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Autore: Laylath    12/12/2015    6 recensioni
Dal prologo:
"... Non lasciarmi!”
Quelle ultime due parole le procurarono un forte ed improvviso battito del cuore, risvegliandola bruscamente. Il buio era ancora attorno a lei, promessa di sicurezza ed oblio, ma qualcosa non andava.
Non riusciva più ad abbandonarsi ad esso come voleva.
Improvvisamente la sua memoria esplose di ricordi, di visi conosciuti, di voci che la chiamavano con insistenza...
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Riza Hawkeye, Team Mustang
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Military memories'
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Capitolo 3
1901. L'allievo venuto da lontano




 
Quell’anno il freddo era particolarmente pungente già ad ottobre: nell’arco di pochi giorni, gli ultimi residui d’estate erano stati cacciati via da un forte vento che preannunciava l’arrivo imminente della stagione fredda, senza niente concedere ad una via di mezzo.
A Riza quel tempo non dispiaceva: preferiva di gran lunga il freddo al caldo, specie dopo quell’estate afosa che aveva visto la morte di sua madre. Di conseguenza era particolarmente serena quando, quella mattina, ben infagottata nel suo lungo cappotto marrone chiaro e nella sciarpa di lana bianca, tornava da casa della signorina Elliot, dopo la solita lezione. La sua maestra era stata molto contenta di lei: non solo tutti gli esercizi fatti a casa erano giusti, ma non aveva sbagliato nemmeno un verbo quando era stata interrogata in grammatica. Quella giornata era dunque cominciata sotto i migliori auspici e aveva tutta l’intenzione di farla proseguire in quel senso: adesso sarebbe rientrata a casa, avrebbe preparato un bel pranzo caldo, l’ideale con un simile tempo, e poi di sera si sarebbe messa in cucina a ripassare le materie del giorno successivo, magari con il forno acceso a farle compagnia con il suo bel calduccio.
Era così persa in questi suoi programmi che quasi andò a sbattere contro la persona che stava ferma davanti al cancelletto del giardino di casa sua.
“Scusi – mormorò imbarazzata – non l’avevo vista.”
Sbirciò con timidezza quella persona infagottata in un pesante cappotto scuro, con una sciarpa avvolta in modo tale da nascondere non solo bocca e naso, ma anche buona parte della capigliatura di cui si intravedevano solo alcuni ciuffi neri. L’altro tratto visibile erano gli occhi: sottili e neri, che la fissavano con curiosità.
Riza capì che non era nessuna delle persone che abitavano nel circondario: le conosceva più o meno tutte e nessuna aveva degli occhi così particolari. Trovandosi di fronte ad uno straniero, come denotava anche la grossa sacca che portava sulle spalle, il suo impulso fu quello di raggiungere il più in fretta possibile la sicurezza di casa sua, ma si trovò in netta difficoltà nel constatare che la sua via di fuga era bloccata da quella persona.
“Scusami – chiese lo sconosciuto, abbassandosi la sciarpa e mostrando un viso giovane e pallido – mi sai dire se questa è la casa del maestro Berthold Hawkeye?”
A quella domanda a Riza quasi caddero i quaderni che teneva in mano.
Chi mai poteva essere questa persona che cercava suo padre?
 
Una volta entrato in casa e levati cappotto scuro e sciarpa, lo straniero si rivelò essere un ragazzo di qualche anno più grande di Riza. Posò con un sospiro stanco il suo bagaglio all’ingresso e si stiracchiò per dare sollievo alle spalle provate da quel peso.
La ragazzina continuava ad osservarlo con timidezza, non sapendo come comportarsi con quello strano e primo ospite che capitava in casa sua. Non era come quando veniva la signora Berth: con lei c’era una determinata confidenza e sapeva benissimo che la cosa migliore era accoglierla nella calda ed ordinata cucina, anche perché le sue visite, la maggior parte delle volte, avevano a che vedere col qualche pietanza che portava.
Ma lui? Che cosa voleva?
