendi conto che hai bisogno di un’ancora di salvezza, di un porto sicuro dove approdare…sì, ho decisamente bisogno di un’Armani. 
Il mio biscottino tornò dopo pochi minuti con in mano un cocktail decisamente invitante, di un bel colore arancione. Aveva pure l’ombrellino rosa shocking, quindi per me era decisamente il massimo. Iniziai a sorseggiarlo.
-Alec…ti senti bene?
-Perché mi fai questa domanda?
-Ehm, micino, perché mi hai appena portato un cocktail analcolico? Vuoi forse uccidermi?!-
-Magnus! Non puoi davvero volere dell’alcool a quest’ora!-
Era piacevole stare lì con lui a sorseggiare un odioso drink analcolico e ad ascoltare il suono della sua voce allibita, ma sapevo di non poter più rimandare. Mi accorsi in quel momento che avevo cercato in ogni modo di evitare di arrivare a quel momento, di tergiversare, di prendere tempo. Era stato un errore, me ne rendevo conto. E All’improvviso sentii che non potevo più rimandare. Era venuto il momento di dirgli la verità. Anche se avrei disperatamente voluto rimanere in quella spiaggia con lui a bearmi della sua vista, della brezza marina sulla pelle, di quella cabina che, ero certo, avremmo utilizzato in maniera vantaggiosa. Ma non riuscivo più a far finta di non sapere, ad ignorare quel senso di urgenza che sentivo addosso.
-Andiamo via.-
Studiai attentamente il volto del mio micino passare dalla sorpresa allo sconcerto fino all’incredulità. Era  interessante riuscire a leggerlo come un libro aperto, capendo tutto di lui.
-Perché?-
Sospirai, incrociando i suoi occhi indagatori. Era arrivato il momento delle spiegazioni.
-Dobbiamo tornare all’Istituto.-
-Perché?-
-Ho delle novità. So cosa è successo ai due Riccioli d’Oro quella sera.-
La sua espressione divenne incredibilmente seria, la mascella contratta, le sopracciglia aggrottate. Si alzò immediatamente in piedi, svelando il suo lato Shadowhunter, duro, pronto all’attacco. Mi guardò. I suoi occhi color dell’oceano mi scrutarono, domandandomi cose che la bocca aveva troppa paura di chiedere. Il suo sguardo mi mandò mille brividi lungo la schiena. Mi limitai a fare di sì con il capo, sapendo che lui avrebbe capito. Lui abbassò la testa e strinse i pugni. Fu solo un secondo eppure quel piccolo gesto ebbe l’effetto di maturare i timori che sentivo dentro di me. La sua voce dura e determinata mi riportò alla realtà.
-Dobbiamo fare presto.-
Gettai un’ultima occhiata alla distesa infinita dell’oceano, godendomi per un’ultima volta la sensazione piacevole del sole sulla pelle.
-Temo sia già troppo tardi micino…Troppo tardi.-
                                                                                                                                                                                
