Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: TheSlavicShadow    05/12/2015    1 recensioni
Quando la tua vita ti sembra perfetta e credi che nulla possa andare storto, sai che il destino ci metterà lo zampino.
In tre giorni la tua vita verrà messa sottosopra e dovrai prendere una decisione. Una di quelle da cui non si può più tornare indietro.
{Prompt trovato su "All of the prompts" e ho dovuto scriverlo. Sto fisicamente male per ciò che è stato scritto, ma in qualche modo ho dovuto farlo.}
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Jean Kirshtein, Marco Bodt
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Three Days'
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...per la stesura di questo capitolo sono state ascoltate in loop:
"Lost in Paradise" - Evanescence
"Take me to church" - Hozier
"Invaded" - Tokio Hotel
"Almost Lover" - A Fine Frenzy
"Outlaws of Love" - Adam Lambert
"A different kind of pain" - Cold
"In my veins" - Andrew Bells
"Shattered" - Trading Yesterday
"Incomplete" - Backstreet Boys

 

 

 

Marzo 2015, venerdì

 

Si era svegliato presto come tutte le mattine, nonostante avesse potuto rimanersene a letto per almeno un altro paio d'ore. Era rimasto sdraiato a letto per qualche minuto, fissando il soffitto, per poi alzarsi con un sospiro e passarsi la mano tra i capelli. Aveva mal di testa e aveva dormito pochissimo.

Quella era stata decisamente la peggiore serata della sua vita, da diverso tempo a questa parte. Già non aveva avuto molta voglia di uscire. La famosa ciliegina sulla torta ovviamente non si era fatta aspettare. E lui aveva saggiamente deciso di affogare i fantasmi del passato nella birra.

Si era trascinato in cucina per prepararsi del caffè e controllare il cellulare che aveva abbandonato sul tavolo la sera prima.

Un messaggio di Annie che non aveva letto oppure di cui non ricordava il contenuto, in cui lo informava che prima o poi lo avrebbe trascinato alle terme. Velocemente le aveva risposto che ci avrebbe trascinato solo il suo cadavere e le augurava di divertirsi, ricordandole l'arrivo di madre, suocera e cognate, ben sapendo che questo gli avrebbe fatto guadagnare qualche insulto, ma tanto poteva sopportarlo.

Un messaggio di Armin che gli chiedeva se era vivo e come stesse. Armin notava sempre tutto. E di certo non gli era sfuggito il modo in cui aveva cercato di ignorare lo sconosciuto non tanto sconosciuto la sera prima. Lo avrebbe chiamato più tardi, per spiegargli almeno a grandi linee le cose che gli stavano passando per la mente.

E poi Connie. Connie che ha sempre brillanti idee, ma a cui questa volta non poteva dire nulla, perché non era colpa sua. Connie che gli chiedeva scusa, anche se non sapeva assolutamente per cosa si stesse scusando. A meno che Jean non gli avesse raccontato qualcosa, ma ne dubitava.

Jean.

Il pensiero che aveva cercato di tenere chiuso da qualche parte per tutti quegli anni. La persona con cui non aveva più contatti da almeno un decennio.

Il ragazzo che gli aveva spezzato il cuore.

Aveva scosso la testa, cercando di pensare ad altro mentre si versava il caffè nella tazza e andava a sedersi sul divano. Doveva pensare agli impegni che aveva per quella giornata. A cercare di rendersi presentabile per il pranzo che aveva con il padre e il suocero.

Avrebbe tanto voluto andarsene in ufficio. Almeno li avrebbe avuto modo di non pensare. Di non permettere alla sua mente di ritornare al passato e risvegliare delle vecchie ferite che ci avevano messo troppo tempo a sopirsi. Non poteva permettere alle cicatrici di riaprirsi. Non adesso. Non in futuro. Quello che era rimasto sepolto sotto le macerie tanti anni prima doveva rimanersene nel passato.

Solo che il passato è bravo a farsi vivo. Compare quando meno te lo aspetti e non sai mai come reagire. Non lo puoi accogliere a braccia aperte, non sempre, non in questo caso. Non quando il cuore ti fa male come se te le avessero appena strappato dal petto ed era una sensazione che non voleva più provare. Una volta era bastata e avanzata per tutta la sua vita natural durante. Puoi cercare di ignorare il dolore, diventi bravo nel farlo, ma è sempre lì, in attesa di farsi vivo il prima possibile.

