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Autore: DarkLatias2000    19/12/2015    0 recensioni
La figura dell'Oscuro leggendario Darkrai è da sempre avvolta in una coltre di mistero; nessuno ha mai saputo veramente quale sia la sua vera natura: spietata? Fredda? O semplicemente piegata ad una realtà spietata che non può accettarlo?
I fatti rivelati nell'Ascesa di Darkrai' sono estremamente contraddittori. Inizialmente quest'essere sembra avere un'indole ostile, ma ciò che è scritto nel diario di Godey sembra spiegare che si tratta solo di una mera apparenza: si tratta forse invece di un essere solitario e ferito, rifiutato da mondo a cui appartiene e che tuttavia sembra incapace di sopportarlo, che ha forse più bisogno d'amore di quanto non lo abbia qualunque altra creatura vivente che lo abita?
Cosa ha determinato l'incontro tra l'Oscuro leggendario e una ragazzina diversa e innocente che si rivelò la chiave per salvare la propria patria dalla furia dei titani leggendari del Tempo e dello Spazio?
Ciò che mai fu raccontato del passato fra Darkrai e Alicia è qui raccolto e ideato dalla mia immaginazione, se siete pronti a scoprirlo, procedete pure...
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Darkrai, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Anime, Videogioco
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“Lo sai che ore sono, Al?”
Siamo alle solite.
Due occhi che la fissavano, trasudando una luce formata da un composto di irritazione, severità, preoccupazione e rassegnazione, incorniciati da un volto impegnato in una lunga battaglia con le rughe, completo di barba e capelli bianchi, che tuttavia si ostinavano ancora ad opporre una dura resistenza alla calvizie. Lo sguardo di un familiare preoccupato, come al solito, per le sue uscite dalla durata priva di regole, dettate solo e unicamente dal suo piacere di vivere nella sua vera e unica madre: la natura, in tutte le sue forme, con tutte le sue meraviglie, libera dalle imposizioni e dalla negatività della gente, unica in grado di farle ritrovare la libertà del proprio spirito.
“Così mi fai sembrare un maschio.”
“Non cambiare discorso.”
A occhio e croce, dovevano essere circa le 8:40 della sera, non serviva un orologio per intuirlo: bastava guardare il blu profondo, che andava via via tinteggiandosi di una tonalità sempre più scura, del cielo sopra le loro teste. E, come al solito, tornava a ripetersi la solita storia: si era superata un’altra volta, per l’ennesima volta, con il limite di tempo impostole per restare fuori. Era circa la quinta occasione, quella settimana, tutto, tranne che una novità. Da anni frequentava quel posto, non aveva smesso un solo giorno di visitarlo, ormai era entrato in simbiosi con lei: fronde dalle grandi ombre, foglie che arrivavano a raggiungere le dimensioni di un melone e di migliaia di diverse sfumature di verde, una sfilata di bacche di ogni forma e colore ad ogni angolo, trecce e ghirlande delle più svariate forme, rampicanti tutti attorcigliati in deliziose decorazioni vegetali intorno ai rari segni del passaggio dell’uomo in quel cuore di natura pura. Il fatto era che lei stessa si rifiutava di contare il tempo mentre si trovava in quel concentrato di bellezza della flora della sua città natale, lontana dalla civiltà che le stava stretta, in compagnia invece del rumore dell’acqua che scorre, della brezza birichina che le faceva dimenticare ogni pensiero appiccicoso e che si divertiva a ricoprirle il viso di foglie fragili quando lei si limitava a riposare il fisico sulla distesa di fili d’erba, della lunghezza di almeno due dita. Ritrovava la libertà in compagnia del pulsare irresistibile della vita al suo stato più puro, della fauna multicolore in continuo movimento, della magia frizzante e onnipresente che risiedeva in gran parte di essa: i Pokemon. Al loro stato più naturale e libero, splendide creature dalle centinaia di varietà multiformi, che seguivano l’equilibrio di un ecosistema superiore, la rendevano partecipe di un miracolo continuo che la maggior parte della gente neanche si rendeva conto di avere: i giardini di Alamos. In confronto a tutto questo, non le importava del buio o di quel ridicolo limite di tempo: lo zio avrebbe dovuto saperlo bene, la conosceva come ben pochi altri. Ma lui, come al solito, si sforzava di ignorare tutto questo e di recitare la parte del tutore severo e rispettoso delle regole nella maniera più assoluta.
“Senti, piccola, il coprifuoco inizia alle nove, vedi di non scherzarci troppo. Se ti fai beccare dopo quell’ora…”
E, ancora una volta, continuava a considerarla troppo estranea a quella natura per considerarla al sicuro da essa: come se non fosse cambiato niente, fingendo di non aver mai conosciuto le ragioni che lei aveva per rimanere indipendente da uno vincolo come quello. Era proprio vero, il lupo perde il pelo, ma non il vizio:
“Non ho mai fatto, né mai lo farò, qualcosa di così pericoloso, laggiù, lo sai. Ti prego, non chiamarmi più così spesso ‘piccola’. Ho tredici anni, ormai.”
Il suo anziano tutore cambiò espressione, abbandonando il classicismo tipico dell’aria del genitore preoccupato per la lunga assenza dei figli, assumendo più quella sincera di coloro che conoscono bene il rischio a cui ciò a cui tengono è più vicino: “Non è il coprifuoco in sé che mi preoccupa, è il perché lo hanno imposto la cosa che dovrebbe importarti!”