Lo sbirciò mentre si guardava intorno come a chiedersi in che posto fosse capitato e questo fece irrigidire leggermente la schiena della fanciulla che andava particolarmente orgogliosa delle sue opere di casalinga.
“Allora, potrei vedere il maestro Hawkeye?” chiese quando ebbe terminato quella sua rapida ispezione visiva.
“Non… non saprei – rispose con imbarazzo Riza, abbassando lo sguardo – forse è impegnato.”
Forse…  che andava a dire? Sicuramente era impegnato a studiare: mancava ancora più di un’ora al momento di portargli il pasto nel suo studio.
Ma sembrava che quello strano giovane si aspettasse che lei facesse qualcosa, come andare a chiedere se poteva esser ricevuto. E per quanto fosse una cosa del tutto normale, Riza sentiva estremamente sconvolta la sua routine quotidiana tanto che restò per qualche secondo indecisa sul da farsi.
“Qualcosa non va?” le chiese il ragazzo, inclinando la testa scura con curiosità.
“No… no! – arrossì lei – Aspetti qui, signore. Vado ad avvisare mio padre del suo arrivo.”
“Ah, sei sua figlia… dovevo immaginarlo.”
Riza non rispose impegnata a posare il suo corredo scolastico a terra e levarsi a sua volta il cappotto.
Si avviò quindi nel corridoio arrivando sino alla fatidica porta, sperando che quell’intrusione prima del tempo non disturbasse troppo suo padre. Non che avesse paura che si arrabbiasse… ad essere sincera, la ragazzina non l’aveva mai visto in preda all’ira: il massimo che aveva espresso Berthold Hawkeye in sua presenza era stata irritazione, ma mai eccessiva. Però una forma di timore c’era: quell’equilibrio tutto sommato perfetto che si era creato tra padre e figlia stava in qualche modo venendo alterato da quell’entrata nello studio non prevista.
Fu quindi naturale per Riza prendere fiato ed esitare due secondi, prima di decidersi a bussare discretamente alla porta di legno.
“Vieni.” le rispose dopo qualche secondo la voce di Berthold, per fortuna in torno perfettamente neutro.
La ragazzina aprì l’uscio ed entrò, ormai abituata a quel caos che vedeva un paio di volte al giorno quando portava i piatti e li recuperava. Era riuscita a ritagliarsi una sorta di piccolo corridoio solo per lei, dove i libri non sembravano così incombenti sulla sua piccola persona: un tragitto che portava fino alla scrivania.
“Papà – disse a voce bassa, fermandosi a metà di quel tragitto – c’è un signore che vuole parlare con te.”
“Chi?”chiese Berthold con voce distratta, senza nemmeno alzare lo sguardo dal libro che stava studiando.
“Non lo conosco – ammise Riza, sentendosi una sciocca a non aver nemmeno chiesto il nome a quella persona – dev’essere straniero, di sicuro non è di qui. Ha chiesto di te chiamandoti maestro. L’ho… l’ho fatto entrare: è all’ingresso.”
All’improvviso le venne in mente che forse era stata una mossa sbagliata far entrare quel giovane. In fondo era un completo estraneo e non aveva la minima idea delle sue intenzioni: l’aveva invitato a casa spinta semplicemente dall’educazione e dal senso di ospitalità. Non era certo bello lasciare una persona in balia di quel vento gelido.
Ma forse non andava bene… forse, avrei dovuto dirgli di attendere fuori mentre venivo ad avvisare papà.
Tuttavia le sue paure sparirono quando vide gli occhi azzurri di suo padre alzarsi con curiosità da quelle pagine ingiallite. Era la prima volta che lo vedeva esprimere un interesse così palese per qualcosa di esterno al suo mondo d’alchimia.
Che cosa vuol dire? Magari lo conosce…
“Accompagnalo qui – la voce di Berthold fu rapida a dare quell’ordine, lasciando stordita la ragazzina – e non portarmi il pranzo: non voglio essere disturbato.”
“Va bene, papà.” rispose automaticamente.
Un altro strappo alla sua quotidianità: che stava succedendo in quella fredda mattina di fine ottobre?
