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Autore: Laylath    07/12/2015    6 recensioni
Dal prologo:
"... Non lasciarmi!”
Quelle ultime due parole le procurarono un forte ed improvviso battito del cuore, risvegliandola bruscamente. Il buio era ancora attorno a lei, promessa di sicurezza ed oblio, ma qualcosa non andava.
Non riusciva più ad abbandonarsi ad esso come voleva.
Improvvisamente la sua memoria esplose di ricordi, di visi conosciuti, di voci che la chiamavano con insistenza...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Riza Hawkeye, Team Mustang
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Military memories'
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Capitolo 2
1899 - 1900. Chi si perde e chi no




 
Era il due agosto quando Elisabeth Hawkeye morì.
Per le settimane che seguirono Riza si lasciò completamente andare, diventando una sorta di pallido fantasma che vagava smarrito per le stanze impolverate e in penombra della villetta. Mangiava pochissimo e ad intervalli irregolari, quando il suo corpo la obbligava a cercare un minimo di nutrimento: si metteva il cibo in bocca senza sentirne il sapore, prendendolo direttamente dalla credenza, senza nemmeno preoccuparsi di cucinare veramente qualcosa. Si lavava pochissimo, limitandosi piuttosto a cambiarsi i vestiti quando il prurito sulla pelle diventava troppo fastidioso: i suoi bei capelli biondi, lunghi fin sotto le spalle erano lerci e pieni di nodi tanto che era diventato impossibile pettinarli.
Non usciva mai di casa, raramente andava nel giardino pieno di erbacce secche: camminava per le stanze con aria apatica fino a quando qualche dettaglio le riportava alla memoria un ricordo della madre. Allora si sdraiava sul pavimento impolverato, raggomitolandosi su se stessa, e chiudeva gli occhi, preferendo vivere in quel mondo d’illusione dove Elisabeth era ancora viva e si prendeva cura di lei.
Poteva restare ore ed ore in una simile posizione, persa in quello strano dormiveglia: poi qualche esigenza del suo corpo come fame o bisogni fisiologici la risvegliava e allora ritornava ad essere quel piccolo fantasma così inquietante.
Era vagamente consapevole che con un simile atteggiamento si sarebbe ammalata e alla lunga sarebbe morta; ma era una bambina di soli nove anni che aveva appena vissuto un trauma tremendo e che era stata abbandonata a se stessa. Di suo padre si era persino dimenticata l’esistenza: era come se per una strana legge magica fossero destinati a non incontrarsi mai nonostante fossero sotto lo stesso tetto. Forse era per merito suo che nella credenza c’era sempre cibo, ma a questo Riza non pensava ridotta com’era ad uno strano automa con la carica quasi finita.
L’unica cosa che sapeva era che nel mondo ad occhi chiusi c’era sua madre ed era questo che importava.
 
A fine agosto ormai era allo stremo delle forze.
Persino camminare era diventato difficoltoso e si doveva continuamente aggrappare a qualcosa per aiutare le gambe che ogni tre passi cedevano. Stare in piedi le provocava spesso nausee e tremendi capogiri, ma non se ne preoccupava troppo: bastava sdraiarsi, chiudere gli occhi ed andare nel mondo della mamma. Lì stava bene, era felice… iniziava a chiedersi se non era il caso di starci per sempre.
“Riza! Bambina mia, erano settimane che non ti vedevo… ma che hai?”
Alzò vagamente lo sguardo e si accorse di essere nel cortile: non si ricordava nemmeno di essere uscita, forse il corridoio era finito prima del previsto. Guardò con apatia quel donnone dagli spenti capelli castani raccolti in una grossa crocchia e si chiese dove l’aveva già visto. La sua voce le suonava familiare, ma non riusciva a ricollegarla a qualcuno.
“Santo cielo, piccola, ma come sei ridotta? Sei un fantasmino… ma stai mangiando? Sei così pallida… e scotti per la febbre! – una mano grassoccia e fresca le tastò la fronte, un contatto fisico che scosse la bambina come se un fulmine l’avesse colpita – Qui bisogna assolutamente chiamare il medico! Il cielo non voglia che ti stia ammalando come la tua povera mamma!”
Ammalata la mamma? – Riza non riuscì nemmeno a schiudere le labbra mentre veniva sollevata di peso – Ma non è vero… la mamma sta bene, abbiamo letto un libro fino a poco fa… mamma, diglielo anche tu… diglielo, per favore.
 