Il perché. Lo conosceva come le sue tasche da anni, il perché. Ed era l’unica per la verità a conoscerne la vera causa, ma questo era un segreto fra loro due: e questa causa era sempre rimasta una cosa che lui, dopotutto, non sarebbe mai riuscito a capire, o almeno involontariamente, anche con tutte le informazioni del mondo. Quindi era inutile tentare di rispiegargli da capo quella situazione. D’altro canto, lui non lo faceva certo con cattiveria: era solo affetto, come ogni familiare che si rispetti, da una genuina iper-protettività. E a una parte di lei tutto sommato questo atteggiamento affettivo non dispiaceva. Tuttavia continuava a sembrarle innaturale tutta quella prudenza, probabilmente era una questione di abitudine. Non era da molto tempo che lei e l’intera popolazione della città avevano dovuto cominciare a sottostare a quel coprifuoco ferreo, totalmente privo di eccezioni, costretti a rientrare prima delle nove e a barricarsi in casa per tutta la notte. Il motivo era chiaro: nascondersi, proteggersi da ciò che viveva là fuori. Apparentemente, quel qualcosa che lei conosceva meglio di chiunque altro era attivo solo durante la notte, qualcuno avrebbe potuto pensare che si trattasse di uno spirito di quelli presenti nelle leggende popolari. Si trattava di un qualcosa di troppo evasivo, scaltro e antico da poter essere contrastato con convenzionali armi umane. Lei ne era a conoscenza da tempo, e non molto tardi se ne erano dovuti rendere conto anche tutti gli altri: non erano stati pochi i cacciatori che erano partiti per farlo fuori, e tutti avevano finito per accorgersi ben presto che, davanti a quell’essere, il più grande predatore del mondo poteva trasformarsi nella preda più inerme. La rinuncia era stata immediata. E a questa soluzione erano potuti unicamente, semplicemente giungere: trascorrere in questo modo tutte le sere e tutte le notti, al fine di garantire la sicurezza massima mentre si pensava a un modo definitivo per liberarsi di una creatura del genere. Così trascorrevano i giorni, ad Alamos, tutti chiusi nelle loro tane, decisi a non mettere piede in un posto che non conoscevano, in cui risiedeva il loro terrore perpetuo.
Tutti, tranne lei. Era nata per respirare l’aria aperta, lasciarsi pettinare i riccioli color oro dal vento, rimanere al chiuso non era nella sua natura: e, soprattutto, fin da bambina aveva trovato, in quelle meravigliose foreste che costituivano quasi interamente quei giardini lussureggianti, un posto che leniva e soprattutto arricchiva enormemente la sua vita, che faceva molta fatica ad abbandonare ogni giorno. Come potevano chiederle di rimanere a guardare un simile spettacolo della natura, che aveva il potere di farla rinascere, dietro un vetro ostile che non le permetteva di addentrarvisi? Non era ribelle, non più del necessario, almeno, ma tutto il suo essere si rifiutava di sottoporsi a un impedimento del genere. Per questo lo zio altre volte era andato terribilmente vicino ad arrabbiarsi come una furia, ma non poterlo biasimare non significava che avesse il dovere di obbedire a una regola, nel suo caso, tanto assurda.
“Lo so bene. Se posso osare, anche meglio di te.”
Nell’incrociare di nuovo i suoi occhi fece del suo meglio per trasmettergli tutto ciò che voleva che lui ricordasse: anche lui conosceva benissimo le ragioni di quella situazione, del suo atteggiamento incomprensibile per la maggior parte dei cittadini, e sforzarsi di ignorarle certo non le avrebbe cancellate. E lei, in ogni caso, non voleva che fossero cancellate. Lo zio sembrò finalmente rassegnarsi a quelle consapevolezze reali, che avevano il potere di vanificare ogni suo zelo nei confronti della nipote, e la luce della preoccupazione nel suo sguardo dovette sparire con la coda fra le gambe di fronte a quella realtà innegabile di cui era a conoscenza da tempo: “E va bene, lasciamo stare. Ma regolati, la prossima volta, non voglio che ti succeda nulla di male. Mi fido di te, lo sai, ma quello è una storia ben diversa, credo ti sia ben chiaro il concetto.”
“Lo so molto bene, non preoccuparti per me.” Era una frase così sincera che neanche lui riuscì a mantenere una minima ombra di broncio, e in breve tempo il loro solito rapporto ottimista tornò quello di tutti i giorni: “Vieni, avanti, mangiamo qualcosa per cena.”
“Sì, zio Godey.” Quella risposta ebbe l’ennesimo effetto di fargli battere la mano sulla fronte rugosa con una rassegnazione divertente: “Insomma, Alicia, quante volte devo ripeterti che io, comunque, non sono tuo zio? Si può sapere perché…”
Lei si limitò a liberare un sorriso birichino sul suo viso dai lineamenti delicati, ancora con i tratti innocenti di una bambina: “Non lo so neanche io. Probabilmente perché mi ricordi quello che avrei avuto in condizioni normali.”
Godey si limitò a borbottare qualcosa tra sé, come di consueto, un’altra delle sue abitudini che le faceva venire da ridere: le espressioni che assumeva in quei momenti, nell'istante in cui si rendeva conto di essere totalmente impotente di fronte alle idee e abitudini di un altro, erano di una comicità adorabile: “Per la centesima volta: ammetto che ho accettato di prendermi cura di te quando… è stato necessario. Però questo non significa che abbiamo un legame di sangue, dovresti ricordarti che hai ancora delle origini e una famiglia.”