***
 
Il viaggio fu breve. Un incredibile tramonto rosso accolse il nostro arrivo. Non avevamo parlato molto, ognuno immerso nei propri pensieri. Quando arrivammo davanti all’imponente facciata dell’Istituto notai il lampo di felicità sul viso del mio fiorellino. La cosa più sconcertante per me fu di provare un insensato moto d’affetto per quell’edificio incredibilmente fuori moda. Allo stesso modo con cui anni prima mi ero interessato a Clary, la piccola Pel di carota che con il passare del tempo… Be’ era diventata una Pel di carota più grande.
Alec aprì il pesante portone senza esitare, come se avesse compiuto quei gesti un’infinità di volte.
Ci muovemmo rapidi, vicini, con le mani che si sfioravano, come se volessero incontrarsi.
Mi attendeva un compito arduo, ne ero consapevole.
Ci muovemmo nel dedalo di corridoi fino a fermarci di fronte ad un portone di legno scuro, antico, resistente.
-Ho avvisato Jace del nostro arrivo. Ti sta aspettando.-
Mi voltai a guardarlo. I suoi occhi azzurri brillavano nell’oscurità, risplendendo di luce propria. Una parte di me voleva che il mio micino mi accompagnasse oltre quella porta per darmi sostegno, ma sapevo che la sua presenza avrebbe solo complicato le cose. Era una faccenda mia e di Herondale, e andava risolta quella sera stessa.
Lui fece per bussare ma io lo bloccai mettendo la mia mano sulla sua.
Ci fissammo, incatenati dai nostri reciproci sguardi.  
Sentivo uno strana morsa serrarmi lo stomaco. Era tensione. Ma dovevo farlo, dovevo portare a termine la questione. Non solo per Jace, per Chris e per Samantha, ma soprattutto per me, per lo stregone che ero. Anche se quello che avrei detto non sarebbe stato né rassicurante né tantomeno piacevole. Alzai lo sguardo su Alexander. Lo guardai intensamente e gli rivolsi un mezzo sorriso. Era un sorriso di scuse e di rassegnazione, lui lo sapeva. Dopo pochi secondi annuì e mi toccò il braccio. Il suo tocco voleva essere rassicurante ma la sua mano tremava impercettibilmente, acuendo i miei sensi. Era preoccupato, lo sentivo. Ne avevamo parlato più volte, io e lui, della situazione che si era venuta a creare. Non gli avevo rivelato  però i miei sospetti, che temevo non essere soltanto delle inutili preoccupazioni ma qualcosa di fondato. Peggio ancora, di pericoloso.
-Ci vediamo dopo.-
La sua voce risuonò limpida in quel corridoio angusto. Mi tranquillizzò, in un certo senso. Chiusi gli occhi. Ed entrai senza bussare nel grande studio di Herondale.
Riccioli d’oro Senior era seduto di fronte alla sua scrivania e stava scribacchiando qualcosa su dei fogli, con fare svogliato. Appena entrai alzò di scatto la testa, rivolgendomi un’occhiata curiosa.
-Buonasera, Magnus. Spero che tu abbia fatto buon viaggio.-
-Non male.-
-Allora, se non ti dispiace, lascerei i convenevoli a dopo e arriverei subito al sodo. Che cosa hai scoperto sui miei figli?-
Non potei evitare di notare come aveva calcato con enfasi le parole miei figli. Lo guardai, studiandolo. I capelli biondi gli ricadevano ordinati lungo il viso, dorati come le spighe di grano in estate. Era ancora bello, attraente, affascinante, con soltanto qualche ruga in più. Emanava un’aura potente. Tutto di lui indicava autorevolezza, forza, grinta. Sotto questo aspetto era rimasto lo stesso Jace di vent’anni prima, forte e coraggioso, pronto a combattere per ciò che riteneva giusto. Ma, allo stesso tempo, sentivo di parlare con un’altra persona. Non vi era più traccia dello Shadowhunter spericolato e intrepido, di quel ragazzo che sembrava non tenere per niente alla sua vita. Era cambiato. Per questo decisi di essere schietto, franco.
- Ho fatto le mie ricerche e ho contattato tutte le fonti attendibili che mi venivano in mente. Stregoni, vampiri, perfino demoni. La risposta è che nessuno sa con precisione cosa siano tuoi figli… Di sicuro non sono normali Shadowhunters.-
-I miei figli non sono anormali, Magnus. Non usare mai più quel termine.-
Sbuffai, contrariato.
-Non ho detto questo ma anche tu riconoscerai che non sono degli Shadowhunters comuni, per il semplice fatto che hanno più sangue angelico di chiunque altro in questo mondo.-
-Queste sono cose che sappiamo già.-
-Come siamo scontrosi stasera, Riccioli d’Oro. Sicuro di non voler bere una tazza di camomilla prima di proseguire la nostra conversazione?-
-Non sono in vena di scherzi Magnus.-
-Neanche io, Herondale. Quindi mettiti comodo e ordina qualcosa al take away perché ne avremo per molto, stanne certo.-
Detto questo mi sedetti su una delle sedie intarsiate di fronte a Herondale e schioccai le dita. In un attimo comparve nella mia mano la mia tazza preferita, con su scritto a caratteri cubitali e glitterati MEGLIO DI GANDALF. Iniziai a sorseggiare lentamente il caffè amaro, beandomi del suo sapore.
-Continua.-
-Ho riflettuto a lungo sulla questione. Sia tu sia Clary siete diversi, più potenti, più pericolosi. Questo per il semplice fatto che avete una percentuale più alta di sangue angelico nelle vene. Unendovi e concependo un figlio insieme, seguendo le leggi della genetica e dell’ereditarietà, vostro figlio ha una percentuale altissima, quasi totale, di sangue d’angelo. Fin qui non c’è nulla di nuovo. Ma vorrei ripercorrere tutta la storia. Quando tu venisti da me diciotto anni fa per chiedermi consiglio, io ti diedi il mio parere sincero. Non solo. Utilizzando i miei poteri mi sono indotto una visione del futuro. Sappiamo entrambi quello che ho visto. Ma, allora, ti avvisai: il futuro, ed in particolare la sua conoscenza, è qualcosa di incredibilmente volubile e ingannevole, soggetto a infinite interpretazioni quanto sono infinite le sue possibilità. Leggere o vedere nel futuro è qualcosa di estremamente difficile, quasi di impossibile. Io vidi una versione felice del futuro del tuo ipotetico figlio e soprattutto lo vidi normale: nessuna caratteristica particolare, nessun potere speciale, neanche una leggera predisposizione per questo o quel combattimento. Ma questo non significava che sarebbe stato così, perché avevo visto solo una su infinite possibilità. Ti avvertii. Quando nacque Samantha capii immediatamente che la mia visione del futuro era errata: avevo visto solo un bambino maschio, figlio unico, senza sorelle né fratelli. Ho seguito attentamente sia lei sia Chris e non ho potuto non notare le loro innate e molteplici abilità…-
-Le loro capacità fisiche e intellettuali sono frutto dei loro studi e dei loro sacrifici. Sia io sia Clary ci siamo sempre prodigati per garantire loro il meglio, in tutto.-
-Allora spiegami questo: ti sembra un semplice frutto dello studio o dei sacrifici il fatto che tuo figlio ha iniziato a camminare a cinque mesi?-
-Era un bambino precoce. Lo è sempre stato.-
-Questo non è essere precoci. Chi inizia a camminare a nove mesi è precoce. Chi cammina a cinque è diverso, Jace. Che mi dici allora di Samantha?-
-Cosa c’entra lei?-
-È sempre stata vivace oltre ogni immaginazione, non è così? Ti ricorderai sicuramente quando, a quattro anni, voleva aiutare Clary a cucinare. Quante storie faceva, come strillava, come buttava all’aria tutta contenta la farina, sporcandosi tutti i bei vestiti che Isabelle si ostinava a comprarle. Ricorderai anche come Clary si fece scivolare accidentalmente la padella piena di acqua bollente dalle mani e come questa cadde proprio su Samantha. Tutti corremmo verso la bambina, spaventati a morte. Ma lei rideva felice, completamente bagnata, convinta che fosse un nuovo gioco. Mi spieghi come mai non si scottò mortalmente? Come mai non urlò dal dolore? Come mai la sua pelle non era neanche minimamente arrossata?-
-È sempre stata più forte del normale.-
-È proprio questo il punto, Jace. Sia lei sia Chris sono sempre stati più forti del normale, più veloci del normale, più intelligenti del normale. Ti sembra una conseguenza dello studio il fatto che Chris, invece di leggere delle comuni favole della buonanotte prima di dormire, sfogliava le pagine del Libro Grigio? Io sono un potente stregone e tuttavia non riesco a leggere quel libro dall’inizio alla fine senza rischiare di impazzire o di disintegrarmi per la potenza in esso contenuto. Anche voi Shadowhunters durante i vostri studi leggete e imparate una runa per volta, facendo attenzione.-
-Chris non ha mai fatto niente del genere, Magnus. Non l’ho mai visto fare ciò.-
-Io sì, invece. E anche Clary. È stata lei a raccontarmi tutto per chiedere il mio parere. Ci sono centinaia di episodi che ti posso citare per provarti che i tuoi figli non hanno niente di normale.-
-Continua.-
-Ho tratto le mie conclusioni. Sia lei sia lui hanno dimostrato capacità eccezionali sia nei combattimenti, sia nello studio. Entrambi sembrano essere immuni al fuoco. Entrambi sembrano avere un particolare rapporto con le rune angeliche. Entrambi hanno una velocità di guarigione impressionante. Ti ricordi quando Samantha, litigando con Max per chi dovesse avere l’ultimo pezzo di torta, cadde dal terzo piano? Erano piccoli e molto probabilmente hanno cancellato quell’episodio dalla loro mente, ma… Ricorderai di certo come ci siamo tutti precipitati correndo giù, nel giardino, credendo di trovarla morente.  E mentre noi ci stavamo disperando lei si stava tranquillamente arrampicando su per la grande quercia, come se non fosse appena caduta da almeno trenta metri. Come se non dovesse essere morta o almeno agonizzante. Concorderai con me che tutto questo è stranissimo, anormale, inusuale.-
Lo vidi abbassare finalmente lo sguardo, costretto ad arrendersi all’evidenza. Tutto quello che avevo detto era vero, lui lo sapeva.  Eppure accettarlo era difficile per lui, riuscivo a capirlo. Era stato difficile anche per me riconoscere il mio errore, la mia imprudenza. Ma quello era solo l’inizio: ora veniva la parte peggiore.
-So che non ti piacerà quello che sto per dirti. Fidati, non piace neanche a me. Ma la verità è una ed una sola: tutto il mondo dei Nascosti e perfino il Conclave ha trattenuto il fiato nel giorno della nascita di Christopher. Tutti, nessuno escluso. Siamo in un’era di transizione, Jace. Non credere che con la morte di Valentine e Sebastian le cose si siano risolte. Anzi. Stiamo attraversando la calma prima della tempesta. La convivenza fra Nascosti e Shadowhunters non è mai stata semplice, io ne so qualcosa. Siete sempre stati odiati da tutti noi per la vostra arroganza, il vostro credervi superiori, migliori, prescelti. Avete disprezzato me e quelli come me solo perché non eravamo come voi. Avete sbagliato, forse più di tutti noi messi insieme. Nei secoli ci siamo odiati a vicenda, ci siamo fatti dei torti, voi ci avete perseguitato. Con le ultime due Grandi Guerre la situazione non si è calmata, si è solo fermata. Per non parlare dei demoni. Da mesi a questa parte io e alcuni altri stregoni miei amici abbiamo notato che tutti, perfino le specie di solito più tranquille, sono in fermento, incredibilmente irrequieti, senza un vero motivo apparente. Il mio timore è che anche questa loro crescita di potere sia concatenata a quello che sta succedendo.-
-Che cosa intendi? Non mi risulta che ci siano insurrezioni rilevanti. Le solite scaramucce, tutto qui.-
-È molto più di questo, Herondale. Se prima tutto ciò era una lotta di mentalità, ora è molto più di questo. Se prima erano due mondi opposti ma uguali che dovevano trovare il modo di collaborare per un bene più grande, ora non è più così. La colpa non è solo vostra. Anche noi abbiamo la nostra dose di responsabilità, il nostro fardello di colpe da portare. I nostri errori con cui convivere. Ma nessuno dovrebbe essere accusato per quel che è, nessuno dovrebbe essere giudicato in base al suo sangue e non le sue scelte. L’odio è un sentimento che cresce con calma nel cuore e nella mente; è un veleno talmente potente che corrode piano piano i tuoi pensieri, le tue emozioni, rendendo il disprezzo e l’astio le uniche sensazioni che riconosci, che diventano tue. Dopo ciò arriva il desiderio di vendetta, di veder soffrire i tuoi nemici come hai sofferto tu, di vederli piangere come prezzo delle tue lacrime, di vederli distrutti, annientati, eliminati per mettere a tacere quella vendetta che senti ribollire nel sangue, che senti come unica ragione di vita. Questa è la situazione attuale.-
-Abbiamo iniziato un periodo di convivenza Magnus. Ora tra di noi c’è il dialogo, i Nascosti hanno il loro posto nel Conclave, non vedo ciò che tu hai descritto.-
Sorrisi amaramente, guardandolo dritto nei grandi occhi dorati.
-Neanche io lo vedo. Ma lo sento, lo percepisco. Sappiamo entrambi che il rancore è qualcosa che non si dimentica né si lenisce con il passare del tempo. Violenza chiama odio, repressione chiama vendetta.-
Un lampo di consapevolezza gli illuminò le iridi.
-Il popolo fatato.-
Annuii, appoggiando la tazza ormai vuota sulla scrivania.
-Temo sia solo questione di tempo. Sono il popolo più antico che ha abitato questa Terra: non dimenticheranno mai quello che gli abbiamo fatto. Hanno sbagliato, ma il prezzo per le loro azioni sarà solo un altro motivo per odiarci e tramare alle nostre spalle. I tuoi figli sono stati studiati da tutti, nessuno escluso. L’intero mondo sta trattenendo il respiro in attesa di quello che succederà. Penso che loro possiedano alcune capacità particolari, possiamo definirli anche poteri, diversi da quelli tuoi e di Clary ma più potenti, sfuggenti. Ritengo che non si siano manifestati chiaramente fino ad oggi perché Sam e Chris non erano ancora pronti. Come in molti casi c’è un’età particolare in cui avviene la maturazione: credo che nel loro caso sia verso i quindici anni.-
-Ma Chris ne ha sedici.-
-Interessante deduzione. Credo, ma è solo un ipotesi, che i loro poteri siano in qualche modo legati, indissolubili. Penso che quelli di Chris fossero dormienti, in attesa dello sviluppo delle piene capacità della sorella. Sono tutte teorie che andremo a confermare. Ti ricordi la notte in cui ci siamo ritrovati Max di fronte al portone dell’Istituto con Samantha svenuta fra le sue braccia e Chris agonizzante sulla sua spalla?
-Ovvio. Era il 17 gennaio.-
-Credo che, quella sera, sia successo qualcosa di unico. I loro poteri finalmente sono venuti alla luce, manifestandosi nei loro corpi. Hanno detto di aver provato un bruciore fortissimo e dilaniante, come se stessero andando a fuoco: ritengo che sia la descrizione effettiva del processo che è avvenuto dentro di loro, come se qualcosa li avesse attivati. Come se una parte di loro si fosse improvvisamente svegliata da un lungo sonno, celata nei meandri del loro essere. Questo spiega i dolori insopportabili e come io stesso abbia all’improvviso avvertito una fortissima ondata di energia provenire dall’esatto punto dove loro si trovavano in quel momento. Il problema è che non sono stato l’unico a percepirla: sono convinto che molti l’abbiano sentita, solo che non conoscevano la fonte di tale rilascio.-
-Temi che qualcuno abbia dei sospetti?-
-Ne sono sicuro.-
-Cosa suggerisci di fare, allora?-
-Portarli via da qui. Il prima possibile. Anche stasera stessa. Ho intenzione di andare in fondo alla questione: nel Nord Europa si trova il più antico stregone vivente. Si vocifera che abbia addirittura mille anni. Chi meglio di lui, che tanto tempo ha vissuto su questa Terra, saprà rispondere alle nostre domande?-
-Non vedo perché tu non ci possa andare da solo.-
Sbuffai, sapendo di starmi avvicinando alla parte più complicata.
-Chris e Samantha non sono al sicuro qui. È solo questione di tempo prima che qualcuno capisca cosa è successo quella sera. Fidati, mi sorprende che nessuno lo abbia ancora capito, ma non ci vorrà molto. Non parlo solo dei Nascosti, ed in particolare del Popolo Fatato, ma anche dei demoni e del Conclave. Vuoi davvero che i tuoi figli siano allontanati da te per essere studiati come cavie? Perché è quello che succederà quando il Conclave farà due più due e arriverà a loro. Non puoi separarli, aumentare le misure di sicurezza, chiuderli a chiave nelle loro camere. Arriveranno, Jace. L’unica cosa che non sappiamo è chi sarà il primo ad attaccarvi.-
-Sono stati al sicuro per quasi diciassette anni, Magnus.  Mi sono sempre preoccupato personalmente di tenerli lontani dai pericoli.-
-Non si tratta di questo. Arriveranno e attaccheranno. Per quanto siano veloci, forti, preparati all’attacco, Chris e Samantha verranno sopraffatti. Lasciali venire con me. È nei loro diritti sapere cosa è successo, quali sono le loro vere potenzialità. Non puoi più fare finta di niente. Pensa a te alla loro età e trai le tue conclusioni. Entrambi, specialmente Samantha, vorranno sapere il perché, e se non glielo diremo noi cercheranno di scoprirlo da sé. È tempo di agire e dovremmo essere noi i primi a farlo, sottraendoli a questa città con troppi occhi e troppe orecchie indiscrete. Inoltre nessuno accanto a loro è al sicuro.-
-Cosa intendi-?
-Non conosco ancora con precisione la natura dei loro, chiamiamoli così, poteri. Ma, se si tratta di una forma particolare di magia, siamo nei guai. Non solo perché la magia, specialmente quella naturale e non soggetta a controllo, esercita un richiamo fortissimo per ogni individuo magico nel raggio di chilometri, ma anche perché né Samantha né Chris riuscirebbero a controllarla. Vedila così: nel loro corpo potrebbe esserci una fonte di potere. Puoi anche immaginarla come una scatola grande, elaborata e soprattutto chiusa. Quando una persona con questo talento è soggetta a forti emozioni come rabbia, frustrazione, impulsività questa scatola corre il rischio di aprirsi, liberando ciò che si trova al suo interno. La prima volta sono stati i ragazzi ad avvertire ciò attraverso i dolori lancinanti nel loro corpo; se dovesse succedere ancora, temo che quell’energia si proietterebbe all’esterno, distruggendo ogni cosa, compresi loro e chi gli sta intorno. È un rischio che non possiamo assolutamente correre.-
-E se la natura dei loro poteri non fosse magica?-
-Questo non cambia le cose. Dobbiamo scoprire con esattezza in cosa consistono questi doni, e per farlo loro devono venire con me in Europa.-
Jace si alzò in piedi ed iniziò a camminare aventi e indietro, lanciando spesso occhiate alla grande finestra, come se le stelle appena spuntate potessero mostrargli la via, la soluzione giusta da prendere. Dentro di me sapevo che Herondale conosceva già la risposta, semplicemente si rifiutava di accettarla; così facendo non faceva che bloccare una situazione difficile che minacciava di esplodere da un momento all’altro. Mi rivolse uno sguardo penetrante, soppesando le mie parole.
-Spero che tu capisca che non posso stravolgere in questo modo la loro vita da un giorno all’altro. Entrambi hanno i loro studi, i loro amici, la loro famiglia. Non posso permettere che vengano sradicati in questo modo così improvviso dalla loro realtà quotidiana. Non posso farlo. Assolutamente no.-
A quel punto mi alzai in piedi. Sentivo la rabbia ribollirmi nelle vene, attraversando ogni parte del mio corpo. L’aria attorno a me si fece elettrica e minuscole scintille azzurre si sprigionarono dalle mie mani, illuminando di una luce sinistra il mio volto.
-Vedo che non ci siamo capiti, Herondale. Se non sarai tu a stravolgere il loro piccolo e felice mondo, sarà qualcos’altro. Un terremoto sospetto, un incidente inspiegabile, un rapimento a opera di nessuno. Sei un egoista, Herondale. Non soltanto nei confronti dei tuoi figli ma anche nei confronti degli umani che hai promesso di proteggere. Ci andrebbero di mezzo anche loro, stanne certo. Decine, centinaia, migliaia di vittime innocenti solo per la tua ottusità, per la tua ostinazione insensata. Per il tuo dannato orgoglio. Sì, perché il grande Jace Herondale, eroe delle Due Guerre, il più famoso Shadowhunter che sia mai esistito non accetta di non riuscire a fare qualcosa che ogni padre normale dovrebbe fare, no? Non riesce ad accettare di essere talmente inutile da non riuscire neanche a proteggere i suoi figli? Sei uno stupido, ecco cosa. Uno stupido, ottuso e orgoglioso che non riesce a vedere aldilà del suo regale naso.-
-Non ti permetto di rivolgerti a me in questo modo, Magnus. Ritira immediatamente quello che hai detto.-
La sua voce era imperiosa, forte. Il suo sguardo era furioso, le mani strette a pugno per la rabbia trattenuta a stento.
Ma io raddrizzai la schiena e affrontai i suoi occhi dorati, squadrandolo con aria di sfida.
-Pensa un po’ l’ironia della sorte, Herondale. Tu non mi permetti di dire la verità. Io non ti permetto di mettere fine alla vita dei tuoi figli e di centinaia di innocenti con loro. Ti do un giorno di tempo per ripensare alle cazzate che hai detto questa sera. Ventiquattro ore. Poi prenderò Chris e Samantha e partirò, con o senza il tuo permesso.-
Mi girai e attraversai con ampie falcate lo spazio che mi divideva dall’ampio portone. Misi la mano sulla maniglia e la abbassai con decisione. Mi voltai un’ultima volta verso Jace e lo guardai. Uno sguardo calcolatore, freddo, intimidatorio.
-Ti consiglio di non ostacolarmi. Sarò pure ultra centenario ma ti assicuro che posso rivelarmi un nemico quasi impossibile da sconfiggere.-
Spalancai la porta e la sbattei con forza alle mie spalle, per sottolineare quello che in quel momento pensavo di lui e del suo atteggiamento del cazzo.
Succederà. Non so quando, non so dove, non so per mano di chi. Ma accadrà.
 