“Allora, dottore?”
“No, non è tisi.”
“Sia ringraziato il cielo, almeno in questo è stata fortunata. Ma questa febbre?”
“Trascurandosi in questo modo e con questo caldo di fine estate è una conseguenza più che normale. Dannazione, signor Hawkeye, non si rendeva conto che sua figlia le stava morendo sotto gli occhi.”
Ci fu un lungo e cupo silenzio in risposta.
“Doveva capire che la bambina aveva bisogno di assistenza: non è in un solo giorno che si è ridotta così – adesso quella voce maschile e profonda era davvero furiosa – ha nove anni! E lei è l’unico parente che abbia: è una sua responsabilità prendersi cura di sua figlia!”
Ci fu ancora un grave silenzio e poi la voce che aveva parlato per prima si sentì di nuovo.
“Se vuole, signor Hawkeye, in questi primi giorni che Riza è molto debole, posso darle una mano: mi sono spesso occupata di sua moglie e la bambina mi conosce. Ci vuole pazienza e dolcezza.”
“Grazie, signora Berth…”
Quella voce parlò per la prima volta e a quel punto Riza abbandonò quel briciolo di coscienza per tornare a sprofondare nell’oblio, dove però non c’era più sua madre.
 
La febbre la tormentò per quegli ultimi giorni di caldo afoso: riusciva a stare cosciente il tempo per venire imboccata con pazienza dalla signora Berth. In quei momenti, sebbene non avesse la forza di parlare, si rendeva conto di dove si trovava e del fatto che sua madre era morta, ma non riusciva a ricordare per quale motivo si fosse ridotta in quello stato.
“Oh, finalmente le piogge di settembre! – esclamò la signora Berth il quarto giorno, guardando dalla finestra – Adesso questo caldo torrido andrà via! Speriamo che un’estate così rovente non si presenti più per molto tempo, non ho ragione?”
La pioggia.
A Riza sembrava quasi un evento fantastico da tanto non la vedeva: trovò persino la forza di mettersi seduta con la schiena posata sul cuscino per potersi godere meglio lo spettacolo. Era la prima volta dopo la morte di sua madre che dava così tanta attenzione ad un fenomeno del mondo esterno.
Osservò quelle gocce scivolare sui vetri come se fossero la cosa più strana del mondo, così come il ticchettio che producevano. Erano tutte cose che risvegliavano i suoi sensi.
“Sudata…” disse con voce roca, toccandosi il colletto della camicia da notte.
“Sudata e sporca – annuì la signora Berth, lieta di vederla partecipe – non appena starai meglio la prima cosa che farai è un bagno per levare tutto lo strato di lerciume che hai addosso. Forse non ti rendi conto dell’odore che emani, bambina mia. E anche per questi capelli dovremo fare qualcosa: credo che diverse ciocche saranno proprio da tagliare.”
A quella frase fu come se il naso di Riza si stappasse e si rese conto dell’odore che invadeva la sua piccola persona. Arricciò il naso con disgusto, provando estrema vergogna nell’essersi lasciata andare in un simile modo. Come era stato possibile?
Non ebbe tempo di pensarci perché la signora Berth la aiutò ad alzarsi dal letto in modo da poter cambiare le lenzuola. Seduta su una sedia proprio accanto alla finestra, la bambina riprese ad osservare quelle gocce che scivolavano sui vetri.
Tutt’ad un tratto si accorse che delle lacrime stavano rotolando sulle sue guance: aveva iniziato a piangere senza nemmeno rendersene conto.
Perché? – si chiese con perplessità.
“Oh, povera anima! – la signora Berth si accostò a lei – la mamma ti deve mancare davvero tanto, eh?”
“La mamma?” mormorò con perplessità, guardandosi una mano con la quale si era asciugata la guancia umida delle sue lacrime.
Qualcosa si ruppe dentro di lei, facendo fuoriuscire un dolore nuovo e tremendo che era stato per settimane arginato dall’apatia. Le lacrime presero a scorrere più intense ed un forte e disperato singhiozzo le scoppiò in gola.
Era così: la mamma non sarebbe tornata mai più da lei. Aveva pensato di poterla rivedere in quel mondo ad occhi chiusi, ma era solo una bugia: adesso era sepolta nel cimitero del paese e non sarebbe mai più stata al suo fianco.
Fu questione di due secondi prima che finalmente sfogasse il dolore della sua perdita tra le braccia della signora Berth.
 
