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Autore: itsuselessbitch_    14/12/2015    1 recensioni
Louis Tomlinson è il rappresentante d'istituto, amato da tutte le ragazze e invidiato da tutti i ragazzi. E' gentile, disponibile, sempre vivace e pronto ad aiutare gli altri. Forse è questo che fa innamorare Harry Styles, chiuso in se stesso, solitario e taciturno; nonostante il suo carattere introverso, troverà il coraggio di parlare con lui, fino a diventare amici. Poi, alla Festa d'Autunno, il mondo di Harry verrà ribaltato completamente, cambiando la sua esistenza.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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(voglio essere egoista)








Osa metterti contro di me un'altra volta, e giuro che ti farò passare l'Inferno.

Te lo giuro. Sei morto.

Un pugno colpisce Paul in pieno viso. La sua faccia sembra gonfiarsi al mio tocco, diventa quasi buffo, ma non ho voglia di ridere perché l'angoscia mi sta schiacciando come un'enorme pietra. Poi un altro, un altro ancora, mille pugni, così violenti che la sua figura continua a deformarsi fino a scoppiare in coriandoli di cenere che sembrano rappresentare il male che c'è in lui. Oscurità, rabbia, disprezzo… una parola si libra in aria, mi si para davanti agli occhi come se fosse predestinata a formarsi all'altezza del mio sguardo.

Paura.

Un pensiero oppressivo mi attraversa la mente, ma tento subito di scacciarlo via. E' impossibile che una persona tale sia in grado di provare sentimenti come la paura. D'altronde, è un'emozione debole, che possono avvertire solo i vigliacchi. Lui non sa di esserlo, perciò non avrebbe senso. E' solo un sogno: forse ho mangiato troppo e il cibo mi è rimasto sullo stomaco. Scaccio via quella piccola vocina che mi comunica che anche i più forti possono avere un lato nascosto.

Guardo Louis, vedo la mia mano che cerca di raggiungerlo, ma Paul si riforma in un secondo, e io devo nuovamente prenderlo a pugni. Questo processo si ripete varie volte, poi capisco che non riuscirò mai ad arrivare a Louis finché in mezzo ci sarà Paul. Perché è apparso “paura”? Quale paura dovrebbe avere un idiota come lui? Paura di essere superato da persone che, a parer suo, non meriterebbero tanto successo? Sto cercando di non focalizzarmi troppo su quella parola, ma è inevitabile. Per la quarta volta di seguito faccio esplodere Paul, e per un attimo mi fa sperare di avere la possibilità di avvicinarmi a Louis, perché non si sta più rigenerando. Poi, appena faccio un passo in avanti, incrocio il suo sguardo maligno. Perché devo ripetere la stessa sequenza fino alla nausea? Questo sogno sta forse tentando di comunicarmi qualcosa, come… finché ci sarà Paul, non potrai arrivare a Louis? E non è inteso nel sogno, penso sia riferito alla vita reale. E' impensabile, ma possibile: sto cercando di aiutare me stesso.

Un urlo mi riempie le orecchie.

Paul grida. Grida così forte che la mia visuale si appanna, come se stessi per svenire. I sensi mi abbandonano lentamente, cado per terra. Chiudo gli occhi perché so che farà male scontrarmi col pavimento, ma prima che questo accada, mi accorgo che la stanza è cambiata, e un lenzuolo soffice accoglie il mio corpo.

Sono su un letto. Guardo l'ambiente, è una stanza buia, alla mia sinistra c'è un comodino con una lampada, alla mia destra… Louis che dorme.

Non ha la maglia. Osservo il suo corpo magro e liscio mentre respira lentamente, immerso in un sonno profondo. Sto sicuramente sognando, ma preferirei non svegliarmi, perciò rimango lì, appoggiandomi ad un braccio per potermi compiacere di quella visione paradisiaca. Louis si gira e finalmente lo posso vedere in viso, un po' stanco e consumato, ma sempre meraviglioso, dolce, ammaliante. Il suo petto si muove in modo regolare, mi incanto a seguire il suo ritmo delicato.

Apre gli occhi. Il blu oceano rimane luminoso nonostante il buio della camera. Allunga un braccio e mi sfiora la pelle, sorride. «Non lasciarmi solo.» sussurra. Io scuoto la testa, non potrei mai farlo. Improvvisamente, inizia a piangere, e io non so come reagire. «Lo farai...» si siede sul letto e le lacrime cadono sul lenzuolo. Mi alzo anche io e cerco di tranquillizzarlo.