 
L’orologio appeso alla parete della cucina continuava ad andare avanti.
Era più di un’ora che quel giovane era entrato nello studio di suo padre e ancora non usciva.
In quel tempo Riza aveva preparato il pranzo: indecisa se lo sconosciuto si sarebbe fermato da loro, aveva preparato una dose di stufato più abbondante del solito. Non sapendo come si sarebbe evoluta la situazione, aveva infine spento il fuoco sotto la pentola e si era seduta al tavolo, in attesa di disposizioni: non aveva apparecchiato nemmeno per se stessa, non sapendo come comportarsi.
Si limitava ad attendere, non riuscendo a cancellare dalla mente l’occhiata piena d’interesse che aveva fatto suo padre nel sentire la parola maestro. Dunque Berthold Hawkeye era un maestro d’alchimia? Questo Riza non l’aveva mai saputo, gli risultava persino inverosimile che suo padre avesse mai insegnato qualcosa a qualcuno. Ma forse era diverso dall’insegnare le solite materie.
Finalmente, quando le lancette furono andate avanti di un altro quarto d’ora, sentì la parta del corridoio aprirsi e dei passi procedere verso la cucina. Istintivamente si alzò in piedi e si mise composta, con le mani intrecciate in grembo.
“Mia figlia Riza l’hai già conosciuta – disse Berthold, entrando assieme a quel giovane, il cui viso pallido era tirato in un sorriso soddisfatto – per qualsiasi cosa potrai rivolgerti a lei. Riza, questo giovane da oggi sarà mio allievo…”
Allievo?
Riza sgranò gli occhi nel sentire quella parola: era dunque così? Quel giovane era davvero venuto per studiare quella materia così astrusa e strana che aveva portato suo padre in quella condizione di solitudine totale?
“Ciao.” la salutò con cortesia il ragazzo.
“… non avendo un posto dove alloggiare si fermerà da noi per tutta la durata dei suoi studi – continuò Berthold con tranquillità, la medesima di quando, più di un anno prima, le aveva annunciato che avrebbe iniziato a studiare presso la signorina Elliot – quindi preparagli una delle stanze degli ospiti. Mi raccomando di provvedere a qualsiasi sua necessità.”
“Certamente, papà.” rispose prontamente la ragazzina.
“Adesso ti prego di portarmi il pranzo nello studio. Quanto a te – disse infine, rivolgendosi al suo allievo – inizieremo domani: per oggi sistemati e riposati.”
“Certamente, maestro. La ringrazio ancora per la sua disponibilità.”
“Ringrazia la tua capacità di persuasione – commentò Berthold, lanciandogli una strana occhiata compiaciuta, tanto che Riza fu certa che, se suo padre ne avesse avuto la capacità, avrebbe anche sorriso – il tempo mi dirà se la tua mente è abile quanto la tua lingua.”
Senza attendere risposta, l’alchimista si ritirò di nuovo nel suo studio e questo fu il segnale per Riza per procedere come al solito. Adesso sapeva cosa doveva fare e questo le dava notevole sollievo: riaccese il fuoco sotto la pentola e rimestò con cura lo stufato, in attesa che raggiungesse la temperatura giusta. Quindi corse alla credenza e tirò fuori le stoviglie, andando a preparare il vassoio con cui avrebbe portato il pranzo a suo padre.
“Mangia sempre nel suo studio?” chiese il giovane, accostandosi al tavolo.
“Sì – annuì, tenendo lo sguardo basso e versando l’acqua in un bicchiere – così non si distrae troppo.”
Lui non disse altro: rimase in silenzio, ma per tutto quel tempo Riza fu conscia del suo sguardo che la osservava in ogni singolo movimento. Fu quasi sollevata di quel minuto di tempo che impiegò per portare il vassoio nello studio del padre. Ma una volta tornata in cucina il problema tornò a ripresentarsi.
Va bene, è l’allievo di papà – si disse per farsi coraggio, mentre tornava ad apparecchiare per due dato che era chiaro che avrebbe mangiato in cucina assieme a lei – devo essere educata e gentile, tutto qui.