Una settimana dopo, grazie alle cure della corpulenta donna, Riza era di nuovo in grado di occuparsi di se stessa. La febbre le era sparita del tutto e aveva a ripreso a mangiare regolarmente, ridando energia al suo corpo debilitato. Il medico dopo averla visitata dichiarò che aveva completamente superato la crisi, per quanto restasse ancora leggermente sottopeso.
E si era tagliata i capelli.
A dire il vero era stato in parte necessario dato che alcune ciocche erano così annodate e sporche da arrendersi solo alle forbici. Tuttavia la bambina aveva chiesto alla signora Berth di tagliarli ancora più corti: sentirli sul collo e sulle spalle ora le dava fastidio e le ricordava gli spiacevoli giorni in cui il sudore non faceva altro che colare per poi infiltrarsi nella schiena. Fino a qualche mese prima aveva sempre voluto avere i capelli lunghi e belli come quelli della madre, ma ora non le importava più.
Finalmente riottenne la sua indipendenza: la signora Berth si convinse che ormai era in grado di gestirsi da sola anche per i pasti e così le sue visite divennero sempre più rade, limitandosi a qualche saluto o a qualche dolce occasionale che portava per lei e suo padre. Una discrezione che per una bambina solitaria come Riza fu più che gradita.
Era quindi metà settembre quando la ragazzina si sedette a cenare, particolarmente fiera di come le era uscito lo stufato.
Si mise diligentemente il tovagliolo in grembo e si apprestò a prendere la prima cucchiaiata quando suo padre entrò in cucina e si sedette davanti a lei. Subito calò un pesante silenzio, con Riza che abbassò timidamente lo sguardo sul suo piatto, chiedendosi cosa potesse volere da lei. Si rese conto che aveva apparecchiato solo per se stessa e chiese con voce flebile.
“D… devo apparecchiare anche per te?”
“No, ho mangiato prima.”
Non c’era niente da fare: quella voce continuava a procurarle un senso di disagio, così come quella presenza. Non riusciva nemmeno ad essere arrabbiata con lui per la sua mancanza come padre: era una figura così inquietante ed estranea che preferiva non averci troppo a che fare. E fino a qualche secondo fa era convinta che la cosa fosse stata reciproca. Insomma, era apparso chiaro che la morte della mamma non aveva assolutamente cambiato il rapporto di fredda ignoranza che intercorreva tra loro.
“Dobbiamo pensare alla tua educazione.”
Quella dichiarazione fu così sorprendente che Riza alzò lo sguardo su suo padre, soffermandosi per la prima volta su quel viso magro, su quegli occhi azzurri e stanchi, nascosti in parte dalle lunghe ciocche di capelli che cadevano sulla fronte. Stava parlando sul serio? Da quando gli importava della sua educazione? E poi, che cosa voleva dire? Lei sapeva già leggere e scrivere: gliel’aveva insegnato la mamma con i suoi bellissimi libri di poesie.
“Non… non credo che…” iniziò con timidezza.
“La signora Berth ed il medico mi hanno fatto notare che effettivamente non sei mai andata a scuola e questo non va bene. Dalle poesie di tua madre hai imparato ben poco del mondo.”
Riza scosse lievemente il capo, sentendosi in parte offesa. Tuttavia un lieve terrore si stava impossessando di lei: non era che suo padre aveva avuto la folle idea di farle da insegnante? Di che cosa poi? Di quella strana materia chiamata alchimia che lo assorbiva completamente.
Oh no, non voglio studiare quella brutta cosa… diventerei come lui!
“… la scuola è lontana…” ammise, ricordandosi che esisteva un edificio scolastico a più di mezz’ora di camminata dal piccolo agglomerato di case sparse dove abitavano lei e suo padre. E poi sua madre non aveva mai parlato di mandarla a scuola: sicuramente aveva intenzione di provvedere lei stessa alla sua educazione.
“La signora Berth mi ha parlato di una vecchia insegnate in pensione che abita poco distante da noi – disse il padre con voce piatta – da lunedì andrai da lei la mattina per qualche ora. Tramite la nostra vicina sono stati già presi accordi per il pagamento. E’ giusto che ti dia una buona educazione, ti servirà per la vita.”
Riza rimase senza parole davanti a quell’annuncio.
Voleva opporsi con tutte le sue forze: non aveva nessuna intenzione di andare a studiare con un’estranea.
“Potrei fare da sola…” pigolò alla fine, tenendo lo sguardo basso.
“Non dire sciocchezze – tagliò corto il padre – questo è quanto. Adesso finisci pure di cenare.”
Si alzò dalla sedia e uscì dalla cucina, lasciando sola la figlia con i suoi pensieri.
 