 
 
 
 
POV MAX
 
Pesante come la volta celeste, profondo come la terra più fertile ed il mare più blu, indefinito nei contorni per quanto cercassi un orizzonte non vidi altro che nero. Nero, nero, nero. Poteva celare al mio sguardo i confini di quel buio opprimente oppure illudermi che a tutto quello ci fosse una fine, quando in realtà il mondo in cui mi trovavo non aveva via d’uscita. Non riuscivo a sentire né i miei arti inferiori né il resto del corpo. Sembrava che al posto delle gambe avessi due sacchi pieni di cemento. Cercai di muovere qualche passo, ma soltanto provare a sollevare un piede mi mandò una scossa dolorosa alla spina dorsale. Se la mia trasposizione corporea in quello strano universo buio e parallelo avesse avuto un volto, cosa di cui non ero tanto sicuro, probabilmente la mia bocca si sarebbe storta in un’espressione di dolore. Non sentivo nessun pavimento sotto di me. Ciò mi dava come la sensazione di stare fluttuando, anche se non c’era nessun movimento d’aria a confermare la mia teoria.
All’improvviso, una luce apparve in quell’universo fumoso. Prima era solo un puntino meno scuro degli altri, poi si mosse e guizzò, producendo scintille dorate. La guardai  rapito finché non divenne grande e luminosa e gli occhi non iniziarono a bruciarmi. Cercai di tenere le pupille spalancate ma la luce divampò iridescente e, con un gesto involontario, portai la mano davanti al viso e serrai le palpebre.
Attesi in silenzio. Rivoli di sudore mi scesero lungo la schiena facendomi rabbrividire. Lentamente abbassai il braccio e socchiusi gli occhi. Davanti a me...avevo il buio.
No. Non di nuovo. 
Sentii un’acuta disperazione crescere in me, attanagliarmi le viscere in una morsa soffocante. Incurante del male lancinante alle gambe, iniziai a camminare. Sembrava che minuscole schegge gelide come il ghiaccio mi stessero trapassando i muscoli, mentre il dolore era un’onda maestosa che mi trascinava alla deriva, lasciandomi inerme sulla spiaggia di quell’abisso scuro. Era come se mi trovassi in una bolla: orribile, infinita, impenetrabile, che pian piano rimpiccioliva imprigionandomi al suo interno. La tensione si diffuse in me, bloccandomi il respiro e rallentando il battito cardiaco.
Per due secondi il tempo di quel mondo si fermò. Era come se avessi lanciato in aria una monetina: eccola lì, sospesa nel vuoto, in quel momento dove tutte le strade sono aperte, dove tutto può ancora succedere. E non c’è probabilità o equazione che ti possa dare la risposta esatta senza nessun margine di dubbio. E, in quegli istanti, ti ritrovi a trattenere il respiro aspettando che qualcosa accada. Non importa se uscirà testa o croce, ti ritrovi fermo, bloccato da chissà quale gabbia temporale, ipnotizzato dalle infinite possibilità che ti si aprono davanti, dalle infinite pieghe che la storia può prendere, senza che tu possa muovere un dito per fermarle. Sentii quell’esatta sensazione: come se quel posto lugubre stesse trattenendo il respiro, in attesa della mia prossima mossa.
Mi parve di sentire perfino delle risate in lontananza, che si prendevano gioco di me, sapendo che qualunque scelta avrei compiuto non sarei mai riuscito a fuggire.
Una rabbia cieca si impossessò della mia anima, si unì al mio sangue e cominciò a scorrermi nelle vene, arrivando dritta nel mio cuore. Strinsi i pugni fino a sentire le unghie conficcarsi nel palmo della mano. Scattai. Corsi a perdifiato cercando di lasciarmi alle spalle quella presenza che sentivo tutt’intorno a me. Mi si annebbiò la mente per il dolore che sentivo stringere le mie carni, il fuoco che divampava sotto il tessuto epiteliale e che bruciava le mie cellule. Non mi fermai. Urlai. Un urlo di dolore e di sfida.
Chiunque fosse quello strano essere che sentivo dietro di me, doveva sapere che se voleva uccidermi, doveva decisamente fare di meglio. 
Il buio iniziò a diventare più denso e corposo, quasi solido. Sentii delle grandi protuberanze, rami o forse mani, che mi toccavano, cercando di fermare la mia corsa. Mi divincolai con le poche forze che mi erano rimaste, colpendo, graffiando e mordendo.
All’improvviso sentii un suono agghiacciante. Mi bloccai, cercando di capire cosa fosse. Quando ci arrivai, rimasi interdetto. Non me lo ero immaginato. 
Una risata lunga e cristallina si diffuse in quel mondo, facendo vacillare quelle che nella mia immaginazione ne erano le pareti, scuotendo il mio corpo distrutto.
-Chi sei?- urlai con tutta la rabbia che sentivo, fino a sentir dolere le corde vocali. -Affrontami. Combatti. Poi sarò io a ridere.-  La mia voce era sicura e risuonò chiara in quel luogo oscuro.
Ma la risata non si fermò, anzi si intensificò. Ormai ne sentivo l’eco rimbombare nella mia testa, stordendomi. Come era arrivato, all’improvviso, il suono si placò. Sostituito da uno ben peggiore. Glaciale, duro, circospetto.
-Un giorno, cacciatore, un giorno non poi così lontano arriverà il momento. Ed allora ti sentirò ridere, mio impavido figlio di Nemphilim.-
Sentì un improvviso dolore al petto. Mi accasciai, privo di forze. Chiusi gli occhi. Ed il buio entrò in me.
 
***
 
Bam! Il colpo risuonò nitido tra le pareti della palestra.
Indietreggiai, evitando il contraccolpo. Guardai concentrato il sacco da boxe di pelle rossa davanti a me. Era resistente, duro, pesante. Era esattamente ciò che mi serviva per distrarmi.
Sferrai l’ennesimo pugno all’aggeggio, facendolo compiere un semi giro attorno alla catena che lo teneva ancorato al soffitto, fino quasi a sfiorarla. Veloce, lo evitai con un doppio salto mortale. Il sacco oscillò vistosamente per una manciata di secondi, poi tornò immobile, continuando a sfidarmi con il suo sguardo di pelle. Continuai a colpirlo senza pietà, ignorando le fitte dolorose alla mano e ai polsi.
Non avevo indossato i guantoni da boxe. Volevo sentire direttamente il tessuto del mio avversario, volevo sentire i muscoli distendersi e piegarsi sotto i miei movimenti e, soprattutto, volevo sentire il dolore. Volevo portare al limite il mio corpo e superarlo, conoscendo orizzonti a me sconosciuti. Avevo un disperato bisogno di concentrarmi e dimenticare l’incubo della notte appena passata, dell’universo buio e opprimente, della voce glaciale. Sebbene fossi in palestra a petto nudo, sudato ed accaldato, brividi freddi mi attraversarono la spina dorsale al ricordo.  
Colpii il sacco. Una, due, tre volte. Lasciai che la mia rabbia verso quell’essere si riversasse su quell’oggetto inanimato, tempestandolo di colpi, non lasciandogli neanche il tempo di ruotare. Sentii il sangue colarmi lungo le nocche, fino all’avambraccio. Non mi fermai. Ruotai su me stesso e flettei la gamba, tirando un calcio forte e preciso al centro del sacco. Esso cadde a terra con un tonfo secco. Colpito, annientato.
Lo guardai, logorato e distrutto mentre sembrava lanciarmi sguardi di rimprovero con la sua faccia di pelle. Decisi che con la boxe per quella notte poteva bastare. Osservai con distacco le mie nocche sfregiate e martoriate, di un rosso acceso e con le vene in rilievo, chiazzate di sangue. Per un momento mi sfiorò il pensiero di prendere lo stilo e disegnarmi una runa guaritrice, ma scossi la testa e mi diressi sicuro verso il pesante portone della palestra. Lo spinsi, cercando di non fare rumore.
Era ancora notte fonda e nell’Istituto si sentiva solo il soffiare degli spifferi notturni, che sicuramente entravano da qualche finestra lasciata aperta.
Silenzioso come un gatto, mi addentrai nel dedalo di corridoi. La mia meta non era lontana. Avevo in mente di salire sin sul tetto e fare un giro sulla mia moto, giusto per schiarirmi le idee.
Stavo per aumentare la falcata quando un urlo squarciò la quiete della notte. Mi fermai, indeciso. Passarono alcuni secondi. Poi sospirai e continuai ad avanzare, questa volta diretto verso l’ala est. Sapevo a chi apparteneva quel grido. Era ormai diventata una spiacevole abitudine ascoltare i suoi lamenti. Girai a destra, superai la mia camera e, dopo un paio di stanze vuote, trovai ciò che cercavo.
Mi fermai, i piedi ben ancorati al freddo pavimento. Non avevo bisogno di vederla per sapere che era affacciata al davanzale della sua finestra e respirava a pieni polmoni l’aria notturna, per cercare di cancellare dalla mente i ricordi dell’ennesimo incubo. Se mi concentravo potevo perfino sentire il cigolio delle molle del materasso che si piegavano sotto il suo peso mentre tornava a stendersi. La vedevo benissimo nella mia mente, mentre si portava le ginocchia al petto e si arrotolava una ciocca di capelli biondi fra le dita.
Aspettai fermo davanti alla sua porta finché non sentii il suo respiro farsi pesante, poi proseguii lungo il corridoio.
Oramai da tre mesi la storia andava avanti. Verso le due di notte, puntualmente, udivo le sue grida dalla mia stanza. In quella parte dell’Istituto c’erano soltanto la camera di Chris, di Samantha e la mia.
Ma io ero l’unico ad ascoltarla lamentarsi ogni notte, per il semplice fatto che anche io non riuscivo a dormire. Come un’amante puntuale e devota, così ogni sera il mondo oscuro tornava a farmi visita. Tisane, ipnosi, sonniferi. Avevo provato di tutto per evitare di andare ad un appuntamento. Niente. Nessun risultato. Neanche l’ombra di un cambiamento.
L’irritazione cominciò a scorrermi nelle vene mentre imboccavo l’ennesimo corridoio. Sapevo fin troppo bene di non essere l’unico. Samantha e Chris avevano il mio stesso problema, solo che loro si limitavano a rigirarsi nel letto e ad ignorare la cosa. Avevo provato a parlarne con il mio parabatai, ma lui aveva liquidato la faccenda con una scrollata di spalle. Stessa cosa con la sorella. Troppo testarda e ottusa per capire che quei sogni non avevano niente di normale, perfino per noi Shadowhunters. Non mi aveva neanche voluto dire cosa vedeva, sentiva, udiva durante  suoi incubi. Si era limitata ad asciugarsi una lacrima ribelle lungo la linea della sua guancia e a guardarmi sicura del fatto che prima o poi la cosa sarebbe passata.
La sua era chiaramente una speranza. Una mera illusione, secondo me. A volte la sua cocciutaggine mi lasciava interdetto: era incredibile come non volesse accettare il fatto che qualcosa non andasse, che ci fossero dei problemi. E mi stupiva ancora di più il suo rifiuto ad affrontarli. Era la prima volta che si comportava così: solitamente era lei quella sempre pronta a rompere gli indugi, ad affrontare a viso aperto le avversità, di qualunque natura esse fossero. Questo mi impensieriva: per causare questo suo netto rifiuto, gli incubi dovevano essere tremendi. Forse sognava quel suo ComeSiChiama. Avrei urlato anche io se mi fossi trovato davanti i suoi fastidiosissimi ricci incolti e quel suo sorriso tutto miele. Davvero devastante.
Riflettevo su ciò quando sentii un brivido freddo attraversarmi. Mi girai e notai una finestra aperta sulla mia destra. La pallida luce lunare si irradiava lungo il corridoio angusto, andandosi ad unire a quella più calda e tetra emanata dalle lampade a forma di rosa, disposte ordinatamente lungo il muro antico.
Mi affacciai al davanzale: all’orizzonte, il nero della notte andava via via schiarendosi fino a diventare un pallido blu oltremare. Mancavano un paio di ore all’alba, stimai.  Decisamente troppo poco tempo per concedermi il lusso di un giro in moto per i cieli di New York.
Repressi un moto di irritazione e pensai veloce ad un’alternativa. Di tornare in camera non se ne parlava. Non avrei dormito in ogni caso, perciò la prospettiva di stare sul letto a guardare lo spoglio soffitto della mia stanza non mi attirava per niente. Varai varie possibilità e, dopo pochi secondi, trovai la soluzione. Mi voltai, diretto all’armeria.
 