“Comunque mi chiamo Roy, Roy Mustang – si presentò lui, sedendosi a tavola – e ti chiedo scusa per il disturbo che ti sto dando: per colpa mia stavi praticamente restando digiuna.”
“Nessun problema, signor Mustang – rispose Riza con educazione, prendendo la pentola con le presine e portandola direttamente in tavola – spero che le piaccia lo stufato.”
“Oh, dopo la camminata che ho fatto con questo vento, mi basta che sia caldo – sorrise, versandosi una generosa porzione sul piatto – E dal profumo si sente che è ottimo.”
“Dopo le preparo la stanza, la prego di aspettare.”
“Va bene – annuì lui, buttandosi sul cibo con grande entusiasmo. Un dettaglio che fece pensare a Riza che, forse, da quel momento, sarebbe stato meglio preparare pasti abbondanti – ma prima mangia con comodo: non è che devi sconvolgere la tua esistenza solo per il mio arrivo. Ti prometto che sarò il più discreto possibile.”
“Non si preoccupi, signor Mustang.”
“Ho sedici anni, puoi chiamarmi semplicemente Roy.”
“No – arrossì Riza – non sarebbe educato, signore.”
“Come preferisci.” scrollò le spalle lui, tornando a mangiare con appetito.
 
Verso le quattro di quel pomeriggio, Riza poté finalmente lasciarsi cadere sulla sedia della cucina, non vedendo l’ora di rifugiarsi nel ripasso di geografia e nei compiti di analisi logica. Aveva passato le ultime ore a cercare di rendere presentabile una delle stanze degli ospiti, ossia una delle poche camere dove davvero di rado faceva le pulizie e che erano diventate una sorta di ripostiglio per le cose che non servivano. Dunque si era trovata a spostare scatoloni, far arieggiare, trovare lenzuola e coperte decenti, spolverare… il tutto sperando che il signor Mustang non facesse troppo caso al disastro casalingo.
Gli aveva anche chiesto di restare in cucina, ma lui non ne aveva voluto sapere.
Si era offerto di aiutarla ed effettivamente era stato di grande aiuto quando si era trattato di spostare un vecchio tavolo, che avrebbe funto da scrivania, in modo che potesse godere maggiormente dell’esposizione della luce dall’unica finestra… i cui vetri ovviamente erano da pulire e le tende da mettere assolutamente a lavare, pena una nuvola di polvere al minimo tocco.
Ma alla fine avevano ottenuto un risultato più o meno decente, almeno per quel primo giorno. Una pulizia più approfondita sarebbe stata fatta nel corso della settimana.
Infine gli aveva procurato degli asciugamani e gli aveva indicato il bagno, in modo che si potesse lavare prima di andare a riposare: sicuramente ne aveva un gran bisogno, lo si capiva dal viso tirato e stanco. Era chiaro che aveva fatto un lungo viaggio per arrivare fino a casa Hawkeye.
Probabilmente si metterà subito a dormire… mi chiedo se sia il caso di svegliarlo per cena.
Scrollò le esili spalle aprendo libro e quaderno e preparandosi ad affrontare gli esercizi della signorina Elliot.
 
La mattina successiva, verso le otto, Riza si trovava come al solito in cucina a fare colazione.
Suo padre generalmente saltava questo pasto: spesso rimaneva alzato per buona parte della notte e mangiava qualcosa fuori orario.
Ma la signorina Elliot, e anche la signora Berth, avevano insegnato alla ragazzina che la colazione era il pasto più importante perché dava le energie per affrontare la giornata. Da tempo ormai aveva preso l’abitudine di prepararsi una tazza di latte caldo accompagnata da diverse fette di pane tostato con burro e marmellata.
“Buongiorno…” salutò il signor Mustang con voce leggermente assonnata, entrando in cucina e sedendosi al posto del giorno prima.
“Buongiorno, signore – rispose educatamente Riza – posso prepararle un caffè se vuole.”
“Tu che stai prendendo?”