«Perché dovrei farlo, io… non potrei mai...»

Evita il contatto. «E' colpa tua se adesso tutti sanno che sono gay!» sbraita.

Sono allibito. Queste parole… in fondo me le aspettavo, anzi, ero sicuro che prima o poi avrei sentito la sua voce pronunciare quella che è la verità. Lo sappiamo entrambi. Eppure sento che c'è qualcosa di sbagliato. Sento che la voce che sto ascoltando non è quella di Louis, ma la mia. Quell'istante in cui chiudo gli occhi, basta per farlo sparire, e ritrovare al suo posto uno specchio in cui si riflette la mia immagine. Ho gli occhi lucidi, non mi rendo conto che la mia bocca continua a muoversi. «E' colpa tua.» lo ripeto, e anche se tento di farmi smettere non riesco, non ho il controllo delle mie labbra. «Sei la sua rovina...»

Colpisco più forte che posso il vetro. Si rompe al mio tocco, facendomi sanguinare le nocche. Guardo un frammento dello specchio, proprio quello che inquadra la mia bocca, che non ha smesso di parlare imperterrita, nonostante la testa la zittisca invano. «Muori, muori, muori!»

“Basta” mormora l'Harry ancora sano nella mia mente.

«MUORI!».

 

Mi alzo di scatto. Sono bagnato fradicio, sento il sudore che mi cola dalla fronte e dai riccioli scompigliati. Ansimo freneticamente, come se avessi corso per una maratona, mi sento sfinito nello stesso modo, eppure non mi sono mosso. Era solo un incubo. Tuttavia sembrava così concreto… no, quando ho visto Louis ho capito che non poteva essere la realtà. Era stato bello fino a quando non mi aveva urlato contro. Guardo l'orologio, sono le 3:05 di notte, e ormai non ho neanche voglia di riaddormentarmi. Ho in testa il viso di Paul che mi minaccia, quello di Louis che condivide il mio stesso letto, le mie labbra che gridano “muori”. Tutto l'insieme mi mette un'angoscia tale da decidere di liberarmi dal peso delle coperte e andare in bagno a sciacquarmi la faccia. Cerco di camminare lentamente per non svegliare mia madre, arrivo al bagno e accendo la luce. Davanti a me c'è uno specchio, e inizialmente ho paura di guardarmi. Sono ancora scosso da quell'incubo. Mi butto l'acqua sul viso e sento un sapore metallico, perciò decido di alzare gli occhi. Non me n'ero accorto: mi sta sanguinando il labbro, ho un taglio proprio in mezzo. Provo a toccarlo pentendomi subito dopo a causa del forte dolore. Devo essermi morso mentre dormivo, a volte quando sono stressato mi sfogo in questo modo. Mi asciugo la faccia e apro la porta per uscire, ma all'improvviso mi blocco. Non riesco a spegnere la luce, è come se avessi una patina sugli occhi che mi impedisse di raggiungere l'interruttore correttamente. Inizia a girarmi la testa, dondolo un po', non capisco cosa stia succedendo e sono spaventato. Sento il cuore che batte così forte che potrebbe scoppiare da un momento all'altro. Il respiro diventa affannato, tento di inspirare profondamente, ma l'aria si blocca a metà. Mi porto una mano al cuore, credo di star per morire.

Mentre questo pensiero si impossessa della mia testa, sento le gambe cedere, e cado in ginocchio, tenendomi ancora appigliato alla maniglia della porta. Ho gli occhi sbarrati, il sudore che cola, il cuore che batte all'impazzata, tremo con violenza. Sento il respiro che mi rimbomba nelle orecchie.

Senza neanche accorgermene perdo i sensi.

 

 

Apro di scatto gli occhi e la luce di una lampada mi acceca tanto da costringermi a richiuderli. Dopo essere riuscito ad abituarmi, riapro gli occhi, questa volta più lentamente. Sono in una stanza d'ospedale: pareti bianche, nell'angolo a destra c'è un armadio di legno, alla sinistra invece un vaso con una strana pianta. Vicino a me un comodino con un bicchiere d'acqua. Quando volto la testa verso sinistra sussulto, perché c'è un'asta metallica porta-flebo, il cui tubo arriva fino al mio braccio. Dentro il sacchetto di plastica c'è un liquido trasparente che mi fa venire un brivido lungo la schiena. Mi distraggo quando sento la porta aprirsi. «Ah, Harold. Sei sveglio. Come ti senti?» mi chiede un'infermiera anziana. Ha un paio di occhiali che le scivolano spesso sulla punta del naso, sembra una di quelle vecchiette simpatiche stereotipate. Io annuisco un po' a disagio. «Mh… bene, credo. Anche se non so perché mi trovo qua.»