La signorina Magda Elliot era alta, secca e con gli occhi azzurri e duri. Teneva i capelli striati di grigio raccolti in una severa crocchia che le tirava la fronte fino a far sparire le rughe dell’età. Al contrario della pettinatura della signora Berth, nessun capello era fuori posto, complici svariate forcine che stavano ordinate ai lati della testa.
Aveva circa sessantacinque anni ed abitava in una casetta a dieci minuti dalla villetta degli Hawkeye.
Quando Riza la vide per la prima volta, completamente vestita di nero, fu tentata di correre via tanto quella donna la spaventava, ma fu costretta ad entrare per via del tacito ordine che esprimevano quegli occhi che sicuramente avevano fatto tremare intere classi di scolari.
Tenendo lo sguardo basso, la bambina venne condotta in un piccolo salotto, con un due finestre ai lati opposti: una aperta verso il lato dell’alba, l’altra verso quello del tramonto. Vinta dalla curiosità di trovarsi in un ambiente nuovo, la ragazzina sbirciò con attenzione l’arredamento: sui muri vi era una graziosa carta da parati verde chiaro che ben si accostava alle cornici di legno scuro di alcuni piccoli quadri; sulla parete opposta a quella dove stava il camino vi era una piccola ed ordinata libreria, sopra la quale stava una vecchia pendola le cui lancette avanzavano pesantemente.
Era una camera completamente diversa da qualsiasi ambiente di casa Hawkeye. Era pulita, luminosa, non c’era niente fuori posto: rifletteva sicuramente la meticolosità della padrona.
“Siediti al tavolo, in modo che la luce ti arrivi bene.”
La voce della signorina Elliot giunse sferzante ed improvvisa, tanto che Riza sussultò rischiando di far cadere i due quaderni vuoti che aveva portato con sé. Con esitazione obbedì all’ordine non osando nemmeno posare il suo materiale scolastico su quel tavolo di legno scuro dalla superficie lucida e perfetta.
“Presumo che ti abbiano detto come mi chiamo – iniziò la donna con voce calma, squadrandola con attenzione – ma è giusto fare le presentazioni di persona: sono la signorina Magda Elliot, ma tu puoi chiamarmi signorina Elliot o maestra, se ti viene più semplice. Ricordati di darmi sempre del lei, è fondamentale per una bambina ben educata. Adesso, innanzitutto, tieni ben dritta quella schiena e guardami negli occhi: presentati, coraggio.”
A Riza mancò il fiato, ma ancora una volta gli occhi di quella donna la obbligarono ad obbedire.
“Mi… mi chiamo Riza Hawkeye, signorina Elliot.”
“Quanti anni hai?”
“Ne ho compiuti nove a fine giugno, signorina Elliot.”
“Allora dovresti essere tra la quarta e la quinta classe: dimmi quello che hai imparato fino ad adesso.”
A quella domanda Riza si sentì il cuore in gola: intuiva che tutte le poesie che aveva letto non sarebbero di certo bastate a quella donna così severa. Certamente quello che si imparava a scuola era ben altro, ma lei non aveva la minima idea di cosa si trattasse.
“So… so leggere e scrivere, signorina Elliot.”
“Fare di conto?”
“… so… so contare fino a cento, signorina Elliot.”
“Addizioni, sottrazioni e quanto altro? Hmpf, dalla tua faccia capisco che non sai nemmeno di che cosa parlo, vero? Storia, geografia… la capitale di Amestris sai qual è?”
“No, signorina Elliot…” ammise Riza, vergognosa di dire che non sapeva nemmeno cosa fosse una capitale.
“La signora Berth mi aveva detto che eri un caso particolare, ma non pensavo così tanto – dichiarò la donna, andando verso la libreria e iniziando a prendere diversi volumi – ci sarà parecchio da lavorare. Tuo padre vuole che ti venga impartita una buona educazione e sono d’accordo con lui. E’ scandaloso che tu non sia andata a scuola.”
“Mi insegnava mia madre!” protestò Riza, sentendosi ferita nell’orgoglio.
“Ha tralasciato parecchio, mi pare – commentò la donna, andando a sedersi davanti a lei – forza, per prima cosa apri il quaderno: adesso ti detterò un brano perché voglio rendermi conto della tua ortografia. Poi vediamo come te la cavi in lettura. In questo modo potremmo buttare giù un programma di studio. E ti avviso: non mi piacciono le bambine svogliate e disattente.”
Era una minaccia? Riza non lo seppe dire, ma la sua schiena si raddrizzò ulteriormente.
 