La suoneria del suo cellulare lo aveva fortunatamente distratto da quei pensieri, solo per vedere che era Armin a telefonargli. Poteva immaginare per cosa lo stesse chiamando.

“Armin, ma hai visto l'ora?” Aveva mormorato, rispondendo mentre nuovamente si passava una mano tra i capelli.

“Sì, ma sapevo che eri sveglio. Come stai?”

“Come se mi avesse investito un TIR.” Aveva sbuffato.

Per qualche istante Armin non aveva detto nulla, e Marco si stava aspettando la fatidica domanda.

“Marco, chi è Jean?”

“Nessuno.” Quella era l'unica risposta che poteva dare mentre fissava il liquido scuro dentro la propria tazza. “Non è più nessuno.”

 

✵✵✵

 

Il resto della mattinata lo aveva passato come in uno stato di trance, era andato a recuperare la propria famiglia all'aeroporto visto che in qualche modo aveva dovuto occupare le ore che aveva a disposizione. Aveva sopportato sua madre che si lamentava che lo vedeva dimagrito, e suo padre che faceva battute poco velate sul sesso. O i suoi fratelli più piccoli che lo abbracciavano come se fosse appena tornato da una guerra.

Ma quella era una routine a cui era abituato e che a volte gli mancava da quando non viveva più con i suoi, o almeno vicino a loro.

“Annie non c'è?” Era la prima cosa che Margherita Bodt gli aveva chiesto dopo avergli permesso di respirare in seguito ad un suo abbraccio.

“No, vi starà aspettando in accappatoio e drink in mano.” Aveva sorriso alla donna nel modo più dolce in cui potesse farlo. Non poteva darle pensieri. Non poteva darli a nessuno. Non ad un punto così cruciale della sua vita.

“Oh, ma Marco, non serviva una cosa del genere! Possiamo anche restare con te, ci farebbe solo piacere.”

Ma Marco le aveva sorriso, notando lo sguardo sconvolto di Michelle, la piccola della famiglia.

“Mamma, spero tu stia scherzando. Io ci voglio andare in questo centro benessere, e anche subito.”

“La voce dell'innocenza ha parlato. E poi non sono da solo. Ho degli amici che non mi permettono di passare questi ultimi due giorni da celibe da solo.”

La donna non gli sembrava convinta, ma alla fine aveva soltanto sospirato. Conosceva il suo Marco, sapeva che aveva sempre la testa sulle spalle e che se decideva qualcosa, così doveva essere.

E lui gliene fu grato. Perché non sapeva quanto ancora la sua maschera avrebbe funzionato di fronte a lei, che aveva sempre saputo tutto e che era stata la prima persona ad aiutarlo a raccogliere i cocci del suo cuore.

 

✵✵✵

 

Il pranzo con suo padre e George era stato una delle esperienze più noiose a cui avesse mai partecipato. Non avevano fatto altro che parlare di lavoro, lavoro e ancora lavoro. E non appena aveva finito di mangiare, Marco si era alzato e inventandosi una scusa aveva lasciato il ristorante.

C'erano volte in cui neppure lui riusciva a fare finta di essere interessato ai discorsi.

Non quando nel bel mezzo del pranzo senti vibrare il cellulare che hai in tasca e quando poi lo controlli perdi un battito.

Un numero sconosciuto.

Un prefisso che riconosceva.

+336xxxxxxxx
Ho chiesto il tuo numero a Connie. Scusa per ieri. Jean

Senza avere il tempo di collegare il cervello ai propri muscoli, aveva premuto il tasto verde e aveva portato il telefono all'orecchio. Avrebbe lasciato suonare tre volte, poi avrebbe riattaccato e si sarebbe dato dello stupido anche solo per averci pensato.

“Marco...?”

La voce titubante dall'altra parte del telefono gli aveva spezzato il cuore. Sentire il proprio nome pronunciato da lui gli avrebbe per sempre fatto male.

“Ehi, ciao.”

“Ciao.”

“Non devi scusarti per ieri. Non è successo nulla.”