“Oh, io solo latte…” arrossì.
“Latte mischiato con caffè? Mi pare un giusto mezzo.”
“Va benissimo: metto subito a preparare il caffè.”
Fortunatamente non si sentì il suo sguardo addosso come era successo ieri: girandosi timidamente vide che si stava spalmando un abbondante strato di burro su una fetta di pane tostato.
Adesso che aveva perso l’aria stanca e indossava vestiti più decenti rispetto a quelli umidicci e stropicciati dal viaggio del giorno prima, Riza notò che era un ragazzo di una certa classe. Stando a contatto con persone come la signorina Elliot e la signora Berth, si era resa conto che c’erano delle differenze sostanziali nei modi di fare e negli atteggiamenti. Del resto anche sua madre aveva sempre avuto una certa eleganza e raffinatezza nei modi di fare e di parlare, motivo per cui Riza si era convinta che dovesse provenire da una buona famiglia.
Sì, anche lui deve aver ricevuto una buona educazione.
“Ecco qua – annunciò, tornando a tavola con la caffettiera bollente e facendo cenno al giovane di girare la tazza che aveva preparato appositamente per lui – non so il quantitativo, mi dica lei.”
“Così basta. Il latte?”
“E’ qui… se vuole lo riscaldo di nuovo.”
“No, va bene così. Scusami ancora se ti creo così tanto disturbo.”
“Ma no – sorrise timidamente lei – ora che so cosa gradisce a colazione non mi crea nessun problema preparare anche del caffè.”
Ripresero a mangiare in silenzio, mentre Riza cercava di non far caso al lieve imbarazzo che ancora provava in sua presenza. Non sapeva se doveva parlare, fare conversazione, oppure se pure con lui valevano le medesime regole di silenzio che da tempo la facevano da padrone a casa Hawkeye. Alla fine si disse che la cosa migliore da fare era parlare solo se interpellata e sembrò che per tutta la durata della colazione andasse bene così.
“Devi andare a scuola?” chiese dopo un po’ lui, notando i quaderni pronti sulla parte pulita del tavolo.
“Dalla mia insegnante: la scuola è troppo lontana. Anzi, ora devo proprio andare: alle otto e mezza devo essere lì. Lasci pure le stoviglie nel lavandino: le lavo quando torno.”
“Perfetto. Il maestro è nello studio?”
“Sì, immagino di sì – esitò la ragazzina, raccogliendo i suoi quaderni – lei provi a bussare, le risponderà. Altrimenti vuol dire che è in camera a riposare. Sa certe volte resta a studiare fino a notte fonda.”
“Va bene, grazie mille.”
 
“Allievo, eh?” la signorina Elliot fisso Riza con intensità.
“Sì, mentre rimettevamo a posto la sua stanza, mi ha raccontato che ha fatto un lungo viaggio per venire fin qui: da Central City.”
“Quindi starà a casa vostra.”
“Pare di sì.”
“E tu come l’hai presa?”
“Io? – Riza rimase a pensarci per qualche tempo. A dire il vero la giornata di ieri era stata così surreale che non aveva pensato veramente al fatto che d’ora in poi quel giovane avrebbe abitato sotto il suo stesso tetto. Ma ancora più strano le veniva da pensare che suo padre lo avesse accettato come allievo – a dire il vero non saprei. Però credo che mio padre ne sia felice.”
Ecco, quello era un dettaglio interessante. Da tempo Riza non ci aveva più pensato, ma forse suo padre desiderava qualcuno con cui condividere il suo sapere. Si ricordò di quello strano imbarazzo che era calato tra di loro la prima volta che lei era entrata nel suo studio e di quel nascosto senso di inadeguatezza come figlia che l’aveva turbata in una piccola parte del suo animo.
“Riza, nessun genitore può pretendere che il proprio figlio segua la medesima strada. A volte succede a volte no – dichiarò la donna, come se le avesse letto nel pensiero – questo non ti sminuisce affatto come persona.”
La ragazzina annuì, cercando di convincersi che la sua maestra aveva ragione.