***
 
Correvo a perdifiato lungo una delle tante vie di China Town. Era una strada del centro, piena di gente dai caratteristici occhi a mandorla.
Non mi voltai, ma riuscii benissimo ad immaginare il demone inseguirmi veloce. Sentivo l’eccitazione e la fame della caccia infiammarmi le articolazioni e incendiarmi il sangue.
Aumentai il ritmo delle falcate, lasciando che l’aria fresca della notte mi scompigliasse i capelli sudati, mentre inspiravo a pieni polmoni l’odore del cibo cinese.
Arrivai all’angolo della strada e, prima di svoltare, gettai un’occhiata alle mie spalle. La massa gelatinosa e verdognola non era particolarmente veloce, eppure mi stava alle calcagna. Il demone mostrò le zanne nere e lucide e ringhiò contro di me, sibilando con le sue due bocche triangolari.
Mi diressi deciso verso una stradina meno affollata. Alcune persone mi fissavano curiose, ma in generale nessuno fece caso a me. E, cosa più sorprendente, nessuno notò il demone che mi stava inseguendo. Ghignai; probabilmente vedevano un cane rabbioso o una sorta di macchina impazzita. Mondani. Così intelligenti eppure così ottusi.
Approfittando del vantaggio sulla creatura mi nascosi dietro il cornicione di una casa, cercando di regolarizzare il respiro. Estrassi dalla tasca del mio giubbotto di pelle un pugnale affilato e mi misi in posizione. Sentivo tutti muscoli del mio corpo in tensione, pronti a scattare al minimo segnale di pericolo. Alzai lo sguardo. Osservai le classiche insegne cinesi, rosse e oro, che portavano scritte  a caratteri cubitali il nome di chissà quale attività . Parlavo tante lingue, ma mi rifiutavo categoricamente di imparare il cinese. Troppi simboli, troppe lettere, troppo tempo sprecato. Però, preso dallo sconforto, presi in considerazione l’idea di studiarlo: magari così sarei stato talmente stanco da cadere in un sonno senza sogni. E avrei evitato di vagare senza meta durante la notte, aspettando paziente che qualche demone venisse a stanarmi.
Prima di riuscire a vederlo o sentirlo, avvertii il suo odore sgradevole, come di pesce marcio e uova andate a male. Storsi il naso nell’oscurità. Rinsaldai la presa sul pugnale, pronto ad attaccare. Ora riuscivo perfettamente ad udire il suono dei suoi passi strascicati che si avvicinavano sempre di più al mio nascondiglio. Non aspettavo altro. Con movimenti lenti e circospetti estrassi dal fodero sulla schiena la mia unica spada angelica. La impugnai. Scelsi il nome dell’Angelo e rimasi in attesa.
-Dove sei, Cacciatore? Dove ti nascondi?- sibilò il demone. La sua voce era graffiante e roca, come se avesse avuto delle lamette appuntite lungo la gola che gli incidessero le corde vocali. Sempre che le avesse, le corde vocali.
Osservai il paesaggio urbano attorno a me. Ero in una stradina tipicamente residenziale, ad eccezione del ristorante alle mie spalle. L’unica luce era rappresentata dall’insegna dorata, che illuminava il demone. Potevo finirlo in due semplici mosse: avrei puntato alle bocche, l’unica parte del suo corpo che non era ricoperta da melma verdognola. Con un gesto fulmineo spiccai un lungo balzo, effettuai un salto mortale a mezz’aria ed atterrai di fronte alla schiena dell’essere deforme.
Dovetti sforzarmi di non emettere versi disgustati alla vista della pelle gelatinosa e verdognola, che colava lungo il suo corpo, avvolgendolo completamente.
-Gabriel- invocai. La spada angelica che reggevo nella mano destra prese vita: una luce pura e bellissima si sprigionò dall’adamas illuminandomi il volto e facendo voltare il demone. Ringhiò di disappunto alla vista dell’arma e mostrò le lunghe arcate di denti neri, sibilandomi contro.
Veloce come una saetta puntò al mio viso, con le fauci spalancate pronte a inghiottirmi. Mi scansai lesto e disegnai con la mia spada un arco preciso lungo l’addome del mostro, che ululò di dolore, senza però smettere di fissarmi famelico.
Aumentai la presa sull’arma mentre i muscoli della mia spalla si tendevano, pronti al prossimo attacco. Non diedi tempo al demone di fare niente: presi la rincorsa, mi librai nell’aria e gli sferrai un calcio dritto in pancia, stordendolo per pochi attimi. Lui si piegò leggermente come per incassare il colpo, ma dopo due secondi rialzò il capo, assottigliando i suoi due piccoli occhietti gialli.
Non persi tempo: estrassi il pugnale dalla cintura e lo strinsi nella mano sinistra mentre mi piegavo per evitare le zanne intrise di veleno della creatura. Essa ringhiò infuriata ed io approfittai dell’attimo per infilargli la spada angelica dritta in una delle due grandi bocche, mentre con il pugnale sfregiavo il lato sinistro del suo sterno. Il demone urlò di dolore mentre iniziava ad accartocciarsi su se stesso.
Mi allontanai soddisfatto. Lo guardai dissolversi, tornare da dove era venuto.
Al suo posto, pochi attimi dopo, c’era una lunga zanna nera, il premio della vittoria. La raccolsi, ammirandone la durezza e la resistenza, mentre le prime luci dell’alba iniziavano a tingere di rosso China Town.
 
*****
 
 
- Max, Max aspetta!- urlò Isabelle Lewis vicino all’ascensore. Per quanto cercai di evitarlo, non riuscii a nascondere un sorriso. Con un piede fermai le grate dell’ascensore, che si stavano chiudendo davanti a me. Guardai mia madre venirmi incontro. I suoi occhi neri come l’inchiostro mi scrutarono sospettosi, mentre incrociava le braccia sul petto. Sospirai, pronto al solito interrogatorio. La luce del mattino rendeva i suoi lunghi capelli neri lucenti e il colore rosso del maglione metteva in risalto la sua carnagione chiara. Così simile alla mia.
-Perché  non hai fatto colazione, Max?- mi chiese guardinga. Il tono della sua voce era inquisitorio e seppi che non mi avrebbe lasciato andare se prima non avessi risposto a tutte le sue domande. Evitando di mentire, possibilmente. Sorrisi nell’ombra: nulla sfuggiva ai suoi occhi indagatori. Che si trattasse di uno sguardo cupo, di un gemito di dolore o di una colazione saltata, lei lo sapeva. Sempre.
-Ha cucinato Clary. Giusto perché tu lo sappia.-
La guardai. Aveva la solita aria esasperata che assumeva ogni qualvolta qualcuno saltava i pasti per evitare di assaggiare i suoi deliziosi manicaretti. Che, per inciso, di delizioso avevano ben poco. Ma il modo in cui arricciò le labbra carnose mi riempì il petto di calore, un calore dannatamente piacevole. Per questo le rivolsi uno dei miei rari sorrisi e le dissi: -Ho già mangiato a China Town. Ora, se non ti dispiace, devo andare. Ho una questione da risolvere.-
Feci per defilarmi quando la sua voce inquisitoria mi raggiunse: -E cosa ci facevi a China Town?-
Ghignai e la guardai complice. Sperai davvero che lei potesse comprendere la fame della caccia che mi aveva assalito la scorsa notte, la voglia irresistibile di correre a perdifiato inseguito da un demone, di sentire l’aria gelida della notte scuotermi i capelli, di provare l’ebbrezza del rischio.
Lei alzò gli occhi al cielo ed allargò le braccia. Per un attimo pensai che mi avrebbe chiesto di più, che si sarebbe arrabbiata per le mie solite omissioni. Ma lei mi rivolse uno dei suoi splendidi sorrisi. Guardai i suoi occhi neri come l’inchiostro accendersi di una luce particolare, che sapevo riservare solo a me, e osservai la piccola fossetta che gli usciva sulla guancia sinistra ogni volta che sorrideva. La adoravo, quella fossetta.
-E sia. Ma se non ti vedo a pranzo, giuro che ti troverò, Maxime Lewis. E ti costringerò a mangiare la mia zuppa di pesce. Fino all’ultimo cucchiaio...-
A quel punto tirai indietro il piede, lasciando che le grate dell’ascensore si frapponessero fra me e lei e la sua famigerata zuppa. Il marchingegno cigolò e cominciò a scendere lentamente. L’ultima cosa che vidi fu la figura alta e longilinea di mia madre che tornava verso la cucina.
 