La signora rimane in silenzio per alcuni minuti mentre controlla la flebo, se sono abbastanza coperto e la mia temperatura corporea. Continua a sorridere, e finalmente riesco a sentirmi più tranquillo in sua presenza. Sembra che stia per parlare e rivelarmi che diamine ho, quando la porta si riapre. Nell'uscio c'è mia madre che respira a fatica, pare che abbia corso per le scale. Si sistema, appoggia la borsa su una sedia vicino al mio letto e mi dona un abbraccio leggermente goffo, ma con quel pizzico materno che mi rassicura. Non succede spesso che mi dimostri affetto, devo ritenermi fortunato. «Harry, mi hai fatta spaventare.» sussurra. Sorrido istintivamente: quindi, per ricevere amore da mia madre, devo stare male? Si allontana per sedersi sulla sedia, poi guarda l'infermiera in attesa di un chiarimento. «Harold, hai avuto un calo di pressione brusco e improvviso dovuto ad una mancanza di vitamine, zuccheri e uno stato febbrile. Quando sei arrivato, la tua temperatura arrivava quasi ai 40. Non stavi mangiando in questi giorni, vero?».

Abbasso lo sguardo senza rispondere. Non pensavo che saltare qualche pasto potesse essere così grave. Effettivamente è così: non mangiavo da quasi una settimana, a causa del nervosismo, dello stress e della distrazione. Non facevo altro che pensare a Louis e alla nostra situazione, anche prima che ci baciassimo nell'aula d'arte. All'improvviso mi torna in mente quel momento, che appare come un ricordo lontano, quando invece sono passati solo due giorni. Mi viene da sorridere ripensandoci, sento una strana felicità nel petto, un senso di pienezza che non avvertivo da tantissimo. Chi l'avrebbe mai immaginato? Lui steso sotto di me, io che potevo baciarlo liberamente perché anche lui lo desiderava. Desiderava baciarmi. Vengo riportato alla realtà dall'infermiera che mi tocca la spalla. «Harold, sai bene che non mangiare peggiora il tuo stato. Nella tua cartella clinica c'è scritto che soffri spesso di carenza di vitamine, sin da quando sei piccolo. Inoltre sei un bersaglio facile per i virus a causa della tua salute cagionevole. Non metterti in pericolo da solo, d'accordo?» afferma la signora. Annuisco imbarazzato.

Mi ha praticamente rimproverato perché non tengo al mio fisico, e me lo merito, ma come posso stare attento a me, quando quello che ne ha bisogno è Louis? Mi sarei sentito come se non lo stessi proteggendo abbastanza. L'infermiera sparisce per qualche minuto, per poi tornare con un piatto di minestra su un vassoio. Lo indica e mi interrompe subito con un cenno della mano, quando cerco di dirle che non ho fame. Suppongo che dovrò mangiare per forza.

La signora mi lascia solo con mia mamma.

«Quando ti ho visto steso sul pavimento del bagno, io… ho pensato di essere stata davvero una cattiva madre. No, anzi, lo sono. Scusa.» sussurra lei, senza guardarmi.

Sono sinceramente colpito: non pareva così preoccupata da quando a dieci anni mi ero rotto il braccio cadendo dalla bicicletta. Aveva anche pianto… chissà se stavolta lo ha fatto? Era riuscita, per la prima volta da quanto ricordo, ad insultarsi e ad ammettere di aver sbagliato. Le sorrido quando noto i suoi occhi lucidi che mi osservano timidamente. «Grazie mamma, ma stai tranquilla, sto bene. In realtà non ricordo nemmeno cos'è successo.»

Mia madre prende un grosso respiro e sembra che raccontare sia davvero dura per lei, e inizio a sudare freddo perché quell'atmosfera di angoscia non mi piace per niente. «Erano le tre di notte e io stavo dormendo, quando… ho sentito un tonfo violento, e ho pensato che qualche ladro fosse entrato in casa. Sono corsa subito a controllare, ma quando… quando sono passata per il corridoio, ho visto qualcosa per terra. Eri steso sul pavimento privo di sensi, con la testa che sanguinava. Ho pensato di morire in quel momento.»