“Ho accettato l'invito per venire alle tue feste di addio al celibato, non mi sembra nulla. Ho cercato di spiegare a Connie che non è il caso, ma non ci sono riuscito.”

“Sì, so bene quanto può essere insistente Connie.” Aveva ridacchiato, ma la voce gli era uscita strozzata per il troppo nervoso.

“E non posso neppure darmi alla macchia perché sono ospite da lui. Quindi mi dispiace, ma dovrai vedermi anche stasera.”

“Adesso sei libero?”

 

✵✵✵

 

Le decisioni stupide erano diventate il suo forte nelle ultime 24 ore. E la caffeina iniziava ad essere troppa, pensò mentre guardava l'ennesima tazza di caffè di quella giornata.

Nervosamente si era passato una mano tra i capelli.

Aveva fatto un errore. Non avrebbe dovuto telefonargli. Non avrebbe mai dovuto chiedergli di vedersi. Non avrebbe mai dovuto dargli appuntamento.

E non avrebbe mai dovuto lasciarsi catturare dal ghigno dell'uomo che gli si stava avvicinando. Ghigno che lui sapeva bene fosse solo un bluff, perché sapeva che Jean era nervoso tanto quanto lui da quell'improvviso incontro.

“Il mondo è inaspettatamente piccolo, non trovi?” Il francese gli aveva sorriso mentre prendeva posto di fronte a lui.

“Fin troppo.” Aveva ricambiato il sorriso e subito dopo un imbarazzante silenzio era calato su di loro. Marco troppo impegnato ad osservare la tazza di caffè, e Jean a giocare nervosamente con le proprie dita.

Perché non era facile rivolgersi la parola dopo dieci anni e tante parole dette e non dette.

“E così ti sposi.” Jean si era passato una mano sul collo, accarezzandosi i capelli rasati sulla nuca. Li aveva sempre portati così, sin da quando erano adolescenti.

“Sì, domenica.”

“Con una donna...?” Lo aveva guardato incuriosito e lui non era riuscito a trattenere una risata, per quanto nervosa potesse suonare.

“Si, Jean, con una donna!”

“Congratulazioni allora.” Gli aveva regalato uno di quei sorrisi caldi e rari che riservava solo alle occasioni speciali, e che davvero poche volte gli aveva visto addosso.

“Grazie.” Gli aveva sorriso di rimando, e nel farlo aveva sentito il cuore stringersi. “Non pensavo di incontrarti ancora.”

“Idem.” Jean aveva sorseggiato il caffè che un cameriere gli aveva appena portato e poi lo aveva nuovamente guardato. “Se Connie non avesse fatto il vago e mi avesse detto a chi andavo incontro non ti avrei messo in questa situazione.” Aveva passato le dita tra i capelli. Ancora li decolorava come quando erano più giovani. “Scusami, non avrei dovuto scriverti. Non dovrei neppure essere qui in questo istante. Solo che non mi aspettavo proprio di vederti, non dopo tutti questi anni.” Si era morso un labbro, e Marco aveva ricordato che era una cosa che faceva abitualmente. “Cazzo, ti stai per sposare.”

“Sono contento che la cosa ti diverta.” Il moro aveva mormorato quando Jean aveva ridacchiato.

“No, scusami... E' che è ironico. Davvero molto ironico.” Aveva sorriso di nuovo e lo aveva guardato. “E' fortunata sul serio.”

“Puoi venire domenica, così te la presento.” Non sapeva neppure lui perché lo avesse detto, le parole gli uscivano da sole senza che potesse controllarle come voleva.

“Non mi sembra il caso. E poi domenica ho il volo per Parigi.”

Marco aveva annuito. Sapeva che Jean aveva ragione. Sapeva che niente in quel momento aveva senso. Solo che Jean era di fronte a lui. Jean con la sua solita espressione annoiata. Jean che inarcava un sopracciglio mentre lo scrutava. Jean, le cui labbra si muovevano, ma lui non aveva colto nessun suono.

“Mi stai ascoltando?”

“Scusami...” Aveva abbassato lo sguardo arrossendo. “Dicevi?”

“Connie mi ha detto che lavori per uno studio legale famoso.” Aveva appoggiato il mento sul palmo della mano e continuava a guardarlo. “Sono felice per te, è quello che hai sempre sognato.”