***
 
Appoggiai distrattamente la spalla sul muro del corridoio. Non la raggiunsi né mi avvicinai. Mi limitai ad osservarla ridere con i suoi due amici mondani, mentre stringeva distrattamente la spallina dello zaino. Non potei non notare le borse scure sotto i suoi occhi, prontamente nascoste con il correttore, ed il suo sguardo spento, tirato. Anche il modo in cui distribuiva il peso sulla gamba destra per me aveva un significato. La ferita del demone non era ancora guarita. Sebbene non fosse mortale, il veleno creava prurito, bruciore e, a volte, anche spasmi dolorosi. La vidi  piegare le labbra carnose in una strana angolatura e stringere le palpebre. Riuscii perfino a immaginare il muscolo della sua coscia contrarsi spasmodicamente per poi rilassarsi. Durò pochi secondi, poi tornò a chiacchierare con i suoi compagni.
Mi stavo chiedendo che runa si fosse disegnata sulla gamba per non emettere neanche un gemito di dolore, quando vidi avvicinarsi ComeSiChiama e il suo irritante sorrisetto. Diabetico. Eppure lo sguardo di lei si illuminò come se avesse visto Raziel in persona. Potevo non ricordarmi il suo insignificante nome né quale fossero i suoi hobby, ma ero sicuro di una cosa: quel tipo non era ciò che sembrava. Come facevo a saperlo? Dal primo momento in cui l’avevo visto una strana sensazione si era impossessata di me, una sorta di formicolio dietro la nuca che non accennava ad andarsene. Tutto di lui mi insospettiva, mi faceva scattare in allerta. Lo scrutai, attento a non farmi sorprendere: lasciai che il mio sguardo si posasse su di lui, fasciandolo per intero, per poi posarsi altrove.
In quei giorni lo avevo guardato, soppesato, cercato informazioni su di lui. Nulla. Non avevo trovato niente sulle sue origini, sulla sua provenienza, in pratica sulla sua storia. Sembrava letteralmente piovuto a New York insieme alla pioggia dei tanti temporali invernali. Era quello il motivo che mi aveva spinto ad andare alla sua ridicola festa, qualche settimana orsono. E la casa che diceva essere sua non aveva fatto altro che rafforzare i miei dubbi: una normale villetta, certo. L’avevo perlustrata in lungo e in largo. Pulita, ordinata, fredda. Non c’erano foto della sua famiglia appese alle pareti, calamite significative attaccate al frigo, e, per di più, le stanze al piano di sopra non erano mai state usate: un sottile ma visibile velo di polvere aleggiava sulla trapunta neutra dei letti, sui comodini che, me ne ero accertato, non contenevano nulla. E, cosa più importante, in tutta la casa vi era un persistente odore di chiuso, che impregnava le pareti, i cuscini del divano, in pratica ogni cosa. Come se la casa non fosse stata mai davvero utilizzata. Non avevo potuto approfondire le mie ricerche per colpa della festa, della miriade di ragazzi ubriachi e sudati e per colpa di quel ComeSiChiama. E anche di Herondale, per dirla tutta. E quella era anche la ragione per la quale avevo torchiato Samantha in quei giorni: volevo scoprire se, almeno lei, sapesse qualche cosa su di lui, sulla sua famiglia, su dove abitasse prima di trasferirsi a New York. Ma, come al solito, da lei non avevo ottenuto niente. Anzi, aveva addirittura pensato che io fossi geloso. Ridicolo. Ma avrei volentieri continuato a recitare quella parte se avessi ottenuto da lei qualche informazione  in più.
Stavo per andarmene, quando sentii una mano gelida posarsi sul mio braccio. Non mi girai neanche. Sapevo fin troppo bene a chi apparteneva; dovetti mordermi l’interno della guancia per non scacciarla via. Le gettai uno sguardo obliquo; i suoi piccoli occhi castani mi guardarono languidi. Mi concentrai sulle sue iridi, come a voler trovare una qualche traccia che mi dicesse che mi ero sbagliato, che il mio era stato solamente un errore di valutazione. Ma sapevo bene che non era così. Perciò tornai a fissare il punto dove, pochi attimi prima, stanziavano Sam e i suoi amici. Non reggevo assolutamente più quella situazione. Quel fingere gratuito, quelle sue attenzioni non richieste, quel suo cercarmi sempre e dovunque. Eppure non avevo il coraggio di porre fine alla questione. Ed il motivo mi era chiaro: era colpa mia. Solo e soltanto colpa mia se i suoi piccoli occhi castani erano così vuoti, se le sue mani erano così fredde, se scappava alla sola vista dell’oro. E, mentre lei si strusciava sul mio fianco, cercai di relegare quel senso di oppressione che avevo imparato a conoscere troppo bene in fondo alla mente, lo imprigionai per evitare che tornasse a tormentarmi. Non ora che Kara mi stava conducendo nel solito sgabuzzino, non ora che sentivo la pressione delle sue labbra sul mio collo, non ora che dovevo continuare a giocare, non ora che dovevo farle credere che ero ancora lo stesso ragazzo che aveva adocchiato il primo giorno di scuola. Perciò non opposi alcuna resistenza e la seguii, ma non prima di gettare una fugace occhiata alla figura bassa e bionda in fondo al corridoio.
La vidi guardarmi fisso cercando di reprimere un espressione di disgusto. Dovevo dirglielo.
D’altronde era lei che mi aveva messo in quella situazione; il minimo che poteva fare era collaborare alla sua soluzione... Dovevo dirglielo. Lo sapevo, eppure mi tornarono in mente le sue urla notturne, le sue occhiaie, i suoi occhi spenti. E, in quel momento, presi la mia decisione.
***
 
-Esprimi un desiderio.-
C’erano candele posate sulla tavola e una luce di un oro intenso e morbido che accendeva di riflessi i calici e i piatti, e gettava ombre preziose su una natura morta di frutta e pane. Il rosso sensuale delle mele, il verde traslucido dell’uva, profumo d’arance; ombre fragranti sui panini dorati al chiarore di un candeliere di bronzo, dove tre candele andavano liquefacendosi in lunghe colate di cera; briciole brune di biscotti da raccogliere con la punta delle dita per portarle alle labbra, di nascosto. E poi, al centro della lunga tavolata dorata, faceva il suo trionfo una grande torta scura, ricoperta di finissime scaglie di cioccolato bianco. L’aroma della noce moscata avvolgeva il dolce, con il sentore di una squisita promessa.  La semi oscurità si allungava carezzevole oscurando il caldo marrone rossiccio del tavolo, la pietra del muro su uno sfondo, gusci di noci su mari di ombre e l’odore inimitabile delle castagne, ammucchiate in un angolo. C’erano cori di auguri, un’allegria fuori dal mondo che sembrava dimenticata per sempre, talmente rara che ognuno, a modo suo, cercava di acchiapparla con le mani, impedendole di sfuggire via e di portare con sé le risate e i sorrisi luminosi che si stagliavano sul volto di tutti. E poi, in piedi su una sedia, c’ero io. Un bimbo vispo, con degli adorabili ricci scuri ad incorniciare un paio di guanciotte rosse come le più mature delle mele; occhi grandi e scuri, specchi che riflettevano la luce dorata e vellutata delle candeline che, inesorabilmente, si stavano liquefacendo con il calore delle fiammelle. Piccole manine paffute tenute davanti al viso come a proteggere il loro piccolo segreto, il loro desiderio.
Sembrava un quadro, un dipinto di Monet, quelli che tanto bene sapeva dipingere Chris, piccole e oscure pennellate su una tela antica e sontuosa: i capelli rossi di zia Clary che catturavano i riflessi delle candele, incendiandosi; i volti accesi degli zii che cantavano a squarciagola, ignari di star stonando. Il volto concentrato di un bambino di tre anni che affida il suo desiderio al fumo delle candeline oramai quasi spente, che lentamente sale a spirale verso l’imponente soffitto a volta. Lo stesso soffitto a volta che aveva visto lo svolgersi del mio terzo compleanno, accogliendo il mio desiderio tra le sue imponenti braccia di pietra, rendendosi mio complice.
Se mi concentravo, potevo rievocare nella mente perfino il sapore della mia torta di compleanno: un’esplosione avvolgente di cioccolato fondente, con una piacevole punta amarognola, addolcita dalla freschezza sensuale delle ciliegie e dalla aromatica dolcezza della noce moscata. Le pagliuzze dorate delle fiammelle delle candele negli occhi d’ebano di mia madre. I ricci inondati da un’aura dorata di mio padre. Il sorriso smagliante di un Chris bambino in braccio ad un più giovane Jace. Piccoli ricordi dispersi nei meandri della mia mente, dimenticati. Ma che, come per magia, riaffioravano in questo universo buio e pesante, opprimente e pressante.
Ricordi di una felicità ormai del tutto passata, quasi impossibile da ricordare in un luogo che assorbiva nella sua oscurità tutto ciò di buono che la mia mente celava con cura, che cercava di proteggere.
Ma la sua risata gelida mi suggerii che era riuscito a guardare dentro il mio subconscio, estraendo un ricordo a me particolarmente caro. Ero sfinito, come se impadronendosi di un mio ricordo quell’essere mi strappasse tutte le energie, distruggendomi.
-Che bel bambino eri, Cacciatore. Tieniti stretto questo ricordo: non ti rimangono molti compleanni da vivere.-
Il buio.
 