Forse stava esagerando, anzi, era sicuro che stesse ingigantendo la questione, d'altronde l'ha sempre fatto. Da come l'ha descritta pare una scena del crimine; nonostante la sua esasperazione dei fatti, continuo a sorridere, perché finalmente mi sento amato da lei. Sento che sta iniziando a capire seriamente come mi sono sentito per tutti questi anni, a sentirla parlare male di mio padre, dell'importanza dei soldi, lamentarsi della mia nullafacenza continua, sottovalutandomi ogni volta che ne aveva l'occasione. Alza una mano e mi accarezza il viso.

«Senti, Harry… sono andata alla tua scuola.» annuncia dopo un po' di silenzio. C'è solo il ticchettio dell'orologio. Perché hanno contattato mia madre a scuola? Non credo di aver fatto così tante assenze, né ho preso voti negativi recentemente. La fisso senza capire, e il suo vacillare mi innervosisce. «No, non è nulla di allarmante! E' che mi hanno convocata perché non sei andato a scuola oggi, e da quanto ho capito, un mese fa hai fatto le veci da rappresentante della tua scuola. Stamattina ti avrebbero chiesto se potevi presentarti ad una ulteriore assemblea per riferire quello che è stato detto nella riunione con gli altri alunni riguardo la tua classe, e inoltre pensavano di nominarti ufficialmente rappresentante, ma non ti hanno trovato. Hanno chiesto ai tuoi compagni, ma nessuno di loro è in stretto rapporto con te, così mi hanno contattata.»

Tiro un sospiro di sollievo. Perché l'unico giorno in cui sono assente, tutti quanti hanno bisogno di me? Pare quasi fatto apposta, ma lascio correre e la ringrazio. Sono incredulo, ha davvero viaggiato quaranta minuti in macchina solo per raggiungere la mia scuola? Ho quasi paura di vederla tornare come prima, fredda e distaccata. Rimane immobile mentre fissa le coperte che mi avvolgono, poi si illumina all'improvviso, raddrizzandosi sulla sedia. «Ah, sì! Mi sono ricordata una cosa importante: mentre parlavo con la professoressa, un ragazzo si è avvicinato per ascoltare la conversazione. Appena ho raccontato cosa ti è successo, è sbiancato. Mi ha guardata con gli occhi sbarrati per alcuni secondi, poi afferrandomi il braccio ha esclamato “Adesso come sta?!” come se fosse questione di vita o di morte. Te lo assicuro, mi ha fatto paura perché dava l'impressione di essere posseduto!».

Non ho sentito l'ultima frase che ha detto.

Le orecchie rifiutano qualsiasi altro suono che esca dalla sua bocca.

Quel ragazzo… può essere solo lui. C'è una parte di me che tende a non farsi illudere, e insiste a ripetere che non è Louis. L'altra invece è così speranzosa che riesce a sovrastare il pessimismo, facendomi scoppiare a ridere. Sento di essere rosso in faccia, ma sono così felice che non m'importa. Anche quando non ci sono, Louis pensa alla mia salute. Me lo merito davvero? Posso accettare questa nuova realtà? Sono la persona giusta per lui?

Mia madre mi guarda perplessa, senza capire. Oh, mamma, non potrai mai comprendere la gioia che sto provando. Mi sento tremare, cerco di non muovermi troppo perché rischio di far staccare la flebo, ma proprio non riesco a trattenermi. Alla fine mia mamma mi blocca e mi fa stendere perché, a detta sua, sono impallidito. «Mi spieghi che ti prende?» sbotta lei.

«Ti ha detto come si chiamava?» la ignoro e le pongo una domanda decisiva.

Lei si allontana bruscamente perché mi sono rialzato in fretta e le ho appoggiato una mano sul braccio. Sospira e alza gli occhi al cielo, probabilmente cercando di ricordare. Quando una persona non le interessa, è solita dimenticarsi l'identità di essa, e a volte anche il viso. «Ha detto di essere un rappresentante. Forse… Lewis? Oppure Liam?».

Ridacchio. Mi sento così sollevato… per un attimo ho davvero pensato che non fosse lui, ma riflettendoci, chi altro si sarebbe interessato a me? Non conosco nessuno così bene quanto lui, perciò mi faccio coraggio e per una volta mi concedo di essere egoista. Voglio la sua attenzione.