Però c’era qualcosa che non andava.
Lei non vedeva l’ora di uscire fuori di casa e andare dalla signorina Elliot; aveva trovato uno strano equilibrio con suo padre, ma non poteva dire di avere un vero e proprio rapporto con lui, tutt’altro. Si erano accordati sugli orari… era questo il modo più gentile per definire la questione. Per il resto erano due estranei, o quasi.
Invece in un’ora ha parlato a quel ragazzo più di quanto abbia fatto con me in undici anni.
Stavano sbagliando entrambi?
“Comunque il signor Mustang è stato gentile con me – disse con convinzione – sa, signorina, mi ha anche detto che gli potevo dare del tu, ma io ho rifiutato: sarebbe stato maleducato. E’ vero che ha sedici anni, ma è comunque un ospite.”
“Molto bene, Riza, è stato il miglior modo di agire.”
“E anche se ho dovuto sistemare la stanza per lui sono riuscita a fare tutti i compiti che mi aveva assegnato.” lo disse con urgenza, arrivando persino a tendere il quaderno, come se sentisse l’esigenza di cambiare argomento e rituffarsi nella quotidianità dello studio.
“Bene, allora controlliamoli.”
Per fortuna che la signorina Elliot la capiva meglio del previsto.
 
Che Berthold Hawkeye avesse instaurato un buon rapporto con il suo giovane allievo apparve chiaro sin dai primi tempi. Dopo colazione il giovane Mustang si chiudeva nello studio con il maestro e ne usciva solo all’ora di pranzo. Finito il pasto si recava nella sua stanza e proseguiva a studiare fino a quando Riza non lo chiamava per la cena.
Si inserì così bene nella quotidianità di quella villetta che persino la ragazzina, dopo qualche settimana, si rese conto che era come se quel giovane ci fosse da sempre. Era silenzioso, discreto; le poche occasioni che si incontravano, come la colazione, era sempre gentile: la aiutava a sparecchiare e ad apparecchiare, magari mentre buttava un’occhiata ad un quadernetto di appunti che portava sempre con sé. A volte, se non era troppo preso dai suoi studi, le chiedeva come andava con le varie materie che stava studiando, o le raccontava qualcosa di Central City, città dove era vissuto per diversi anni assieme ad una sua zia.
A Riza quelle brevi chiacchierate piacevano: era interessante sentire parlare della capitale in un modo del tutto diverso da come la descrivevano i libri. Le parole di quel ragazzo erano una nuova forma di evasione e conoscenza a cui si abituò molto in fretta: una sorta di aggiunta alle sue lezioni scolastiche.
Persino la signora Berth, dopo una prima reazione di scandalo, dato che non si era mai visto uno straniero, nemmeno un parente, che si insediasse con così tanta facilità a casa di uno di loro, si abituò a lui.
“Ciao, Riza, oggi bucato?” la salutò una domenica mattina di inizio dicembre, mentre la ragazzina stendeva i panni appena lavati.
“Buongiorno, signora Berth… sì, come ogni domenica: meno male che oggi c’è un bel sole.” rispose educatamente lei, recuperando dalla tasca della gonna alcune mollette per appendere una maglietta dell’allievo di suo padre.
“E come procedono le lezioni del giovanotto vostro ospite? Non lo si vede mai in giro.”
“Studia tanto – ammise Riza – la mattina con mio padre e poi il pomeriggio per conto suo. E’ molto concentrato, credo che papà sia felice di lui.”
“Si sta comportando bene con te?”
“Sì, certo – lanciò un’occhiata perplessa alla vicina di casa – ci parliamo poche volte, specie durante i pasti: è sempre molto educato e gentile. A volte mi aiuta anche a sparecchiare, quando non deve correre a studiare.”
“Ma senti – chiese ancora la signora Berth, appoggiandosi con curiosità alla staccionata di legno – non si sa proprio niente di lui?”