***
 
-Max! Max, svegliati!
Sentii una mano scrollarmi bruscamente per la spalla. Socchiusi piano gli occhi, cercando di abituarmi alla penombra della cucina; vidi un paio di occhi dorati che mi fissavano carichi di preoccupazione. Herondale. La riconobbi subito, con quei suoi boccoli dorati che mi solleticavano il collo e la sua voce che sussurrava come una litania il mio nome.
Cercai di alzarmi, ma una fitta dolorosa mi attraversò il petto, facendomi tossire.
Lei si allontanò da me e guardò alle sue spalle, come se temesse che qualcuno potesse giungere all’improvviso.
Quando mi fui ripreso dal mio attacco di tosse, le chiesi: -Ma che ore sono?-
-Le due passate. Tutti stanno dormendo. Tutti tranne noi.-
Ora che lei aveva acceso una piccola luce all’angolo della poltrona, potei osservarla meglio: aveva i capelli tutti scompigliati, una disordinata criniera a fare da cornice al suo volto terreo. La spalla destra le tremava leggermente, facendo oscillare la leggera vestaglia che aveva indossato sopra il pigiama. Il suo colore violaceo si intonava perfettamente alla tonalità scura delle sue occhiaie, segno che non dormiva da un po’. Mi alzai, barcollando. Lei mi guardava, osservando tutte le mie azioni.
-Cosa hai sognato?-
-Scusa?-
-Quando sono entrata in cucina ti stavi agitando sulla poltrona e ti tenevi la gola, come se stessi per soffocare.-
I suoi occhi tradivano la fermezza della sua voce: era preoccupata e intimorita da quello che aveva visto, riuscivo a percepirlo. La luce della lampada gettava un’aura calda attorno a lei, illuminandola, rendendo il suo profilo più indefinito, come se fosse stata una illusione. Sembrava una creatura così fragile, così minuta, che rischiava di volare via al primo colpo di vento; eppure io sapevo che era soltanto un’impressione, nulla di più. Lei era più forte di quanto sembrasse.
Decisi di scherzare, alleggerendo la strana tensione che si era creata tra di noi.
-Stavo sognando il polpettone della mensa. O forse era il pasticcio, non ricordo.-
Vidi un sorriso incresparle le labbra mentre mi si avvicinava silenziosa. Le rune risaltavano sulla sua carnagione chiara, rendendola quasi pallida. Quando fu a pochi passi da me, con voce scherzosa ribatté: -E sei venuto qua per uno spuntino di mezzanotte?-
Ghignai, avvicinandomi di più a lei.
-Non penso di essere un grande cuoco. Il massimo che posso fare è scaldare il latte.-
-Non sarà necessario altro. Io cerco i biscotti.-
Un leggero sorriso mi increspò le labbra mentre prendevo il latte dal frigorifero e lo versavo nel pentolino. Accesi il fornello, beandomi del leggero calore delle fiammelle sulle mie dita gelide.
Sentii alle mie spalle Samantha che armeggiava tra i vari ripiani della credenza, alla ricerca dello spuntino. Mi voltai e la vidi in punta di piedi mentre cercava disperatamente di afferrare la scatola dei biscotti al cioccolato, dal suo considerevole metro e cinquanta di altezza. Mi diressi verso di lei a passi felpati, sorridendo nel buio. Quando le fui dietro, per poter prendere i dolcetti, feci aderire la sua schiena al mio petto. Un’improvvisa scarica elettrica scivolò lungo la mia spina dorsale, facendomi venire la pelle d’oca.  Lei era calda, quasi bollente, ed i suoi capelli emanavano un leggero profumo fruttato. Forse albicocca.
Senza alcuno sforzo allungai il braccio ed afferrai i tanto famigerati biscotti, facendo poi un passo indietro.
Lei, al contrario, rimase immobile come pietrificata, con il volto rivolto verso la credenza.
Una strana sensazione mi pervase le membra, diffondendosi in ogni parte del mio corpo: non riuscivo a spiegarmi il perché della mia reazione, così palesemente esagerata. Sebbene ci separassero trenta centimetri buoni, le nostre dita si sfioravano, delicate come il tocco delle ali di una farfalla. Piano, quasi trattenendo il respiro, accarezzai lievemente con i polpastrelli il suo palmo, seguendo la leggera linea delle sue mani, soffermandomi su una piccola cicatrice vicino all’indice. La sentivo tremare, quasi vibrare sotto il mio tocco. Lentamente, continuai a disegnare cerchi concentrici lungo il suo polso, seguendo il ritmo dei battiti del suo cuore.
Sembrava di essere in uno dei miei sogni, quando il mondo spariva ed i suoni diventavano tutt’a un tratto ovattati, quando perfino i colori mi sembravano meno sgargianti, irrilevanti. In quel momento riuscivo soltanto a sentire la pelle di Herondale, segnata da mille tagli e cicatrici, ma piacevolmente calda al tatto.
All’improvviso realizzai che la sua pelle era davvero troppo calda. E che quel rossore sulle guance non era poi così tanto normale. Preso da una sorta di intuizione, le misi una mano sulla fronte, ritraendola solo un attimo dopo.
-Tu hai la febbre. Scotti.-
La mia voce era stranamente roca e un po’ incerta. Le mie parole avevano interrotto quella strana tensione elettrica che fino a pochi secondi prima ci aveva uniti e teletrasportati come in un altro mondo, disperso nella più lontana delle galassie.
Lei si girò verso di me. Non mi guardò, ma tenne gli occhi ostinatamente bassi, impegnata ad osservare il pavimento bianco e nero.
Preso come da una sorta di frenesia poggiai il pacco di biscotti sul bancone perfettamente lucidato e mi diressi verso una delle tante cassettiere di metallo disposte a destra dei fornelli. Presi una ciotola da uno dei cassetti della cucina e la posizionai nel lavabo, aprendo il getto d’acqua gelida. Successivamente agguantai da un ripiano a destra un tovagliolo di stoffa, ricamato con dei motivi floreali; infine aprii il freezer e presi qualche cubetto di ghiaccio.
Samantha aveva seguito le mie mosse con studiata indifferenza, ma la vedevo insicura, pronta a indietreggiare.
Dopo aver finito la raggiunsi e la invitai a sedersi su uno degli sgabelli della cucina; le scostai sbrigativo delle ciocche bionde dalla fronte e la sfiorai con i polpastrelli delle dita: non ero di certo un medico, ma intuivo che la febbre stava salendo. E in fretta.
Bagnai il tovagliolo nella bacinella del ghiaccio e lo posizionai sulla sua fronte bollente. La guardai. I suoi occhi dorati non avevano smesso neanche per un istante di fissare i miei, scrutandomi perplessi.
Finsi di ignorare la strana scossa elettrica che aveva attraversato la mia colonna vertebrale e mi concentrai sulla piacevole freschezza del tovagliolo bagnato che, con il passare dei minuti, stava pian piano riscaldandosi. Tornai a immergerlo nell’acqua gelata gettando di tanto in tanto qualche occhiata al pentolino che avevo lasciato sul fuoco: l’ultima cosa che volevo era bruciare il latte, dando il via al peggiore spuntino di mezzanotte della storia dell’Istituto.
Dopo qualche minuto decisi che ne avevo abbastanza di aspettare e mi alzai, porgendo il fazzoletto bagnato a Herondale; spensi il fornello e versai il latte bollente in due tazze. Cercai di non far cadere neanche una goccia di quel liquido mentre le posizionavo sul bancone, con due cucchiai e un grande pacco di biscotti ancora quasi del tutto integro.
Infine andai ad aprire un piccolo scompartimento nascosto tra due cassetti più grandi, cercando la pillola per abbassare la febbre. Dopo svariati tentativi, finalmente la trovai in fondo alla credenza, sommersa da un’infinita quantità di bende, garze e creme per lo stiramento muscolare.
Mi sedetti su uno sgabello della cucina, di fronte a Herondale. Le porsi con gentilezza la pillola, invitandola con lo sguardo a prenderla. Lei esitò soltanto pochi istanti e poi la tolse dalle mie mani per buttarla nella tazza del latte bollente. Questo gesto diede inizio al nostro spuntino di mezzanotte.
Presi un biscotto al cioccolato, ed ignorando la sua odiosa forma di cuore,  lo inzuppai nel mio tazzone. Guardai il dolcetto galleggiare nell’oceano di latte bollente e lottare contro le onde immaginarie che lo trascinavano giù, per poi imbarcare “acqua” e scomparire tra i flutti. Con un gesto fulmineo agguantai il cucchiaio e salvai il mio biscotto, integro e perfettamente inzuppato; lo portai alle labbra e lo addentai, assaporando lentamente il suo gusto piacevole, di cacao e mandorle tostate.
Alzai lo sguardo e notai che Herondale aveva già mangiato quattro di quei deliziosi manicaretti e stava masticando con gusto il quinto biscotto, con un’espressione celestiale dipinta sul viso, come se si stesse trovando in un paradiso che, ero pronto a scommetterci, era fatto interamente di cioccolato e mandorle.
Continuammo a mangiare di gusto fino a quando ci accorgemmo che soltanto in due eravamo riusciti a dimezzare drasticamente il contenuto del pacco di biscotti. A quel punto entrambi bevemmo ciò che rimaneva del nostro latte e posammo le tazze nel lavabo, lavandole con cura, cancellando le tracce della nostra merenda.
Non avevamo parlato molto durante il biscotti-time, così, quando ci ritrovammo da soli nella cucina, uno accanto all’altra, con le labbra sporche di cioccolato, la situazione era piuttosto comica. L’idea di dover tornare nella mia stanza mi irritava profondamente perché sapevo che, se mi fossi riaddormentato, sarei dovuto tornare nel mondo buio, ed ero certo che non ce l’avrei fatta ad affrontare di nuovo quel mostro.
Così mi tornai a sedere sulla poltrona, sperando di non cadere addormentato per la seconda volta.
Samantha mi fissò con un’occhiata interrogativa al che scossi la testa, indicando la comoda poltrona rossa.
-Neanche io voglio tornare nella mia camera, stanotte- disse lei.
Così, con piccoli passi timidi, mi si affiancò e si sedette sull’angolino che le avevo lasciato libero sulla poltrona, lanciandomi uno strano sguardo, come se avesse paura che io la scacciassi.
Invece le rivolsi un ghigno e le sussurrai con voce profonda: -Di’ la verità Herondale: tu hai sempre sognato di sederti sopra di me. Questa è la realizzazione di tutti i tuoi sogni erotici…-
-Qualcuno ti ha mai detto che sei un po’ troppo sicuro di te, mio sogno erotico con le briciole di biscotti sulla bocca?-
-Vuoi togliere tu le briciole dalla mia bocca, Herondale?-
 Lei rise sulla mia spalla, acciambellandosi su di me. Era calda e la febbre non era ancora scesa, eppure la sensazione della sua pelle sulla mia era piacevole, come il sorso di una cioccolata calda in pieno inverno, con una tempesta di neve che infuria dietro i vetri di una finestra.
Mi sistemai meglio sulla grande poltrona, per permettere a Herondale di mettersi comoda. Lei intrecciò le sue gambe con le mie, appoggiando la sua testa sul mio petto, stringendosi a me per non cadere. Per stabilizzare entrambi le avvolsi le braccia intorno alla vita, attirandola di più a me. Reclinai il capo, poggiandolo sullo schienale della poltrona rossa.
Era una cosa davvero strana ritrovarmi lì, in cucina, con Herondale mezza addormentata sulle ginocchia: di solito passavamo il tempo a scannarci a vicenda, litigando un minuto sì e l’altro pure. Ma il suo profumo fruttato era piacevole, dopotutto. E il calore della sua pelle febbricitante colmava il gelo che sentivo nelle ossa. Così mi abbandonai su di lei, inspirando a pieni polmoni il suo odore.
Pregai Raziel di concedermi un sonno senza sogni.
Stremato dalla fatica, socchiusi gli occhi. Il ricordo che l’essere aveva estratto dalla mia mente mi inquietava: ormai mancava poco al mio compleanno. Poche settimane e avrei compiuto sedici anni. Da quel che diceva il demone, sarebbe stato il mio ultimo compleanno.
L’ultima cosa che vidi prima di addormentarmi furono una massa indistinta di boccoli dorati. Poi caddi nelle braccia di Morfeo. 
 