«Mi ha chiesto dov'eri, io gli ho detto all'ospedale, e lui è impazzito! Mi ha ringraziata e ha iniziato a correre verso le scale che portano al piano terra. Non penso l'abbiano fatto uscire a quell'ora, ma probabilmente era il suo intento. Ma chi è questo tizio, eh?» aggiunge poi, quando vede che sono più calmo. Tento di frenare le mie risate, mentre ripenso al laboratorio d'arte. Alla cattedra. Alle sue labbra umide sulle mie. Le sue mani che stringono la mia felpa. Al suo corpo sotto al mio. Il suo ultimo bacio a stampo dopo avermi ringraziato. Il suo sguardo dolce. I suoi capelli scompigliati. I vestiti stropicciati. Il suo sorriso.

«E'… un mio amico.»

 

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Non sono rimasto così tanto in un ospedale da quando mi ero rotto il braccio. Le mie attività preferite, finora, sono: fissare il muro, contare i minuti, rotolarmi nel letto. Credo che mia madre non abbia neanche pensato a portarmi il cellulare, almeno con quello mi sarei annoiato un po' meno. Se n'è andata perché doveva lavorare, altrimenti sarebbe rimasta tutto il giorno nonostante le avessi detto che poteva tornare a casa perché stavo bene. Da quanto mi è stato detto, dovrò rimanere almeno fino a domani mattina, per reintegrare tutte le vitamine di cui ho bisogno. Questo vuol dire infinita noia.


 

Tic tac, tic tac. Sono le 14:30 e io ho appena mangiato qualcosa che sembrava minestrone di verdure, ma non ne sono certo perché aveva uno strano colore. L'ho mangiato in ogni caso perché stavo morendo di fame. L'infermiera dovrebbe tornare a momenti con la frutta, perciò non posso fare altro che aspettare. Quando la porta si apre, intravedo un vassoio, e mi preparo un sorriso abbozzato per apparire gentile. «Ah, graz… ». Smetto immediatamente di parlare. La signorina entra e appoggia il vassoio con la frutta sul mio comodino, ma io neanche lo guardo. «Harold, hai visite. Prego.» annuncia l'infermiera uscendo poi.

Forse sono svenuto di nuovo e me lo sto sognando, ma apparentemente davanti a me c'è un ragazzo di diciotto anni, occhi azzurri, capelli castani leggermente arruffati, labbra sottili, respiro affannoso. Recupera energie, deglutisce profondamente e poi mi fissa senza parlare. Nessuno dei due sa cosa dire. Io neanche mi aspettavo una sua visita, ovvio. Regge lo zaino su una spalla, il giubbotto è praticamente per terra, pare che sia appena uscito da scuola solo per raggiungermi in ospedale. Mi risveglio bruscamente dall'incredulità di averlo davanti, indico la sedia, il comodino, l'attaccapanni, senza connettere parole di cortesia come “Prego, appoggia pure la tua roba qua!”, mi limito a balbettare. Fortunatamente Louis capisce, fa un cenno col capo e va a sistemare la giacca e lo zaino per poi sedersi accanto al mio letto. Non ho il coraggio di rivolgere lo sguardo verso di lui, poiché ogni volta che poso i miei occhi sul suo viso, rivedo quelle scene del giorno prima. Sicuramente non è una brutta visione, ma è imbarazzante. «S-stai… meglio?» mormora.

Annuisco con un sorriso impacciato. Se fossi più sicuro di me, avrei già tirato fuori quell'argomento. Spero che lo faccia lui al posto mio. «Quando ho sentito tua madre stavo per sentirmi male, sai?» tenta di ridacchiare con nonchalance, ma quello che ottiene è un verso nervoso. Riesco a percepire la sua ansia, e mi sento quasi onorato di esserne io la causa. «Grazie mille, Louis.» affermo, e lui sussulta. Posso controllarlo solo pronunciando il suo nome? Interessante.

«Ascolta, Harry! Io… volevo approfittare di questo momento per, ecco… per parlare di… quello. Quello, hai presente? Quello che è successo due giorni fa. Però non sentirti obbligato se non vuoi affrontare una cosa simile, ok?!»