“Si, non mi posso lamentare. Anche se alla fine lavoro come divorzista.” Aveva ridacchiato, guardandolo e poi si era passato una mano tra i capelli. “Si, lo so, questo non te lo saresti mai aspettato. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato.”

“Ad averlo saputo avrei telefonato a te, magari potevi farmi un ottimo prezzo.” Con il viso nascosto dalla tazza non aveva potuto notare l'espressione di Marco, che era di assoluto stupore.

“Scusa?”

“Sposato e divorziato.” Lo aveva visto muoversi sulla sedia, mentre cercava quello che poi si era dimostrato essere il suo cellulare. Aveva sbloccato lo schermo e glielo aveva mostrato. “Marie. Mia figlia.”

Marco aveva spalancato gli occhi, mentre spostava lo sguardo dalla bambina in foto all'uomo che gli sedeva di fronte.

“Stai scherzando, vero? Jean, quando hai avuto una figlia?”

“Nei dieci anni in cui ci siamo parlati?” Aveva alzato gli occhi al cielo, appoggiando il cellulare sul tavolo e osservando la foto. “Nessuna grande storia d'amore. Ho solo messo incinta una ragazza con cui uscivo, e volevo assumermi le mie responsabilità. Non avevo fatto i conti col fatto d'aver sposato una puttana.”

“Jean.”

“Cosa c'è? Chiamo solo le cose con il loro nome! Tu come chiameresti una che si porta l'amante in casa, tua figlia è in quella casa, e tu torni a casa prima del solito e trovi la troia che si scopa 'sto stronzo sul tavolo della cucina?”

Marco aveva scosso la testa. Quello era tra i casi più comuni di divorzio, e lui ne sapeva fin troppo.

“Perché siete passati per avvocati?”

“Per la custodia di Marie.” Aveva sospirato, mettendosi seduto più comodamente sulla sedia. “Sono cambiate molte cose in 10 anni. Non avrei mai creduto che prima dei 30 sarei diventato un esperto nel cambiare i pannolini o a scaldare il latte per il biberon. Eppure, la principessina ha quasi 5 anni ormai.”

Marco lo aveva osservato attentamente. Aveva lo stesso sguardo di quando parlava delle cose che lo emozionavano. Rapito. Estasiato. Sua figlia era sicuramente fortunata ad averlo per padre.

“E tua madre?”

“Ah, come sempre. E' felice di essere nonna, un po' meno felice del mio divorzio. Credo ormai si sia rassegnata al fatto che resterò single a vita.” Aveva sospirato nuovamente. “Ha smesso di recente di chiedermi di te. Quando le dirò che ti ho incontrato ne sarà felice.”

“Magari potrei passare a trovarla la prossima volta che sarò a Parigi.”

Sapevano entrambi che quella era una bugia, parole di pura cortesia che sarebbero andate perdute una volta finiti quei caffè.

“Potresti, sì. Magari porta anche tua moglie, così posso conoscerla.”

“Vieni domenica. Te la presento in quell'occasione.”

Jean aveva nuovamente scosso la testa. “Con tua madre lì? Penserà che sono venuto per traviare suo figlio di nuovo, e no grazie. Ho già dato.”

Marco sapeva che era la verità. Per quanto sua madre lo adorasse e volesse solo la felicità per lui, non era mai stata contenta della sua relazione con Jean. Quando le aveva parlato di Annie, allora era stata davvero felice. Suo figlio non era una checca, ma un vero uomo. L'aveva spesso sentita dire che quello che aveva avuto con Jean era stato soltanto un passatempo, che era confuso. E infatti ora stava per sposarsi con una bella donna che entrambi dei suoi genitori approvavano.

Non come l'uomo che gli sedeva di fronte, che non sembrava essere invecchiato di una virgola in quei anni in cui non si erano visti. Anche il suo modo di vestire non era cambiato. Jeans, scarpe da ginnastica, felpe. E un orrendo berretto, di cui poteva notare una sommità uscire dalla tasca del giubbotto di pelle.

“Hai finito poi l'accademia d'arte?”

Jean aveva annuito, appoggiando la tazza sul tavolo. “Si, anche se alla fine ho finito fotografia. Per questo conosco Connie, ci siamo conosciuti ad un corso di aggiornamento. E continuo a dipingere per hobby, se te lo stai chiedendo.”