Neanche in quella frase c’era una minima traccia di cattiveria, tuttavia bastarono quelle poche parole a permettere all'improvviso a un ricordo marcio e cattivo di penetrare nella testa di Alicia senza essere invitato, strappandole di bocca una frase che non avrebbe mai voluto realmente pronunciare: “’Una’ mi sembra un po' un parolone. A questo punto la chiamerei mezza famiglia.” Seguì almeno mezzo minuto di silenzio carico di una consapevolezza malinconica e senza speranze. Purtroppo era stato più forte di lei. Sebbene valesse una certa dolorosità pensare a quell’argomento, non riusciva a sopportare il sentirgli dire cose sulla famiglia che non sapeva. Cattiveria o meno, non aveva diritto di dare sentenze su ciò che era successo, come non poteva negare che quella non era una vera famiglia, anche se lo faceva a fin di bene. Fu con estrema serietà che Godey riprese per primo la parola, anche se lei era abbastanza intelligente da capire da sola che non si poteva lontanamente pensare di scherzare su un discorso simile: “Non credere che non dispiaccia anche a me, piccola. Tuo padre ancora non vuole proprio tornare, e lo capisco. Per quanto riguarda…”
“Ti chiedo scusa. Tempo fa avevamo deciso di non parlare mai di quello che è successo. Sbaglio, forse?”
Era stata abbastanza rapida da impedire che quella conversazione prendesse una piega veramente spiacevole: “Hai ragione, Al. Dai, vieni e non pensiamoci più.”
Il litigio almeno era riuscito a non degenerare. Alicia aveva fatto del suo meglio per mantenere la voce ferma durante quella complicata conversazione, ma anche per Godey era difficile gestire quel discorso. Volle comunque mantenere il broncio per qualche minuto, giusto per ricordargli che mettere in ballo un argomento del genere non era tra i primi posti della sua lista dei desideri, mentre si limitava a venirgli dietro verso casa: “Che preferenze abbiamo stasera per cena?” “Fa un po’ freddo negli ultimi tempi, ci stiamo beccando proprio un bel vento di tramontana. Spero ti piaccia qualcosa di caldo.” “Concordo pienamente.” Non che il clima avesse mai comportato particolari problemi ad Alamos, almeno per quanto riguardava l’ambiente naturale: anche i Pokemon sapevano badare perfettamente a se stessi, c’era sempre una quantità di cibo più o meno sufficiente, e i più sfortunati al massimo si arrangiavano con qualcosa di diverso dalla loro dieta. Persino con quel predatore in giro la situazione, di giorno, sembrava fra le più comuni e normali. Era il buio a produrre l’effetto devastante di rendere il centro abitato una città congelata, abitata unicamente da un silenzio tombale. Ed era allora che lui si decideva a venire allo scoperto. Le tornò in mente la preoccupazione eccessiva di Godey, il che bastò a farle venire quasi da sorridere: a dir la verità, fatta eccezione per lui, che era a conoscenza di tutto da anni, in effetti chiunque avrebbe pensato che lei fosse quella che più, fra tutti, avrebbe dovuto rispettare il coprifuoco. Giovane, sempre disarmata, per di più anche di sesso femminile, l’ultima persona che potesse azzardarsi a violarlo. Invece non aveva alcuna ragione di temere quella situazione tanto scomoda, il motivo di tanta prudenza non le dava alcun timore: dopotutto, lei sapeva perfettamente che quell’essere non l’avrebbe sfiorata con un dito. Per lei era tutto, tranne che un pericolo; semmai la proteggeva, persino. Ma da tempo aveva capito fin troppo bene che la gente aveva le sue idee, e non si poteva fare nulla per cambiarle, almeno non senza una forma di guerra: così si limitava ad obbedire, senza ragioni apparenti, quando il suo unico intento era quello di non creare ulteriori problemi a chi le era rimasto intorno.
Fece appena in tempo a entrare in casa che lo Starly di cui si stava prendendo cura era sfrecciato dritto contro la sua faccia, cominciando come al solito a mostrare il suo vizio affettuoso di beccarle e tirarle ossessivamente i capelli: probabilmente gli ricordavano il nido che da tempo quella bestiola non vedeva, da quando si era beccato di striscio quella pallottola sull’ala che lo aveva fatto cascar giù dal suo adorato ramo come una pera cotta, facendogli dimenticare per un po’ la capacità di volo. Del quale, alla fine, aveva deciso di occuparsi lei, d’altronde il paffuto storno grigio era sempre riuscito a piacerle: “Pulcino, così mi strappi tutti i capelli. Non preoccuparti, ce l’ho, un pettine.”
Fece appena in tempo ad afferrare di peso quel corpicino piumato e a toglierselo dalla fronte che un tuono decisamente poco accogliente fece tremare i timpani di tutti allo stesso modo con cui si usa l’ariete per buttare giù una porta. Starly era inevitabilmente andato nel panico, andandosi a nascondere dritto fra i suoi riccioli in fretta e furia.
E ora chi lo tira più fuori…
“Volevo ben dire. Il tempo peggiora di giorno in giorno,” Borbottò Godey, iniziando a occuparsi della cucina: “Se quel pulcino è così reattivo probabilmente è colpa mia: mica potevo farlo uscire, sarebbe equivalso a un omicidio.” “Me ne occupo io,” Fu la risposta veloce della ragazza, mentre cercava di convincere in tutti i modi la bestiola a staccarsi dal nascondiglio dei suoi capelli: non era la prima volta che si portava dietro un selvatico dai giardini per una provvidenziale cura veterinaria, era un po’ la sua passione segreta, aveva scoperto gradualmente in se stessa una particolare predisposizione alla medicina da quando era piccola. E così, appena le capitava l’occasione, metteva in pratica le sue abilità ogni volta che trovava un qualche animaletto di cui prendersi cura. Godey, come tutti i tutori, inizialmente era rimasto piuttosto infastidito da questa sua mania, ma riconosceva anche che quella ragazza aveva talento, e aveva finito per lasciarglielo fare.