 
POV JACE
 
Osservai di sottecchi la figura di Magnus che mi voltava le spalle e si dirigeva verso la porta, l’andatura da cui traspariva tutto il suo disappunto nei miei confronti. Si era appena conclusa l’ennesima discussione da quando, due giorni prima, era tornato in fretta e furia dalla sua vacanza con Alec. Aveva aperto un Portale e si era precipitato a New York, con un’urgenza che mi era parsa esagerata…
Non ero più un bambino, eppure lo stregone continuava a trattarmi come tale. Stentava saggezza solo perché aveva più di ottocento anni, mentre io ne avevo quarantacinque.
Chiuse la porta dietro di sé.
Tirai un pugno sul piano della scrivania e mi sedetti, tentando di calmarmi. Si trattava dei miei figli, di mia figlia. Nessuno doveva permettersi di dirmi cosa fosse meglio per lei. E poi, se avessi acconsentito a fare come diceva Magnus, con quella cocciutaggine che si ritrovava, Samantha mi avrebbe come minimo lanciato un’occhiataccia che mi avrebbe fatto ritorcere le budella, perché quello sguardo sarebbe stato indice del fatto che lei non era felice… E questa era l’ultima cosa che volevo. Era già abbastanza stare per ore, certe notti, a fissare il soffitto, nel buio della mia stanza, con il respiro profondo di Clary che scandiva il passare del tempo, a sentirmi sporco, bugiardo, traditore verso mia figlia, la cosa che amo di più al mondo. Lei e Chris.
Da bambino mi era stato portato via tutto l’amore di cui avevo bisogno, da un finto padre che mi aveva cresciuto insegnandomi che amare significa distruggere. E potevo vederlo ancora, in certi momenti in cui ero particolarmente stanco o arrabbiato. Potevo ancora scorgere gli occhi di Valentine Morgenstern, neri come il carbone, e il collo del falchetto che veniva spezzato dalle sue mani grandi e bianche. E gli avevo voluto bene, dannazione, ma poi lui era morto e io l’avevo odiato per questo. Così avevo smesso di amare, ma poi avevo conosciuto l’amicizia: Isabelle e Alec erano stati come fratelli, per me. E un giorno, all’improvviso, era arrivata lei. Clary. Capelli di fuoco e occhi di foresta, estremamente piccola ma coraggiosa. E avevo capito che l’amore esisteva davvero, che il suo potere poteva battere tutto, superare il buio della morte e degli inferi, sopravvivendo anche al ritorno di quel padre e alla sua morte, vera questa volta. Avevo creduto che la mia vita fosse dunque completa, che nulla potesse rendermi più felice della mia Clarissa. Ma, in seguito, avevo dovuto ricredermi: al comparire di quel punto dentro Clary, la luce sotto cui guardavo il mondo era totalmente cambiata. E più il puntino cresceva e si trasformava in qualcosa di reale –non solo un rigonfiamento nella pancia di mia moglie– più sentivo di essere adulto e completo. Quando finalmente avevo stretto Chris tra le braccia, la paura di sbagliare era svanita: importava solo che lui fosse lì, così piccolo, così delicato, con gli occhi chiusi e la faccia tutta rossa, una manina stretta intorno al mio dito. E man mano che era cresciuto, mostrando sin da subito un carattere mite e solare, io mi ero sentito sempre più orgoglioso e innamorato di mio figlio. A illuminarmi la vita c’erano sempre i suoi riccioli biondi, gli occhioni verdi e il sorriso tutto gengive. E, dopo poco più di un anno, era arrivata anche Samantha: l’amore incondizionato provato alla sua nascita era stato uguale a quello provato per Chris. Solo che lei era una femmina, e con le femmine è sempre tutto più complicato: Chris ormai lo conoscevo, sapevo il suo modo di fare a memoria, il suo carattere aperto era ormai una solida roccia che non cambiava mai… Samantha era tutt’ora impossibile da comprendere, ogni tanto era frustrata e arrabbiata e cocciuta; cinque minuti dopo poteva essere adorabile e dolcissima. Ma li amavo tutti e due, indifferentemente, come solo un padre può fare. E, più di ogni altra cosa, volevo vederli felici.
Ed ecco perché non sopportavo di dover nascondere loro quella probabile, sconvolgente verità che avrebbe potuto metterli in serio pericolo. Magnus continuava a dirmi che dovevo parlarne con i ragazzi. Ora aveva addirittura sottolineato l’urgenza del problema, sostenendo che andassero prese immediatamente delle precauzioni, affrontando il problema faccia a faccia.
Ma era troppo pericoloso. Sapevo che lo era. Avevo fiducia nei miei figli; ero certo che, se avessero saputo tutto, non si sarebbero tirati indietro… Ma era proprio questo che mi faceva paura. Con Samantha, inoltre, sarebbe stato un grosso problema: le avevamo spiegato sin da piccola la faccenda del sangue, ma se le avessimo rivelato le novità che erano saltate fuori, avrebbe agito in modo troppo impulsivo; al contrario, se le avessimo taciuto tutto, semplicemente mandandola a fare ciò che Magnus aveva proposto, ci avrebbe odiati… Mi avrebbe odiato. No, decisamente, la soluzione migliore era ignorare le parole dello stregone, affidandosi alla possibilità che la sua urgenza e la sua preoccupazione fossero esagerate.
Il fluire dei miei pensieri fu interrotto quando la pesante porta della biblioteca si socchiuse, e ne entrò Clary. Un calore accogliente mi pervase il petto: niente da fare, gli anni passavano ma l’effetto che mi faceva ogni volta che la vedevo era sempre lo stesso. La trovavo perfino più bella, adesso, con qualche ruga intorno agli occhi e delle striature argentate tra i capelli rossi, gli occhi verdi carichi di una maturità e di un’esperienza che la rendevano più accattivante di quando eravamo giovani, di quando i suoi occhi erano ancora pieni di insicurezza e innocenza.
Si avvicinò in silenzio alla scrivania, aggirandola e restando in piedi accanto a me. Le avvolsi un braccio intorno alla vita e la attirai, affondando il viso nel suo ventre e inspirando il suo odore, che sapeva di buono, di casa, di sicurezza e famiglia. Così piccola, eppure la mia roccia. Sentii le sue mani affondarmi tra i capelli e tirarmeli all’indietro.
-Ho visto Magnus che usciva da qui… Non mi sembrava tanto contento, però.-
Mi staccai immediatamente e alzai lo sguardo sul suo viso. Quasi involontariamente, contrassi la mascella. -No- risposi. -Infatti.-
Lei mi fissò, le sopracciglia inarcate. -Hai intenzione di spiegarmi che è successo?-
-Nulla di importante- la liquidai. Poi mi voltai e feci finta di controllare delle carte sulla scrivania. Sapevo che, se mi avesse guardato in faccia, si sarebbe accorta che mentivo: mi conosceva troppo bene, ormai.
-Jace.-
Le bastò questo per richiamare i miei occhi: aveva dipinta sul viso un’espressione seria, che non ammetteva repliche. Ed io ero come un bambino indifeso, di fronte a lei. -Si tratta di ciò di cui abbiamo parlato durante l’ultima riunione del Consiglio di New York. Magnus...- esitai un istante. -Lui ritiene che sia necessario prendere provvedimenti drastici. Immediatamente.-
-Con “provvedimenti drastici” vuoi dire la terapia d’urto proposta da Silverhawk?-
Sospirai nel sentire il riferimento alla seduta del consiglio di New York che si era tenuta il giorno prima, dietro richiesta di Magnus. -Esattamente. Non ti sembra un’assurdità?- dissi in tono sprezzante, aspettandomi la sua conferma.
Che non arrivò.
-Clary?- la richiamai.
-Be’- cominciò lei, a fatica. -Condivido le tue preoccupazioni, amore mio, ma… ecco… e se avessero ragione? Se fosse necessario? Potrebbe essere l’unico modo che abbiamo per risolvere la questione in modo positivo.- Si attorcigliò un lembo del maglione intorno ad un dito, mordicchiandosi il labbro inferiore. -So bene quanto sarebbe pericoloso, ma pensa a cosa potrebbe accadere se…-
-Si tratta dei nostri figli, Clary- la interruppi, esasperato. -I nostri bambini… Tu non credi che la mia preoccupazione sia reale? Metti che qualcosa vada storto: io non…- Mi tirai indietro i capelli, nervosamente. -Non me lo perdonerei mai, ecco…-
 Fui improvvisamente interrotto dallo spalancarsi della porta. Isabelle fece il suo ingresso, gli occhi luccicanti di preoccupazione, qualche capello fuori posto e il fiatone tipico di chi ha appena corso. Piantò su di me il suo sguardo. -Jace.- Riuscii a percepire l’agitazione nella sua voce. -Io… Non so come dirlo… È arrivato un messaggio dai rilevatori alla succursale dell’Accademia…-
Scattai in piedi, la mano di Clary salda sul mio braccio.
-Li hanno trovati, Jace… La scuola mondana… trabocca di presenza demoniaca.-
 
 
 
 
 
POV CHRIS
 
-Ti arrendi?- La mia voce echeggiò per tutta la palestra, rimbalzando sugli alti soffitti a volta e sulle armi di adamas che tappezzavano i massicci muri di pietra.
Il petto del mio avversario si alzava e si abbassava velocemente contro le protezioni di cuoio per la scherma, riuscivo a sentire il suo respiro affannoso infrangersi sulla maglia metallica della sua visiera abbassata. sollevò un pollice della mano guantata per dichiarare la resa, lasciando cadere il fioretto sul pavimento con un tonfo metallico.
Mi raddrizzai sentendo il sudore colare lungo la schiena. Abbassai lentamente il mio fioretto, dalla gola dell’avversario fino a portarlo parallelo alla mia gamba. Mi sfilai la visiera e sorrisi, alcuni riccioli incollati alla fronte.
-Allora- feci in tono canzonatorio -cosa dicevi a proposito dello schiacciarmi come una pulce?-
L’altro sbuffò irritato. Con un gesto fluido, degno di un ballerino, si tolse il casco con la visiera. Una cascata di ricci castani sfolgorò sotto i raggi solari che entravano dalle ampie finestre.
Anche la sua pelle bruna era luminosa.
Eliza storse in modo adorabile il naso. Raddrizzò la schiena e si impettì, così che il suo fisico, fasciato dalla divisa, potesse essere ben intuibile. Eliza era alta per essere una ragazza, anche per una ragazza un anno più grande di me (mi arrivava oltre il mento), ma il suo corpo slanciato era comunque decisamente femminile: asciutto al punto giusto, aggraziato e dalle forme sinuose e piene. All’improvviso mi resi conto di stare indugiando troppo con lo sguardo sulla sua figura, e spostai rapidamente gli occhi sul suo viso, arrossendo.
Eliza aveva ancora un’espressione contrita. -Avrai anche vinto quest’ultimo combattimento- disse, in tono tagliente. -Ma la prossima volta ti farò piangere.- Poi il suo viso si addolcì e le sue labbra scure e carnose si piegarono in un sorriso. -Sappi comunque che me la lego al dito, questa sconfitta.- Per sottolineare il concetto, mi agitò un indice sotto al naso.
Scoppiai a ridere. -Ti prendo in parola- ribattei, divertito.
Si avvicinò piano, scuotendo la testa. -Sei il solito… Io cerco di parlare seriamente e tu mi fai deconcentrare.-
Ormai era pericolosamente vicina, e riuscivo a percepire il calore del suo corpo. I nostri occhi si incatenarono. Riuscii a scorgere appena in tempo un lampo nelle sue pupille, poi i miei riflessi scattarono. Spinsi indietro il braccio del fioretto proprio mentre Eliza si allungava per sottrarmelo; con la mano libera, le afferrai il polso. -Non oggi- soffiai sul suo viso, facendo ondeggiare con fiato una ciocca ribelle che le ricadeva sulla fronte. -Oggi vinco io.-
Mi lanciò un’occhiataccia. -Va bene,- si arrese -oggi ti lascio vincere.-
E mentre lo diceva, sentivo quanto quella sconfitta le pesasse: non mancavano i combattimenti, durante gli allenamenti, in cui vinceva lei. Soprattutto nella scherma, poi, che era il tipo di lotta in cui eccelleva: era capace muoversi silenziosa come un’ombra, veloce come la luce, leggera e aggraziata come una brezza; si muoveva seguendo i passi di una danza fatale, costringendo l’avversario in uno spazio sempre più piccolo, lasciandolo sempre più confuso e annientando le sue difese; tenere alte le difese, con lei, era impossibile, perché riusciva a trovare sempre un punto debole, penetrandolo e finendoti. -C’è sempre una falla nel sistema: si può essere cauti quanto si vuole, veloci a difendersi come una gazzella, ma qualcuno troverà comunque la strada per colpire. L’importante è conoscere questo punto debole, e saperlo sfruttare a proprio vantaggio.- Queste erano le prime parole che Eliza mi aveva rivolto, dopo avermi battuto lo stesso giorno in cui avevo cominciato a frequentare quel distaccamento dell’Accademia di Idris, quando ero un novellino e lei mi aveva preso sotto la sua ala protettiva, aiutandomi ad integrarmi nella scuola.
E adesso era lì, in piedi di fronte a me, l’amicizia costruita tra di noi che ci legava come un nastro invisibile.
Abbassò gli occhi e sorrise, indietreggiando. -Puzzi come una scimmia- disse. -È meglio che tu ti dia una ripulita, prima di scendere a mangiare in sala comune. Altrimenti Silverhawk ti farà fare il bagno nella baia, dopo averti negato il pranzo.-
Le avvolsi un braccio intorno alle spalle, tanto per infastidirla e vederla portarsi una mano a tappare il naso, una smorfia disgustata sul suo viso. -Intendi il bonario Preside di questo posto?- Ridacchiai. -Certo, come no. È più probabile che mi dia una doppia razione di maccheroni al formaggio, vedendomi conciato così… Vedrai che ammirerà il fatto che abbia sudato lavorando duro.- Le punzecchiai l’incavo del collo con un dito. -Tu, piuttosto, non sudi mai?-
Mise il naso all’insù con aria di superiorità, abbassando le palpebre. Emise un verso sdegnato: -Feh! Le ragazze non sudano.- E con questo si diresse verso l’uscita della palestra, il petto gonfio di orgoglio femminile, ancheggiando. Non potei fare a meno di pensare a quanto fosse piacevole guardarla camminare, e lo sapevo, io lo sapevo che camminava a quel modo proprio per farmi sentire in imbarazzo. Era stata praticamente la prima ragazza con cui avevo avuto a che fare da vicino, non contando mia sorella. Si muoveva sinuosa, e il mio sguardo viaggiò piano, partendo dal collo lungo e scivolando lungo la schiena, sempre più giù…
Eliza si girò di scatto e io mi ripresi. -Allora?- fece. La guardai spaesato, strabuzzando gli occhi. -Vieni o no? Penso che potrai sederti a tavola anche in quelle condizioni pietose, basta che non ti siedi vicino a me.-
Scossi la testa per dissipare la confusione che mi aveva assalito. -Certo, certo- borbottai. -Arrivo subito.-
Raggiunsi Eliza in qualche ampia falcata, e insieme ci incamminammo lungo lo spoglio corridoio di pietra, i nostri passi che riecheggiavano sul pavimento liscio.
-La prossima volta che ti viene la tentazione di sbirciarmi il fondoschiena,- disse Eliza all’improvviso -assicurati che io non me ne accorga. Mi mette soggezione.-
Fu come ricevere una bastonata in testa, sentii un fulmineo calore avvamparmi le guance, e immaginai di essere arrossito come un deficiente fino alla punta dei capelli. L’imbarazzo che provavo stava più che altro nella schiettezza, nella semplicità del tono con cui aveva pronunciato quelle parole, come se fossero state un banale appunto. Masticai un’imprecazione. -Ma come fai a…-
Lei alzò le spalle e mi interruppe: -Ho i miei metodi. O forse sei tu a essere un libro aperto… Anzi, sicuramente sei tu: ogni cosa che provi o pensi ti si legge in faccia. Prendi ora, per esempio: con quel sopracciglio sottile alzato e la bocca semiaperta si capisce benissimo che sei in modalità “maschio-stupito-e-diffidente”… È matematico, capisci?-
Rimasi interdetto, e in silenzio.
Quindi Eliza mi tirò un pizzicotto sulla guancia. -Vedi che non riesci neanche a negare di avermi quasi guardato il didietro? Molte persone, al posto tuo, si sarebbero messe sulla difensiva. Ma tu no, sei limpido, sei sincero.- Smise di camminare tutto ad un tratto, abbassando lentamente la mano dal mio viso. Il suo sorriso si smorzò, e anche il suo tono: -È questo che mi piace di te.-
Alzò gli occhi, che si incatenarono con i miei: una strana luce si era impossessata delle sue iridi, rendendole scure come gli oceani più misteriosi e impenetrabili, proprio come le sue emozioni in quel momento. Mi sarebbe piaciuto sapere cosa stesse pensando, ma i suoi sentimenti sembravano schermati da una barriera indistruttibile. Ciò che Eliza esternava erano solo parole. Quello che aveva appena detto, poi, era innegabilmente compromettente. È questo che mi piace di te… come dovevo interpretare quella frase? Era una pura constatazione? Una dichiarazione? Quel mi piace significava unicamente che con me si trovava bene o sottintendeva qualcosa di più profondo e personale? E se così fosse stato, come avrei dovuto reagire? Avrei dovuto rispondere “anche tu mi piaci”? E se fosse saltato fuori che avevo frainteso? Inoltre, cosa più importante, ero sicuro che lei mi piacesse? Senza dubbio non mi era indifferente, ma lei era quasi una sorella per me, e avevo il serio timore di rovinare tutto il nostro rapporto, la nostra amicizia, se le cose fra di noi non fossero andate bene… Sempre che cambiasse realmente qualcosa, la possibilità che io rispondessi che mi piaceva.
Eliza chiuse gli occhi e si riscosse, ponendo fine al silenzio imbarazzato che si era venuto a creare fra di noi. Riprese a camminare, cominciando a scendere una rampa di scale. -Sbrigati, Chris. Sto morendo di fame.-
Fui colpito dal tono del tutto normale con cui aveva ripreso a parlare, come se nulla di singolare fosse appena successo. Stupido, stupido, stupido pensai. Mi ero arrovellato con un sacco di domande inutili, tirando in ballo possibilità che Eliza probabilmente non aveva neanche preso in considerazione, o che comunque avrebbe difficilmente esternato.
-Ti muovi? Oggi non fai altro che rimanere indietro!-
-Certo. Arrivo.- Mi ripresi e la raggiunsi.
Ricominciammo a chiacchierare nel modo più naturale possibile, la tensione tra di noi ormai completamente sciolta come neve al sole.
 