Quando era viva sua madre Riza non aveva mai avuto una giornata regolare.
Sì certo, i pasti erano più o meno alle stesse ore, ma per il resto le varie attività si svolgevano a seconda della disponibilità materna: quando aveva salute e voglia Elisabeth si dedicava all’educazione scolastica della figlia, altre volte le insegnava a cucinare, tuttavia il tutto era sempre mischiato e confusionario.
La prima cosa che fece la signorina Elliot fu di dare a Riza l’impostazione della regolarità e della puntualità: ogni giorno della settimana aveva delle materie precise a cui dedicarsi e a queste la bambina si doveva attenere.
Per Riza, abituata a sfarfallare con la testa come e quando le andava, o comunque secondo i ritmi materni, quella novità fu molto destabilizzante. Non importava se la materia non le piacesse: se per un’ora e più ci si doveva dedicare così doveva essere. Fu così che scoprì come c’era ben altro oltre la poesia e che quello che le aveva insegnato sua madre non era che una piccola parte dell’immenso sapere che si imparava a scuola.
La signorina Elliot, nonostante la scorza dura e severa, era un’insegnante molto abile e fu rapida a trovare un metodo adatto per la sua particolare allieva.
“Stasera a casa devi fare tutta questa pagina di operazioni – disse una mattina, mentre facevano una pausa e Riza mangiava una fetta di torta che le era stata offerta – sei debole in matematica.”
“Ma devo già fare una composizione di storia!” protestò la bambina.
“Organizzati e vedrai che potrai fare entrambe le cose.”
Riza annuì, guardando con timore la bacchetta che stava posata sul tavolo, onnipresente.
L’aveva provata diverse volte i primi giorni, sempre sul dorso delle mani: se la signorina Elliot pretendeva una cosa da lei così doveva essere. Non fare i compiti a casa voleva dire venir puniti, una novità a cui Riza non era per niente abituata.
La prima volta era stata tentata di dirlo a suo padre, ma una volta rientrata a casa tutta la sua baldanza era svanita. Del resto era lui che l’aveva mandata dalla signorina Elliot: come minimo avrebbe preso le sue difese, o comunque non le avrebbe dato ascolto. Di conseguenza aveva stretto i denti nel curarsi da sola quelle ferite ed era arrivata alla triste conclusione che era una sua battaglia personale.
Così come lo era la matematica… come molte altre materie.
 