 “Dopotutto è quello che mi sono ripromessa di fare, almeno finché non sarà in grado di volare in maniera perfetta.”
“Bene, perché non mi ha dato retta un secondo, ascolta solo te. Come tutti gli altri, del resto. Vedi un po’ se riesci a farlo stare calmo ancora per un altro giorno, è da questo pomeriggio che svolazza come un matto.”
Non saresti così agitato se non ci aspettasse ancora un lungo periodo di maltempo... non è così?
Alla fine, in un modo o nell’altro, riuscì a toglierselo dalla chioma, cominciando a coccolarlo e avvicinandolo al proprio diaframma, la percezione di un respiro calmo sui cuccioli era contagiosa: “Quante volte ancora dovrò ripeterti di dimenticarti dei miei capelli, palletta di piume? Guarda che a volte fa male, sai?” Un’arruffatina di penne ed ecco che lo Starly, sebbene ancora con qualche nervo a fior di pelle, tornava a fare il cucciolo ubbidiente. Eppure continuava ad essere agitato in maniera innaturale: la sua tensione non riguardava solamente un temporale imminente, altrimenti si sarebbe calmato di più: qualcosa era in arrivo. Qualcosa che aveva a che fare col suo mondo, col suo equilibrio. Una minaccia. Il pensiero che le venne fu automatico.
Lui…
Già il pulcino aveva ricominciato a innervosirsi. Alicia però era già abbastanza stanca per la giornata trascorsa, non voleva mettersi pure a pensare a una cosa simile: si limitò a sperare che fosse qualcosa di non immediato, non era certo il momento migliore per preoccuparsi anche di questo. Licenziò il piccolo Pokemon senza pensarci troppo: “Va’ a nanna, pulcino, ci penseremo domani. Vedrai che non è niente, pensa a rimetterti. Vai, su!” Il piccolo uccello si era ostinato a continuare a fissarla con apprensione, ma si era costretto ad ubbidire e a tornare nel suo nido improvvisato.
Ci mancava solo questa. Proprio ora…
Non vedeva l’ora di affogare quelle idee cariche di tensione nel piatto della cena: tornò da Godey appena in tempo per vederlo sistemare la pentola di zuppa sul tavolo per la cena: “Allora? La piccola peste Volante è andata a dormire?” “Sì, zio, tutto a posto, era solo un po’ nervoso per il tempo.” “Quante volte ancora dovrò ripeterti che… ah, lasciamo perdere. Beh, forza, in tavola, piccola.”
Ecco, ci risiamo.
Un sorrisetto carico di serena rassegnazione le piegò i lati della bocca verso l’alto: non sarebbe mai riuscita a farsi considerare da lui come una persona adulta, l’aspetto troppo grazioso e innocuo che le aveva conferito la natura non glielo avrebbe mai permesso. Beh, nessuno è perfetto, e la vita fin troppo spesso non è mai come la si vuole, solo gli stupidi si rifiutano di accettarlo.
Aveva appena fatto in tempo a sedersi e a scostarsi i ricci ribelli dal viso che un bussare esasperato alla porta d’ingresso, che riusciva a distinguersi perfettamente dal temporale ormai cominciato, aveva interrotto tutti i progetti di una tranquilla serata in ‘famiglia’.
Godey era sempre stato un tipo piuttosto prudente, per quanto ricordava, e automaticamente si irrigidì, intimandole di fare silenzio e non muoversi. La ragazzina si limitò a fissare la porta chiusa con tanto di lucchetto e catena, aspettando con pazienza e prudenza che lo zio analizzasse la situazione. Di nuovo il bussare riprese con ancora più forza, e stavolta accompagnato da una voce maschile e potente, al contempo però stanca e disperata per motivi ben intuibili: “Per favore, aprite! Chiunque voi siate, aiutatemi, sono stato sorpreso dall’imminente tempesta di vento, e non ho un posto dove andare! Non possiedo alcuna arma, vi prego, fatemi entrare!”
Godey osservò sospettoso il visitatore dalla piccola fessura della porta, come era consueto fare. Dopo qualche minuto, tirò un sospiro di sollievo.
“Al, vieni a darmi una mano con il catenaccio, lo sai che è troppo pesante anche per me.”
Alicia si limitò a roteare le pupille, non tanto per la scomodità del compito in sé, ma perché le risultava piuttosto fastidiosa l’idea di dover interrompere una serata tranquilla come quella a causa di un perfetto sconosciuto scampato alla furia degli elementi naturali, però si costrinse ad alzarsi a malincuore e ad andare ad aiutare il suo vecchio a sganciare la catena. Infine, Godey aprì anche lucchetto e uscio, rivelando il visitatore: “Prego, entri, si muova, il vento stanotte è davvero di potenza inaudita.” Alicia rimase a fissare l’uomo con aria sorpresa e incuriosita: un tipo che non aveva mai visto in vita sua, le dava una sensazione strana: dal fisico e la statura poteva avere una trentina d’anni, però i capelli avevano una inusuale sfumatura grigiastra, innaturale per la sua età. Il gilet blu scuro che indossava era gonfio d’acqua, doveva essersi perso proprio nel pieno della tempesta di pioggia, era totalmente fradicio.
“La rin… ringrazio. Porca miseria, là fuori si gela fin dentro le ossa. Tu guarda la fortuna, ho beccato il temporale proprio nel bel mezzo del viaggio. La prego, non ho un posto dove potermi riparare, posso chiederle di ospitarmi in casa sua per questa notte?” Godey dapprima aveva continuato a fissarlo con aria ancora sospettosa, ma dopo essersi assicurato del fatto che non avesse armi pericolose a sua disposizione (escluse due-tre costose sfere a chiusura manuale, che dovevano contenere i suoi Pokemon, ma non erano più di tanto un problema) scelse di accettare senza lamentarsi: “Certo, si accomodi. La casa non è molto grande, ma abbiamo un piccolo magazzino nel retro, potrà dormire lì stanotte. È d’accordo?”