“Ricordo che eri davvero molto bravo.” Le sue labbra si erano distese in un sorriso e non poteva fare nulla per evitarlo. Il solo vedere Jean, nonostante tutta la tensione che sentiva, gli faceva piacere. Riuscire a parlarsi normalmente dopo tanti anni, dopo tutto quello che era successo, in qualche modo lo rincuorava.

“Nulla di eccezionale. All'accademia c'era gente davvero brava.” Aveva finito il proprio caffè. “Connie mi ha detto che vi farà lui le foto del matrimonio.”

Marco aveva annuito, finendo a sua il caffè. Aveva osservato la tazza che teneva ancora in mano. Quante volte si erano fermati dopo scuola in qualche bar? Quanti pomeriggi avevano passato studiando e bevendo caffè? Quante volte aveva accompagnato Jean nei vari caffè letterari del centro parigino? Erano cose che aveva quasi dimenticato. Cose che si era imposto di dimenticare nel momento in cui aveva visto la schiena di Jean, tanti pomeriggi fa.

“Mi dispiace.”

A quelle parole il francese aveva sbuffato. Lo aveva visto estrarre nervosamente dalla tasca un pacchetto di sigarette per portarsene una subito alle labbra e accenderla.

“Non sono venuto qui per ascoltare queste stronzate, Marco. Non dopo tutti questi anni.”

Gli occhi di Jean erano posati su di lui. Orgogliosi e feriti come lo erano stati quel pomeriggio, quando tutto si era concluso.

“Siamo adulti e abbiamo fatto le nostre scelte. E le tue scuse del cazzo ora sono fuori luogo.”

Si era alzato e Marco non aveva avuto l'occasione di dirgli nulla, perché sapeva il biondo aveva ragione. Sapeva che nessuna parola avrebbe cambiato quello che era successo. Gli aveva dato le spalle, e nuovamente era rimasto ad osservare la sua schiena mentre si allontanava.

 

✵✵✵

 

Marco non era mai stato un amante dei luoghi chiassosi o troppo affollati. Non gli erano mai piaciute le discoteche o i locali alla moda dove anche solo per entrare dovevi fare file interminabili di almeno un paio d'ore. Per lui una buona serata era trascorrere qualche ora con i suoi amici al solito pub. Bere qualche pinta di birra. Ballare senza conoscere i passi e lasciandosi guidare dalla musica.

Quella serata non sarebbe stata molto diversa dalle altre. Aveva chiesto esplicitamente di evitare qualche night club, poiché quei luoghi lo mettevano sempre in imbarazzo e non sarebbe mai riuscito a godersi la serata come avrebbe voluto.

Era seduto al loro solito tavolo assieme ad Armin quando Connie era entrato con Jean al proprio fianco. Il biondo aveva spostato lo sguardo non appena lo aveva notato, e Marco si rendeva conto che in quel momento non voleva essere lì. Che era venuto solo perché non aveva potuto usare nessuna scusa con Connie.

Connie gli si era subito seduto accanto, sfoggiando un sorriso enorme e indicando la macchina fotografica che aveva attorno al collo.

“Oh, no. Non devono esserci prove di queste serate.”

“Come no? Queste sono le tue ultime serate da uomo libero! Devi viverle appieno e io sono qui per documentare il tutto!”

Aveva osservato l'amico che prendeva subito qualcosa da bere, e sospirando aveva spostato lo sguardo su Jean, che chiacchierava con Armin. Non aveva più affrontato il discorso con l'amico e collega. Armin aveva accettato la sua risposta quella mattina e non ne aveva più parlato. Sapeva bene che Armin non era uno stupido, e che aveva capito che dietro alle sue poche parole c'era molto di più. Conoscendolo poteva già immaginarsi gli ingranaggi del suo cervello messi in moto per risolvere quell'enigma che gli era stato posto di fronte. Oppure mentre, parlando con Jean, cercava di carpirne i segreti attraverso poche parole.

In qualche modo sapeva che Armin aveva capito cosa c'era stato tra lui e Jean. Lui non aveva il coraggio di dirlo a voce alta. Aveva paura a pronunciare quelle parole di fronte ai suoi amici. Ne aveva paura nonostante sapesse bene che nessuno di loro lo avrebbe mai giudicato.