“Mi ha detto che è nato ad East City, ma poi è andato a vivere con una sua zia a Central City. Forse è per questo che ha cercato mio padre come maestro – si sorprese a riflettere Riza – del resto non siamo troppo lontani da East City. La signorina Elliot va ogni estate a trovare i suoi parenti… anche se il viaggio nel carro è davvero lungo: almeno quattro ore.”
I suoi occhi castani corsero all’orizzonte, a quelle colline dietro le quali sorgeva quella città, così vicina e così lontana. All’improvviso le sembrò di vivere in un posto senza tempo, in una surreale bolla che isolava tutti loro dal resto del mondo.
Almeno fino a quando è arrivato lui.
Adesso quei luoghi lontani le sembravano più a portata di mano, anche se la sua timida anima non voleva lasciare la sicura solitudine di quel piccolo gruppo di case a poca distanza tra di loro. Lì c’era la signorina Elliot, la signora Berth, il cimitero dove riposava sua madre. Era tutto quello che le bastava, quello che era riuscita, con tanta fatica, a far adattare alla sua piccola persona.
Roy Mustang era semplicemente una ventata di novità, come la fresca brezza autunnale che spazzava via il caldo dell’estate.
“Sai per quanto resterà?”
La domanda della signora Berth giunse improvvisa e destabilizzante.
“Non lo so – rispose Riza dopo qualche secondo – a dire il vero non ho la minima idea di quanto si debba studiare per imparare l’alchimia. Non è proprio una materia come le altre, almeno così mi ha spiegato la signorina Elliot.”
“Ah, questo è poco ma sicuro: forse dipenderà dall’allievo.”
“Può darsi.”
“Beh, ora ti lascio, cara: nel pomeriggio passa da me. Sto facendo la conserva di more e ne tengo da parte un bel barattolo per te.”
“La ringrazio!”
Rimasta sola, la ragazzina riprese a stendere di buona lena, fino a quando non rimase con una molletta in mano. Osservò con aria assorta il lenzuolo bianco davanti a lei che si agitava per il vento, quasi a volersi liberare e poter volare via, come uno strano, grande, volatile.
Prima o poi sarebbe successo, se lo sentiva. Il signor Mustang sarebbe andato via: avrebbe imparato tutto quello che doveva sapere sull’alchimia e sarebbe tornato nella grande città. Le sarebbe dispiaciuto, certo, ma non c’era niente da fare.
“Ehi, Riza! – la sua voce, manco fosse stato evocato, la chiamò con urgenza – oh no, hai già fatto il bucato!”
“Sì – annuì, girandosi verso l’ingresso di casa e vedendolo avanzare verso di lei con aria desolata – ha dimenticato di darmi qualcosa, signor Mustang?”
“Che disastro, i pantaloni! – sospirò lui, andando davanti ad un paio di pantaloni scuri stesi con diligenza – Avevo lasciato un paio di fogli di appunti nella tasca.”
“Li ho messi nella sua scrivania, signore – avvisò Riza, trattenendo un sorriso davanti a quell’espressione sconsolata – mi sono premurata di controllare se nelle tasche c’era qualcosa prima di lavarli.”
“Sul serio? – lui si girò a guardarla con gratitudine: in momenti simili il suo viso avvenente sembrava più giovane del previsto e si faticava a credere che avesse già sedici anni – Grazie mille, sei la mia salvatrice. Ti devo un favore enorme! Stasera le stoviglie le lavo io, promesso!”
“Non è il caso, non…” iniziò la ragazzina.
Tuttavia il suo ospite era già corso dentro casa a recuperare i preziosi appunti.
Guardando quell’unica molletta nella sua mano, Riza sospirò di nuovo.
Se fosse successa una cosa simile con suo padre, di certo non l’avrebbe ringraziata con tanto calore.
“… nessun genitore può pretendere che il proprio figlio segua la medesima strada. A volte succede a volte no: questo non ti sminuisce affatto come persona.”
Le parole della signorina Elliot le tornarono in mente.
Sapeva che era la verità, sapeva che era così. Tuttavia era impossibile non chiedersi per quale motivo un perfetto straniero, in così poco tempo, l’avesse ampiamente superata nella scala di valori di suo padre.
  
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