“Non chiedo di meglio.”
“Perfetto. La prego, non voglio essere particolarmente sospettoso, ma vorrei tenere io le sue sfere. Non si preoccupi, qui trattiamo tutti i Pokemon con la massima cura.” Quello fu l’unico dettaglio che lo sconosciuto tollerò di malavoglia, in quanto fu costretto a consegnargliele tutte e tre, ma, se non l’avesse fatto, lo avevano capito tutti, Godey avrebbe preso provvedimenti. Dopo aver notato quel particolare, Alicia decise che sarebbe stato comunque molto meglio non inimicarsi quel tizio, e scelse di mostrare il suo lato più gentile e amichevole per rompere il ghiaccio: “Venga, deve asciugarsi, non può restare a congelare così. Gradiremmo molto se cenasse insieme a noi.” Lo straniero aveva sul momento alzato un sopracciglio nella sua direzione, evidentemente non gli andava troppo di farsi scortare da una ragazzina, ma cercò di mostrarsi comunque benevolo: “Oh, che ragazzina dolce e carina, è sua nipote, per caso?” Godey scosse la testa: “In realtà no, anche se sembra a tutti così. L’ho presa in custodia per via di suo padre, è sempre in giro per il mondo per lavoro, non la vede da anni, ormai. Persino lei stessa ha cominciato a considerarmi come suo zio.” “Esatto,” Aveva risposto lei con un sorriso per nascondere il fastidio che già provava per quel tipo sospetto che si era presentato all’improvviso a casa loro senza essere invitato: “Zio Godey è un grande. La accompagno io, ho ciò che fa al caso suo.” La sua risposta trasudava una simulata gentilezza: “Certo, piccola, con piacere.” Alicia continuò a mandare avanti il gioco, assumendo l’aria più innocente che avesse. Certo non si era offerta di accompagnarlo per simpatia, anzi: ma anche se Godey lo aveva privato delle sue potenzialmente pericolose sfere, lei non si fidava minimamente di uno come quello, e l’ultima cosa che desiderava era farsi cogliere di sorpresa da un tiro mancino da parte di uno sgradevole sconosciuto. Per cui erano necessarie due cose: tenerlo d'occhio e guadagnarsi la sua fiducia.
Alicia guidò lo sconosciuto verso il piccolo guardaroba di cui erano in possesso, tirando fuori il primo capo di abbigliamento per il freddo da uomo che le capitò sotto mano: “Prego, si servi pure. Non so se sono della sua taglia, ma sempre meglio di niente, non crede?” Li aveva accettati in maniera neutra, totalmente indifferente: “Ti ringrazio… aspetta, come ti chiami, piccola?”
E siamo a due.
Non fu facile trattenersi dallo sbuffare infastidita: zio Godey era un conto, e lei non era mai stata il massimo dell’altezza, ma farsi chiamare ‘piccolo’ da uno sconosciuto è assai più irritante.
“Alicia. Mi chiami pure Al, qui mi chiamano tutti così.” La risatina ipocrita e forzata che ne seguì non poté fare a meno di solleticarle i nervi ancora di più, non vedeva l’ora di toglierselo dai piedi: “Perché, con un nome così carino, ti fai dare un soprannome maschile?” “Questione di abitudine. Beh, si cambi, su, mica vorrà rimanere a congelare…”
Che domande ovvie e forzate stava facendo quello: chissà che cavolo pensava di fare con quella sceneggiata, se non aveva voglia di fare conversazione poteva mantenere un sacrosanto silenzio e basta, la cosa infastidiva entrambi. La ragazza rimase incollata alla porta della stanza nella quale si stava cambiando per tutto il tempo: quel tipo non le stava semplicemente antipatico, e non solo perché si ostinava a recitare una parte: sentiva che non era arrivato lì per caso, aveva una brutta sensazione al riguardo, e raramente le era capitato di sbagliarsi. Lo tenne d’occhio come un cane da guardia anche dopo che uscì e si unì a loro per la cena, mentre Godey versava una bollente zuppa vegetale nei piatti per tutti: “Dalla pentola al piatto, ecco a voi. Roba di qualità, l’ha scelta personalmente la mia ‘nipotina’: le assicuro che nonostante la giovane età è una vera intenditrice, non rimarrà deluso. Si servi pure.”
Appena il tempo di mettergliela davanti, dopo brevissimi attimi di educazione, e lo straniero si gettò sulla pietanza come se non avesse mangiato da due settimane. Godey era rimasto così allibito, e con una faccia così divertente che per poco Alicia non scoppiò a ridere, da rischiare un tic all’occhio destro:
“Cielo… mi scusi, ma lei da quanto tempo non mangia decentemente?” Fu come se si fosse risvegliato da un’ipnosi, lo sconosciuto sembrò rendersi conto solo in quel momento dello spettacolo che stava dando, e si affrettò a recuperare un po’ di contegno: “Eh? Oh… oh, cavolo, mi dispiace, mi scusi tanto. No, davvero, mi perdoni, sono ospite in casa sua e non ho nemmeno il contegno di comportarmi come si deve: sa, sono in viaggio da molto tempo, mi sono perso più volte, e ho finito in breve tutte le mie provviste. Mi sono dovuto adattare con quello che ho trovato in giro, e devo ammettere che la sua zuppa è davvero ottima!” “Capisco…”
Godey mantenne una dignitosa freddezza: certo non gli era passato inosservato il fatto che la ‘nipote’ fosse così sospettosa nei confronti dello sconosciuto, e scelse di non immischiarla nella conversazione; si limitò a pensare alla propria porzione e a raccogliere qualche informazione sul conto del pellegrino, mentre Alicia si conteneva dal ficcare la faccia nel piatto per evitare di guardarlo in faccia:
“Il suo nome?”