Ma quella era una parte di lui che aveva nascosto per molto tempo. E che avrebbe continuato a nascondere, perché aveva fatto le proprie scelte. Perché aveva lasciato che quel ragazzo uscisse dalla sua vita, e aveva deciso di percorrere la strada che altri volevano seguisse.

“Ehi ehi! Marco, non vorrai mica ubriacarti già adesso?” Connie aveva ridacchiato, scattando la prima foto della serata mentre lui svuotava la prima pinta di birra.

“E' la mia festa, no?” Aveva sorriso, passando una mano sulla testa pelata di Connie e sapeva di avere gli occhi di Jean puntati addosso. Sapeva sempre quando Jean lo guardava. Anche quando erano giovani. Anche quando lui avrebbe voluto che Jean spostasse lo sguardo da lui.

Jean lo guardava sempre.

“Ovvio che è la tua festa!”

Due braccia muscolose si erano strette attorno al suo collo.

“Motivo per il quale stasera ballerai sulle note della divina Barbra.”

“Reiner, no. Tutto tranne la Streisand. Ti prego.”

Aveva voltato la testa quanto bastava per vedere il ghigno soddisfatto stampato sulle labbra di Reiner Braun. Poteva notare accanto a lui l'alta figura di Bertholdt Hoover, il suo compagno. Nessuno di loro lo avrebbe mai giudicato, eppure quel Marco, quel passato era rimasto sepolto in Francia. A Parigi, in un freddo pomeriggio di novembre. E li sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni.

 

✵✵✵

 

Qualche birra di troppo e si era ritrovato in pista a ballare “Woman in love” di Barbra Streisand, cantando a squarciagola per fare compagnia a Reiner che si stava esibendo di fronte a tutti gli avventori del locale. Non era nulla di nuovo. Un copione che si ripeteva ogni fine settimana. Un copione di cui mai si sarebbe stancato.

Quello era il suo mondo ora. Quello era il posto a cui apparteneva.

Per tutta la sera aveva cercato di ignorare la nota che stonava nel quadro perfetto che aveva costruito attorno a sé. Perché negli ultimi dieci anni aveva fatto di tutto per essere quello che gli altri volevano diventasse.

Il ragazzino timido che a scuola tutti prendevano in giro per le sue lentiggini aveva finalmente trovato il suo posto nel mondo.

Anche se il terreno sotto i suoi piedi aveva iniziato a tremare quando nuovamente si era accorto degli occhi di Jean su di sé.

Oppure iniziava ad immaginarsi le cose perché avrebbe voluto che il biondo lo guardasse, invece di parlare con Bertholdt. Sorrideva al suo amico e lui avrebbe voluto che quel sorriso fosse solo per lui.

Aveva svuotato un altro boccale di birra, appoggiandolo sul tavolo più vicino mentre si spostava dall'improvvisata pista da ballo. Aveva appoggiato la schiena contro il muro, chiudendo gli occhi e cercando di escludere tutto e tutti dalla sua mente almeno per un attimo. Quelle erano le sbronze peggiori. Quelle che gli facevano tornare in mente tutti i ricordi. Quelle che volevano farlo urlare e piangere e scappare in capo al mondo e non tornare mai più.

Quando aveva riaperto gli occhi il suo incubo aveva preso forma fisica e si trovava di fronte a lui.

“Stai bene? Vuoi un po' d'acqua?”

Aveva scosso la testa, non trattenendo una risata. Era l'alcool. Era l'alcool che gli faceva immaginare che Jean fosse di fronte a lui. Tutto quello che era successo nelle ultime poco più di 24 ore doveva essere un'illusione. Qualcosa che la sua mente stava proiettando.

Qualcosa che continuava a non dargli pace.

“Marco?”

“Una volta mi chiamavi lentiggini, ricordi?” Aveva deglutito, guardandolo. Aveva un nodo in golo che gli rendeva difficile pronunciare quelle parole.

“Era una vita e mezza fa.”

Jean aveva sbuffato, passandosi una mano tra i capelli corti, e lui, stupido ubriaco che non era altro, lo aveva attirato a sé, baciandolo come se non avesse mai smesso di farlo.

 
   
 
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