Penso di non averlo mai sentito dire così tante volte “quello” in una sola frase. L'ultima asserzione la traduco con “Nemmeno io vorrei farlo ma dovremmo”. Sussurro un fievole: «Ok...» e lo lascio parlare. Louis inizia ad agitare le mani, si morde il labbro inferiore, si scompiglia i capelli. Sta cercando le parole giuste, e questo mi fa cadere nel panico, perché quando qualcuno riflette così tanto, non significa mai nulla di buono. Forse vuole dirmi che quel bacio è stato un enorme errore e che non prova niente. E' una cosa che mi terrorizza.

«Ti sembrerò un idiota perché non so davvero da cosa iniziare. Voglio dirti tante cose però sarò ripetitivo… beh, grazie, innanzitutto. Grazie per le tue parole, perché mi hai davvero aiutato. E… grazie per… quella cosa successa dopo, perché non mi ero mai sentito così bene con qualcuno, e mi ha schiarito le idee, ecco… non so se pensi lo stesso, ma vorrei essere sincero con te, solo che… scusami se sono una lagna continua. Non voglio perseguitarti con i miei problemi… sono così imbranato che non riesco a riordinare nemmeno i miei pensieri.»

Si tormenta le mani. Tra una parola e l'altra inspira appieno, si schiarisce la voce con un colpo di tosse. Non posso fare altro che guardarlo, senza sapere cosa pensare. Le domande girano nella mia testa.

Merito davvero quelle parole?

Merito la sua gratitudine?

Merito una persona così meravigliosa nella mia vita?

Voglio essere egoista. Posso, per favore?

Non chiedo altro. Non pretendo amore eterno, una vita facile, felicità giornaliera. Desidero solo di poter scegliere senza pensare alle conseguenze, senza aver paura del futuro che mi aspetta dietro la porta, senza tirarmi indietro perché potrebbe attendermi un brutto destino. Esigo almeno questo.

Chiudo gli occhi e allungo una mano verso la sua. Appena la raggiungo, lo sento sobbalzare, sta tremando. I nostri occhi si scontrano nuovamente, e io sento quegli stessi sentimenti che provavo mentre lo baciavo. «Credimi, sei più capace di me nell'esprimere te stesso. Riesco solo a dirti… “Anche io”. Quanto sono incapace, eh?» mormoro. Mi viene quasi da piangere perché non riesco proprio ad aprire la porta. E' davanti a me: enorme, agghiacciante, spaventosa. Sento la sua mano che mi accarezza la pelle, è un movimento rilassante. «Allora siamo in due.»

Stiamo in silenzio per un paio di minuti, lui continua a scorrere le dita sul palmo della mia mano, mi fa il solletico ma allo stesso tempo mi rende così tranquillo che rischio quasi di addormentarmi. Dopo un po' mi accorgo di essermi appisolato, e lui è ancora lì con un sorrisetto dolce sul viso. «Harry...» mi chiama in seguito. «Sì?».

«Posso… posso baciarti di nuovo?».

Sento un fuoco d'artificio che mi esplode nel petto.

Mi manca quasi l'aria.

«Non devi neanche chiederlo...».

Louis si avvicina, appoggiandosi al bordo del letto. Esita un po' prima di raggiungere il mio viso. Chiude gli occhi e mi bacia delicatamente, come se avesse paura di farmi del male. Appena cerca di approfondire, però, m ritraggo dolorante. Mi tasto il labbro e ricordo di essermelo morso durante il sonno, provocandomi un taglio. «Diamine, proprio adesso.» commento, e Louis ridacchia imbarazzato. E' leggermente rosso in viso.

Mi guarda e sorride, i suoi occhi azzurri sembrano più chiari, adesso che li osservo meglio. Ha varie sfumature blu, celesti, turchesi. Sono così meravigliosi che non riesco a bloccarmi: gli prendo il viso tra le mani e affondo le labbra nelle sue. Lui cerca di allontanarsi esclamando: «Harry, Harry! Ti fai male!» ma non m'importa. Ho solo voglia di baciarlo all'infinito. Finalmente riesce a fermarmi, appoggiandomi le mani sulle guance. «Smettila, scemo. Peggiorerai il taglio.» ridacchia.

«Al diavolo il dolore.»

Louis rimane fermo con un'espressione incerta. Mi bacia ancora senza spingere troppo. «Harry. Dovevo dirti un'altra cosa.» Sento il suo respiro sulla mia bocca mentre parla. Annuisco con gli occhi chiusi.

«Io… ehm… Harry, tu mi...»

La porta si apre.

  
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