“Mott, vengo da Memoride. Credo abbia già capito che sono un viaggiatore. Meno male che sono riuscito a trovare la strada, e se non fosse stato per la sua ospitalità a quest’ora chissà che ne sarebbe stato di me!”
“Vedo che è Allenatore, ha delle sfere con sé. La sua famiglia deve essere piuttosto facoltosa se può permettersi certi lussi. Ha detto di essere un viaggiatore, ma anche di aver ‘trovato la strada’. È diretto da qualche parte in particolare?”
Mott annuì immediatamente: “Sono in missione. Mi hanno offerto un nuovo tipo di incarico, qui, ad Alamos. In realtà, quelle sfere mi sono state lasciate in eredità, le assicuro che sono tutt’altro che ricco, anzi, le confesso che sono un po’ in crisi con il denaro, per sbarcare il lunario ho bisogno di soldi. Per cui ho preferito arrischiare un viaggio così lungo, sa, mi hanno promesso un buon stipendio. Purtroppo… non potevo immaginare che sarei incappato proprio in una simile burrasca.”
E non potevi rimanerci, nella burrasca, invece di portarla in casa nostra?
Alicia mandò giù un boccone per resistere all’impulso di parlare.
“E lei?”
“Mi chiamo Godey. Sono… architetto. Ex architetto, lo ammetto, al momento non sono nel pieno della mia fase inventiva, così mi sono preso una pausa, per ora trascorro il mio tempo qui, con la mia cara Alicia, vicino ai giardini della città. Diciamo che sono ‘in vacanza’.” Il viaggiatore si era come illuminato, cercando subito di focalizzare il tutto su quell’argomento: “Ah! I giardini di Alamos! Come non conoscerli? Hanno una fama che supera i confini del mondo! Suppongo che il turismo qui vada a gonfie vele! Potrò visitarli anche io durante la mia permanenza in questa città?”
Alicia strinse i denti di nascosto. Di bene in meglio, non solo quel tizio le stava simpatico quanto una zanzara tigre, ma cercava anche di andare a parare su qualcosa che, quelli come lui, non avrebbero mai dovuto conoscere.
Oh, cavolo… accidenti a lui.
Era interessato ai giardini di Alamos. Quella sua pericolosa curiosità aveva già cominciato a confermare i suoi sospetti: c’era qualcosa, in quelle foreste cariche di magia dei Pokemon, che aveva a che fare con lui. E aveva paura di ammettere quale, perché in cuor suo lei ne sapeva qualcosa. Mandò una veloce occhiata d’intesa allo zio.
Non deve avvicinarsi ai giardini di Alamos.
Godey sembrò capire qualcosa dalla sua espressione. Si rabbuiò immediatamente, interrompendo la conversazione, ma ciò non fece altro che interessare maggiormente il perplesso straniero: “Mi perdoni… ho detto qualcosa di sbagliato?” Godey cambiò tono come messaggio per Alicia, cominciando a pensare rapidamente a cosa mettere in ballo per tenerlo lontano da qualunque cosa avesse intenzione di fare, una volta che quell'uomo fosse venuto in possesso di informazioni troppo delicate: “Sa… questo non è un buon periodo per il turismo. Per la sua sicurezza, appena si sarà riposato, torni a casa sua il prima possibile. È una brutta stagione.” La curiosità del viaggiatore diventava sempre più molesta:
“Per il maltempo?”
“Già, ma non solo: brutti giorni, questi. C’è un pericolo pubblico in zona, notturno.”
“Sì? Di che tipo?”
“Non è una bella storia, non so se mi spiego. Però, dato che lei è qui… è giusto e bene che lo sappia, per la sua sicurezza.”
“La ascolto.”
Fagli paura. Spaventalo abbastanza da farlo scappare, deve andarsene lontano da quel posto.
Alicia tese le orecchie come un pastore tedesco per cogliere ogni minima parola: si era ripromessa di non intervenire, ma avrebbe fatto di tutto per allontanare quell’uomo.
“Ogni volta, in questo periodo dell’anno, è assolutamente vietato a tutti gli abitanti della città di uscire e di andare in giro dopo le 9:00 di sera. È per questo che la nostra porta è dotata di sbarra, lucchetto e catenaccio, e le serrande sono tutte sigillate a dovere. E non si deve assolutamente uscire prima delle sette del mattino. Sapessi… ogni volta Al mi fa disperare, per poco non viola il coprifuoco ogni sera, è nata per stare all’aria aperta, resta sempre nei giardini. Ma… è proprio quel luogo… che dobbiamo assolutamente evitare… assolutamente… di notte.”
“Di notte?” Chiese ancora il pellegrino, sempre più interessato: “La prego, non resisto, mi dica il motivo per cui hanno inserito un coprifuoco così rigido! Cosa c’è… là fuori?”
La vuoi piantare?
Pettinarsi i capelli chiari dietro le spalle per scaricare la tensione non le servì assolutamente a nulla: c’era un’insaziabile curiosità sotto le iridi di quell’uomo, ed era la cosa che più temeva di lui, sperava con tutta se stessa che quelle sue fauci non avessero nulla di ciò che bramavano.