Nonostante tutto, col passare dei mesi, Riza si rese conto di apprezzare le ore passate in casa di quell’anziana signora. Col tempo anche le materie più ostiche iniziarono a diventare più leggere e la voglia di imparare prese il posto del timore reverenziale nei confronti della sua insegnante. Adesso riusciva ad andare oltre la severità di quegli occhi azzurri, riuscendovi a cogliere l’entusiasmo per l’insegnamento e la soddisfazione che provava nei confronti dell’allieva. Durante le lezioni ormai riuscivano a passare da un argomento all’altro con disinvoltura, a volte andando anche al di fuori delle materie prettamente scolastiche.
“Credo di capire perché a mia madre piacesse tanto la poesia – ammise un giorno – probabilmente la usava per fuggire da casa nostra. I posti di quei componimenti erano sempre giardini in fiore, boschi incantati: sicuramente la mamma voleva stare lì.”
“Piacevano anche a te?”
“In parte – rifletté Riza – ma ora ammetto di preferire altre materie. Non è che mi piaccia molto stare a casa, in questo capisco cosa provava mia madre… però forse lei non aveva nessun altro posto dove andare, nemmeno la mattina.”
“La poesia spesso viene scritta da sognatori a cui il mondo reale non piace.”
“L’alchimia invece di cosa parla?” chiese la bambina con curiosità.
“Non è una materia scolastica, bambina – spiegò con gentilezza la signorina Elliot – bisogna trovare un maestro specifico. E’ come una scienza, ma molto più complicata: direi che è l’opposto della poesia dove si vola con la mente. Da quanto so ci sono precise leggi fisiche da studiare: gli alchimisti si occupano di capire cosa compone le cose, l’aria, l’acqua e così via… è molto complicata.”
“A mio padre e mia madre piacevano degli opposti.” capì Riza.
“E tu che ne pensi?”
“Penso che si siano persi entrambi.”
Era il giorno del suo decimo compleanno quando arrivò ad una simile conclusione.
 
Da luglio ad agosto la signorina Elliot la lasciò libera, sebbene con una discreta dose di compiti da svolgere durante le vacanze. Forte di quanto aveva imparato, Riza riuscì ad organizzare le sue giornate con discreta disinvoltura, cercando di darsi delle tempistiche precise nello studio, nei pasti e nel tempo libero.
Spinta dall’esempio della casa pulita della sua maestra, decise di intraprendere, per quanto possibile un’opera di pulizia della villetta. Partì da ambienti essenziali come la sua camera e la cucina, combattendo contro la polvere che sembrava essere la padrona incontrastata. Se non proprio la guerra riuscì a vincere importanti battaglie e sentì che riusciva a respirare decisamente meglio.
Forse se mi fossi decisa a fare delle pulizie più approfondite, la malattia della mamma non sarebbe peggiorata in quel modo.
Lo pensò mentre passava con secchio e straccio davanti allo studio del padre: aveva passato la mattinata a ripulire con attenzione ogni angolino della stanza che sua madre aveva usato come salotto e dove erano custoditi tutti i suoi libri di poesia. Durante la pulizia di ogni singolo volume, Riza ne aveva approfittato per rileggere qualche strofa ed aveva constatato che parte della magia era ormai sfumata. Erano versi delicati e belli, certo, ma non la trasportavano più in quel mondo fatato ed illusorio.
“Penso che si siano persi entrambi.”
La sua stessa voce risuonò nella sua mente mentre si fermava davanti a quella porta, posando d’istinto secchio e stracci sul pavimento.
Non era mai entrata in quella stanza, era già tanto se l’aveva vista di sfuggita aperta qualche rara volta, passando nel corridoio. Le aveva sempre dato l’idea di un ambiente chiuso, polveroso e claustrofobico… adesso grazie alla signorina Elliot sapeva che nome dare a quella sensazione così fastidiosa che la pervadeva in determinate occasioni.
Per la prima volta in vita sua fu tentata di abbassare quella maniglia ed entrare per scoprire il mondo dove suo padre si era perso, quello per cui non aveva mai dato attenzioni né a lei né a sua madre. Ormai era venuta a patti con quella sorta di delusione, però era curiosa di conoscere quella sorellastra che aveva il posto d’onore nella vita di Berthold Hawkeye.
La sua manina si era appena protesa quando la porta venne aperta di scatto e Berthold fece la sua comparsa. Padre e figlia si guardarono con sorpresa per qualche secondo, non sapendo come spezzare quel momento imbarazzante che si era appena creato.
“Ecco io – iniziò Riza, sentendosi in dovere di giustificarsi – mi… volevo chiederti se a cena ti andava bene una semplice insalata, papà. La signora Berth ha portato delle verdure del suo orto proprio stamane.”
“Andrà benissimo – annuì lui – c’è altro?”
“Ci… ci sono dei piatti sporchi che posso prendere?” un’improvvisa iniziativa si impossessò di Riza. Sapeva che la maggior parte delle volte il padre si portava i pasti nello studio e riportava i piatti in cucina ad intervalli irregolari.
“Sì, sono nella scrivania.”
“Posso prenderli?”
“Fa pure.”annuì lui, scostandosi lievemente per farla passare.
Con il cuore in gola, la ragazzina fece quei pochi passi che le permisero di oltrepassare la soglia proibita. Trattenne il fiato, ma non accadde niente: non si trovò come per magia in un modo diverso, ma solo in una stanza dove l’odore di chiuso la faceva da padrone. La scrivania stava davanti all’unica grande finestra e subito individuò i piatti impilati di lato. Si avvicinò con cautela, notando come il pavimento fosse pieno di libri… libri che sembravano invadere la stanza. C’erano librerie in tutte le pareti, ma al contrario dei volumi della signorina Elliot, perfettamente ordinati, i testi erano sparsi in ogni dove, impilati, aperti, rovesciati: un caos assurdo che sconvolse pienamente la bambina.
Era questa l’alchimia? Era questa la scienza che si occupava delle leggi del mondo?
Se i bei libri di poesia avevano le copertine delicate e colorate, riflettendo il mondo incantato che contenevano, quei testi e quei fogli quasi buttati a caso sembravano rispecchiare solo follia.
Si affrettò a prendere i piatti e corse di nuovo nel corridoio, riuscendo a respirare meglio solo quando superò quella soglia maledetta.
“Tutto bene?” le chiese Berthold.
“Solo… solo un po’ di polvere – mentì Riza arrossendo – mi ha dato fastidio alla gola.”
“Già, beh, prima o poi dovrò dare una pulita là dentro.”
Rimasero a guardarsi in silenzio per cinque secondi: Riza stava per offrirsi di dare una mano e sembrava che anche Berthold volesse avanzare una proposta in tal senso. Ma poi fu come se una nuova forma di consapevolezza si facesse spazio nei loro cuori: la bambina non voleva aver niente a che fare con quella materia, non voleva che la scusa di mettere in ordine diventasse un modo per approcciarla a quegli studi. E sembrava che l’uomo avesse perfettamente capito che non era lei la persona giusta.
“Posso… posso pensarci io a portarti i pasti non appena li cucino – propose Riza – così non si freddano e non devi attendere. E poi posso passare a ritirarli dopo.”
“Sì, potrebbe essere una buona idea.” annuì Berthold.
Era l’unico compromesso che erano stati in grado di raggiungere.
 