 *****
 
La luce di mezzogiorno inoltrato inondava l’ampia stanza. Eravamo tutti seduti intorno al lungo tavolo della sala da pranzo. Sulla tovaglia candida, apparecchiata con un servizio di stoviglie semplice e austero, facevano bella mostra le pietanze del giorno: tacchini arrosto succulenti dal profumo invitante, il grasso che colava nei piatti da portata, ammorbidendo le patate al forno dorate; grandi zuppiere colme di brodo fumante, pezzi di cipolla che galleggiavano sulla superficie; coppe colme di verdure e frutta fresca, per un’esplosione di colori tra l’arancio acceso delle carote e il rosso lucido delle mele; golosi budini al cioccolato coperti di zucchero a velo. Le voci dei ragazzi si confondevano, rimbombando sui muri e sulle alte volte di pietra, da cui pendevano giganteschi lampadari. Il chiasso era infernale, ma l’atmosfera dell’Accademia mi piaceva, mi faceva sempre sentire di casa. Ed era naturale: insieme all’Istituto, la succursale era il posto dove passavo la maggior parte delle mie giornate, tra lezioni di scherma, lotta libera, arti marziali, pugilato e in generale tutte le discipline di combattimento utili ad uno Shadowhunter. Non tutte le materie erano di questo tipo, però: rune, demonologia e Storia dei Nephilim sono solo alcune delle materie teoriche che comunque dovevo studiare, accompagnate da qualche disciplina mondana essenziale, cioè inglese, matematica e latino, utile più che altro per permetterci di comprendere le formule e i codici di legge diffusi nella cultura dei Cacciatori di ombre. Era tutt’altro che una passeggiata, insomma, nonostante Samantha non mancasse mai di sottolineare come la prospettiva dell’Accademia fosse per lei molto più allettante della scuola mondana… Cavolate, secondo me: era troppo legata ai suoi amici mondani, che io avevo visto solo poche volte.
Cercai lo stesso di immaginarmela seduta a quel tavolo con noialtri: forse in quel momento sarebbe stata a ripassare con quel gruppetto, posizionato sulle panche in fondo, che aveva il compito di rune all’ora successiva; forse sarebbe stata accanto a me, a rubarmi il budino al cioccolato dal piatto. Questo non avrei saputo dirlo con certezza, ma ero sicuro che la sua presenza non mi sarebbe dispiaciuta: magari l’avrei guidata, le avrei insegnato ciò che avevo imparato prima di lei, le sarei stato più vicino, da bravo fratello maggiore.
Ma, almeno per il momento, ciò non era possibile. Per motivi di sicurezza, come ci avevano spiegato sin da piccoli, Samantha era costretta a frequentare una scuola diversa dalla mia, una scuola mondana. Saremmo rimasti a studiare in luoghi separati, punto. Sapevo che era per il bene di mia sorella, e questo era ciò che contava.
Solo che l’ingresso in Accademia era stato precluso anche a Max. Avrebbe dovuto cominciare a frequentare i corsi quell’anno, passando dall’istruzione dell’Istituto a quella della succursale. Poi gli “adulti”, poco prima dell’inizio dell’anno scolastico, avevano convocato me e Max nella biblioteca e ci avevano comunicato che non se ne sarebbe fatto più niente: avrebbero spedito Max a scuola con Samantha, fine del discorso. A lei avevano deciso di non dire niente per impedire che cominciasse a protestare, rendendo le cose più complicate. Sam l’aveva scoperto direttamente a scuola: non era stata troppo contenta, come si era immaginato, e l’unica spiegazione che papà aveva addotto era che Max serviva per tenerla a freno dal fare cose stupide. Certo, era innegabile che mia sorella, sotto pressione, potesse agire in modo imprudente, l’impulsività era sempre stato un tratto distintivo del suo carattere… Ma io sapevo che sotto ci doveva essere qualcosa di più, qualcosa che ci tenevano nascosto. Me lo sentivo. Ma non potevo fare più di tanto. Inoltre, ero convinto che, se gli adulti avevano deciso di affiancare Max a Sam, ci doveva essere un motivo ben valido. Dopotutto ci amavano, e sapevo che qualsiasi cosa facessero era per il nostro bene.
Eliza si sedette sulla panca accanto a me, distogliendomi dai miei pensieri.
La guardai mentre si metteva un grossa fetta di tacchino nel piatto.
-Non dovevi sederti lontano da me per via della mia puzza?-
Lei fece un’alzata di spalle e cominciò a tagliare la carne, non guardandomi. -Diciamo che ho deciso di sopportarlo… E poi scelgo io dove sedermi.-
Alzai gli occhi al cielo, divertito, mentre tagliavo una fetta da una forma dorata di pane, il coltello che affondava nella crosta croccante con un bel suono e le briciole che saltavano in aria.
-Perché sorridi in quel modo?- mi chiese Eliza.
Ghignai nella maniera tipica di chi è a conoscenza di un segreto succulento, tanto perché era questo il nostro modo di scherzare, era questo il nostro codice dell’amicizia.
-Chris?- mi richiamò.
Stavo per risponderle con una battuta, quando Silverhawk fece il suo ingresso nella sala da pranzo.
Il Preside della succursale era sulla quarantina – un’età notevole per uno Shadowhunter attivo come lui – ma i suoi capelli e la sua barba erano già tutti sale e pepe. Aveva gli occhi scuri e infossati, e una cicatrice procurata durante un combattimento contro un demone particolarmente feroce gli sfregiava la parte sinistra del volto, da appena sotto l’occhio fino al labbro superiore. Amava raccontare storie riguardanti lui e le sue battute di caccia ai mostri, e cominciava sempre con la frase -Ho quasi per un occhio, per quel bastardo di demone- indicandosi la faccia.
In quel momento indossava la tenuta di combattimento tipica degli Shadowhunters, il duro cuoio nero che aderiva sul suo corpo tozzo e palestrato, le braccia muscolose simili a grossi tronchi scoperte, costellate di cicatrici argentate, ricordo di antiche rune.
Mi fece un cenno, esortandomi ad uscire in corridoio.
Ubbidii al suo ordine, varcando la soglia dopo di lui.
Silverhawk aveva una faccia seria, la cicatrice sul viso contratta. Fu molto breve nelle spiegazioni, la sua voce roca mi impartì una serie di secchi ordini e non mi lasciò il tempo di proferir parola: -Vai in armeria e rifornisciti, Herondale. Una squadra di Nephilim adulti, incluso me, è già pronta a partire, ma è meglio se vieni anche tu: la cosa ti riguarda in prima persona; all’Istituto sono già stati avvisati… È per tua sorella e il tuo amico, avranno bisogno di rinforzi in tempi brevi: i nostri rilevatori stanno comunicando una forte attività demoniaca nella loro scuola.- 






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Siamo tornate dalla tomba. In super-straritardo, dopo un silenzio di mesi. Non possiamo dire altro se non che ci dispiace per avervi fatti attendere tanto, e che ringraziamo comunque tutti coloro che ci hanno tenute fra i preferiti e che ci hanno recensite... Grazie mille perché, senza di voi, non saremmo rimaste in classifica pur non avendo aggiornato. Perché bisogna essere regolari nell'aggiornare, per avere più visibilità. Noi non lo siamo state, ma voi siete talmente fantastici che avete continuato a volerci bene. Non ci sono parole per esprimervi il nostro affetto. Vi amiamo con tutto il cuore, meravigliosi lettori. Anche chi ci ha dato una recensione neutra per il fatto che abbiamo tardato: ci ha aiutate a capire che dovevamo aggiornare. Grazie. Speriamo che questo capitolo ti abbia soddisfatta. <3
E speriamo che questo capitolo abbia soddisfatto tutti voi. E' stato un capitolo fondamentale e difficile da scrivere, perché abbiamo dovuto legare i punti di vista dei personaggi che continueranno a narrarci la vicenda dal prossimo capitolo in poi. E, se il POV di Sam vi è mancato, non temete, perché dal prossimo capitolo la sua sarcastica voce tornerà a bomba, in una situazione esplosiva. Non potremmo mai abbandonare Sam, lei è stata la nostra prima creatura in tutta la storia. E' stata quella che ha vincolato le vostre C ed S, compagne di scuola dalla prima elementare e amiche da qualche anno, che le ha spinte a scrivere una storia sui figli della grande Cassandra Clare. 

Aspettando le vostre recensioni e sperando di pubblicare a breve il capitolo 12, baci
C&S

 
   
 
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