“Vive nei giardini. Lui... lui che ne ha fatto il suo regno e non permette a nessuno di entrarci e uscirne illeso.”
“Lui… chi?”
“Una bestia di potere oscuro.” Fu l’ultima, tetra, risposta secca di Godey, per interrompere lo spiacevole scambio di informazioni. Mott era rabbrividito per un attimo, cominciando persino a sudare freddo. Era sufficiente? Era abbastanza spaventato da non curiosare ulteriormente? Alicia sperò di sì con tutta se stessa, ma scelse comunque di tentare di rassicurarlo per conquistarsi la sua fiducia: “Non deve preoccuparsi, glielo abbiamo detto, il coprifuoco è molto rigido, finora tutti quelli che lo hanno rispettato continuano a vivere una vita normalissima. Può stare tranquillo, qui è al sicuro. Domani, però, davvero, le consiglio vivamente di ripartire per casa sua, o rischierebbe di incontrarlo. Di notte, nel cuore delle tenebre, si aggira per i giardini di Alamos col silenzio di un serpente velenoso, colpisce e svanisce prima ancora che lo si senta arrivare. Chiunque si trovi nel suo territorio quando lui c’è… gli intrusi… insomma, non hanno più fatto ritorno.”
Mott cercò di controllare la punta di panico mandando giù l’ultima cucchiaiata di zuppa, eppure sembrava non avere alcuna intenzione di fermarsi.
Ma perché non ti decidi a farla finita?
“Bestia di potere oscuro… il nome dice tutto. È così che si chiama… questa specie di mostro?”
Mostro.
Quella parola provocò in Alicia una reazione inaspettata, che fino a quel momento lei aveva creduto di poter bellamente ignorare, perché tutti credevano fosse solo una stupidaggine: eppure bastava così poco ed ecco che sentiva quella parola insulsa e odiosa saltar fuori con violenza dalla bocca di qualcuno. Ultimamente l’aveva sentita così spesso da non riuscire quasi più a tollerarla, nonostante cercasse di lasciar correre il tutto senza farsi problemi. Probabilmente perché, ormai, lui era diventato qualcosa che faceva parte di lei.
Lui… lui è…
“Mostro? Le creature non umane non sono mostri, sono solo diverse da noi!” Solo quando vide che Mott era rimasto di sasso la ragazza si accorse di come fosse saltata in aria: non era riuscita a sopportare l'arroganza di quel tipo. Ma lei avrebbe dovuto contenersi, in quella maniera rischiava di rovinare tutto e di insospettire ulteriormente lo sgradito sconosciuto: “Mi scusi. Solo che… insomma, io credo che i ‘mostri’ non esistano. Nessun animale o Pokemon può essere così marcio e corrotto da arrivare ad essere definito tale, non sono come noi, è una questione di principio. Mi perdoni, non posso fare a meno di dirci qualcosa sopra. Però…”
Fissò Godey con un occhio carico di panico:
Dammi una mano!
“Questo non significa che quella creatura non sia assolutamente pericolosa,” Intervenne subito l'ex-architetto in suo soccorso con serietà e controllo, intimandole con lo sguardo di restare calma: “Se non avessimo instaurato il coprifuoco… ancora adesso abbiamo il timore di non riuscire a proteggere tutto. In questi giorni i nostri animali negli allevamenti vengono decimati, non molto tempo fa ne abbiamo trovato uno non troppo lontano dai giardini sbranato. In fondo Al ha ragione, non si tratta di una specie di mostro: quella creatura è semplicemente affamata, e, considerato che non si azzarda a toccare i Pokemon dei giardini, presumo capacissimi di nascondersi e difendersi, penso proprio che la fame la spinga a recarsi nella nostra zona. Per fortuna negli ultimi tempi abbiamo preso più precauzioni, e siamo riusciti ad azzerare le vittime. Questo significa anche… che ormai la fame spingerebbe quella bestia a fare qualunque cosa. Finché non se ne andrà, dobbiamo assolutamente stare lontani da quel posto. Per nostra fortuna, rimane solo in questa stagione dell'anno. E piuttosto che rovinare un ecosistema, la nostra città è ben disposta a instaurare un coprifuoco e a sopportare per qualche mese.” L’atmosfera si era fatta paradossale: Mott, nonostante tutte quelle rivelazioni più simili a un racconto dell’orrore che altro, con sommo sgomento di Alicia, si era tranquillizzato, e non riusciva più a simulare spavento in maniera davvero convincente: “La bestia notturna… non ne ho mai sentito parlare. Non avevo la minima idea che esistesse una creatura così pericolosa e letale da portare un nome del genere.”
“Oh,” Rispose Alicia, finendo la minestra e pregando disperatamente di sistemare quella faccenda:
“Lui ha…”
Fu la tromba d’allarme a salvarla. Alamos si stava adattando alla modernizzazione, ma gli abitanti amavano ancora certi tocchi tradizionali, e avevano deciso di usare un suono di tromba in caso di emergenza. Godey rabbrividì, e batté il pugno sul tavolo con aria decisamente scocciata:
“Questa è sfortuna! Ma insomma, si sa che il parlarne porta sciagure, ma anche al solo…”
La tromba suonò di nuovo. Godey sospirò con malavoglia, abbandonò tavola e conversazione e corse a infilarsi un pesante cappotto, con somma sorpresa dell’ospite, per poi portarne un altro per lui e uno più piccolo anche per Alicia. Infine, si decise a dare qualche spiegazione di base anche per il nuovo arrivato, che non sapeva più dove sbattere la testa: “Mi ascolti bene, Mott, siamo alle solite; mi segua e faccia assolutamente tutto quello che le dirò, per garantire la sua incolumità. Stavo per spiegarglielo teoricamente, ma a quanto pare dovrà adattarsi subito alla pratica.”