Quando a settembre la signorina Elliot tornò dalle sue vacanze ad East City, dove vivevano alcuni suoi parenti, le portò come regalo una bell’astuccio di metallo dove riporre le sue penne.
La ragazzina accettò con gioia quel dono, ma fu ancora più felice di poter riprendere quelle lezioni che rendevano le sue mattinate così speciali. Ormai quella donna non le faceva più paura: rappresentava per lei l’ideale di razionalità ed ordine a cui si era accorta di voler aspirare. Era quello il segreto: prendere quello che ogni materia offriva, senza però eccedere. Trovare il giusto equilibrio senza perdersi nei meandri di mondi i cui sentieri non avevano alcun uscita.
“Hai mai pensato a quello che vuoi fare da grande?” le chiese la donna, mentre controllava i compiti che le aveva assegnato per le vacanze.
“Non lo so ancora – rispose con sincerità lei – ma sono sicura di non voler fare né l’alchimista né il poeta.”
Su di questo non aveva alcun dubbio.



_____________
nda.
Riflettendo su come impostare il capitolo ho fatto alcune considerazioni.
Andandomi a rivedere il manga, durante il flashback davanti alla tomba di Berthold, Riza sostiene che suo padre avesse provveduto a darle comunque una buona educazione. Questo mi ha portato a propendere per un Berthold ancora "soft" nei confronti della figlia, tra l'indifferente e l'imbarazzato. Forse è alla fine di questo capitolo che si crea una vera e propria spaccatura tra di loro, con la consapevolezza che non sarà Riza a raccogliere la sua eredità.
L'evoluzione del personaggio di Berthold andrà avanti con i capitoli.

 
  
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