“Eh? Aspetti, ma… pratica?” Aveva ribattuto lui, fissando sbalordito e confuso il cappotto che Godey gli aveva messo in mano senza accettare obiezioni.
Mi tocca, eh... beh, lasciarlo qui certo non possiamo.
Alicia si limitò a infilarsi scocciata i capelli sotto il cappotto e a calarsi il cappuccio sugli occhi, rassegnandosi ad esporre la rognosa situazione: “Glielo spiego io durante il tragitto, signore. Dia retta allo zio, è una questione di vitale importanza. Faccia tutto quello che facciamo noi, perché temo che sarà una bella complicazione.”
Mott fu costretto a infilarsi il cappotto a sua volta, senza ancora essere riuscito a capire minimamente quale fosse il problema, e uscì con loro dopo averli aiutati con sbarra e catenaccio. Fuori il vento per fortuna sembrava essersi calmato, ma la pioggia continuava a cadere impetuosa, per niente stanca di bombardare il terreno.
Mentre correvano come pazzi verso un pascolo sulla collina erbosa, poco distante dai giardini, si imbatterono in poco tempo in un gruppo di allevatori letteralmente nel panico, ma che appena li videro riuscirono a tranquillizzarsi in pochi secondi.
Neanche avessero visto la fata della luna...
“Oh, finalmente, e grazie al cielo! Godey, Alicia, meno male che siete qui! Il gregge di Alan proprio qui sotto è impazzito, serve l'aiuto di qualcuno che ci sappia fare con i Pokemon.” “Dove si trovano i vostri colleghi?” Aveva chiesto l’architetto: “Poco più avanti, stanno cercando di portare le bestie in un posto più sicuro, ma di sicuro prima o poi l’affare che ha scatenato questo caos tornerà all’attacco. Alicia, possiamo contare su di te? Almeno a te danno retta!”
Lei cercò di sorridere per indurlo a calmarsi, ma la cosa non la entusiasmava neanche un po’, soprattutto dopo quella pessima serata: “A vostra disposizione. Dove è necessaria la mia collaborazione?”
In un attimo si erano ritrovati a correre tutti verso la meta: tutto troppo in fretta era accaduto, e Mott non stava capendo più nulla di niente, a malapena aveva compreso come era finito in quella situazione assurda: “Ehi, scusa ma… si può sapere che succede?” Domandò in corsa.
Avanti. Prima te ne liberi meglio è.
Alicia aveva promesso di spiegarglielo, e dovette farlo in tutta fretta domando l’antipatia che provava nei suoi confronti:
“È lui. La bestia di cui le abbiamo parlato, evidentemente ha attaccato il gregge qui sotto. Le difese che hanno instaurato a quanto pare lo hanno eluso, ma dobbiamo portare gli animali in un posto più protetto.”
“Che dobbiamo fare?” Chiese ancora il viaggiatore. Alicia sospirò: come pensava, era necessario fargli il discorso completo, bella seccatura:
“I Pokemon dei giardini mi conoscono, e così anche quelli del gregge. Non per vantarmi, ma mi ascoltano, posso guidarli. Io non corro pericoli.”
“Sei sicura? Quel ‘coso’, la bestia, è un pericolo mortale o sbaglio?” Ribatté Mott, fingendosi preoccupato: sì, figuriamoci se gli importava qualcosa di una piccola estranea come lei, anzi, dal tono che simulava ogni volta che le era vicino sarebbe stato molto probabilmente anche contento di vederla levarsi dalla circolazione. Alicia continuò a correre ignorandolo:“Sì, è vero, glielo abbiamo già raccontato. Ma non si preoccupi, andrà tutto bene, ci siamo già passati. Faccia come le diciamo e non le succederà niente.”
“E se quell’affare attacca?”
“Non lo farà: non gli conviene.”
“Cribbio, se è davvero pericoloso come mi avete detto… se una bestiaccia del genere se la prendesse con noi…”
“Non lo farà, stia tranquillo.”
“Ma… si può sapere che ti prende?!” Fece Mott all’improvviso, nel panico per la propria sicurezza e per il fatto di non capire più nulla: “Poco fa dicevate che è mortale, che attacca e massacra chiunque si addentri nel suo territorio, e adesso dici che non succederà niente? Non lo chiamavi ‘la bestia di potere oscuro’?”
“Oh, sì,” Rispose lei, cercando di controllare la tensione e di impressionarlo al punto giusto, senza esagerare, sperando di essere ancora in tempo per spaventarlo abbastanza da spingerlo ad andarsene entro la mattina seguente: “Lui ha un sacco di nomi. 'Bestia' è la cosa più semplice. In generale è conosciuto come signore della notte, primordiale creatura dal cuore nero…”
Si voltò a fissarlo un’ultima volta prima di aumentare il passo:
“Ormai nessuno osa pronunciare quella parola, c'è la paura che la possa sentire. Ma il suo vero nome…” Parlò con calma, cercando di simulare giusto una punta di timore per impressionarlo:
“Noi lo chiamiamo… Darkrai, l’Oscuro.”






 

Continua...

 


Nota dell'autrice: sì, ho riscritto il capitolo. Era venuto male, beh, direi che era la cosa più saggia e utile da fare, e non parliamo di quanto la cosa, purtroppo, mi abbia fatta penare, l’ultima settimana per me è stata una specie di delirio… spero che ci siano notevoli miglioramenti, vi invito a parlarne nelle recensioni, se volete. Beh, arrivederci, miei carissimi lettori ;-)

 

   
 
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