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Autore: keska    07/03/2009    12 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Edward si mosse veloce premendo un tasto rosso sulla mia testa copertina

Capitolo riveduto e corretto.

 

Edward si mosse veloce premendo un tasto rosso sulla mia testa.

Ansimai, e subito il dolore pulsante alle costole e alla schiena si trasformò in fitte acute. Il mondo si era fermato in quell’istante, condensato nel breve lasso di tempo che passava da un ansito all’altro, dilazionato spaventosamente dal terrore.

«Cosa le succede?» chiese mio padre, spaventato.

«Non respira!».

Non li vedevo, a malapena li sentivo. La camera tremava e girava su se stessa. Un’ansia, un’angoscia strisciante si erano impossessate di me. Tirai indietro la schiena, in un disperato quanto fallace tentativo di avere più fiato. Inutile. Solo doloroso.

«Cosa succede?» fu l’esclamazione, contenuta da un tono professionale di chi è abituato a certi tipi di emergenze, dell’infermiera di turno, subito accorsa.

La risposta di Edward su secca e concisa. «Crisi respiratoria». E subito posò una mano, leggera, sulla mia fronte. Le sue labbra si muovevano, segno che mi stava parlando, magari rassicurando. Forse chiedendo di rimanere tranquilla, mantenere la calma, proprio come aveva fatto quando ero in camera sua, fra le sue braccia.

«Edward… papà…» farfugliai fra gli ansiti e i respiri smorzati. Avrei probabilmente dovuto seguire il senso delle sue parole, ma avevo troppa paura. Tremavo.

I miei occhi, persi in uno strano vuoto, incontrarono il viso ansioso di mio padre. Aveva la bocca aperta, il fiato bloccato, come se fosse troppo sconvolto per farlo andare su o giù. Scosse il capo, incredulo. «Questo non sarebbe mai successo se avessi scelto Jacob».

Edward s’immobilizzò. Il suo sguardo si fece vitreo.

Non avevo creduto fosse possibile, ma il ritmo del respiro si fece più veloce. Era una conseguenza diretta della parole di mio padre, e degli effetti disastrosi delle mie scelte che ancora vedevo ricadere su Edward.

Avrei voluto sollevarmi. Avrei voluto stringere il suo viso fra le mani. Avrei voluto assicurarmi della sua consistenza, e del fatto che avrebbe tenuto fede alla promessa. Più di tutto, se avessi potuto, in quell’istante avrei voluto urlare. Semplicemente urlare di dolore. Non dovrebbe essere un diritto negabile a un moribondo, il più rudimentale modo di sfogare le proprie pene.

Una lacrima mi rotolò lungo la guancia, fredda, fastidiosa.

Il dottor Parks entrò nella stanza, seguito da un’equipe di infermieri. Si avvicinò immediatamente al letto. «Dovete uscire» disse, rivolgendosi ai miei visitatori.

Strinsi un pugno sul lenzuolo, tentando disperatamente di deglutire. Se Edward fosse andato via in quell’istante, senza che sapesse, senza che mi assicurassi della sua meta… Se fosse uscito con mio padre, e lui avesse continuato a ripetergli, mentalmente e non, quelle cose orrende…

«No, no, no» sussurrai fra i sibili, e i miei movimenti si fecero più veloci, convulsi, quasi incontrollati. A ogni spostamento corrispondeva una fitta, atroce, ma non per quello decidevo di fermarmi. La stanza era piena di suoni estranei, poco confortanti. Era piena di luci, e voci sconosciute.

Non c’era Edward.

Peggio di quando, da bambina, giravo su me stessa fino a cadere a terra. Peggio. La testa girava ancora più veloce.

«Edward!» gridai, sollevandomi a sedere sul letto. Dolorante, madida di sudore. Cercai disperatamente la sua figura nella stanza, sperando che potesse rimanere immobile per qualche instante per darmi la possibilità di farlo.

Ma una mano mi bloccò la spalla, facendomi ricadere fra i cuscini.

Non c’era. Edward non c’era.

«Sta’ ferma» ordinò perentoria la voce del medico «sta’ ferma, Bella».

Scossi la testa, mi dibattei. Il dolore dilagava nel mio corpo. Possibile che non capissero? «Ed… vo… voglio… Ed-Edward…» farfugliai, ansai, muovendomi sul letto come un pesce fuor d’acqua. Volevo l’unica cosa che potesse farmi stare bene. La certezza che Edward non sarebbe andato da nessuna parte, come mi aveva promesso.

Le mani che mi bloccavano sul materasso divennero due, su entrambe le spalle. «Bella, adesso ti aiutiamo noi. Calmati. Ferma».

«No! Ed…no…non…».

«Calma Bella, ferma» mi ordinò ancora, avvicinando una mascherina di plastica trasparente al mio viso.

«Lasciatemi!» urlai, divincolandomi dalla presa, scuotendo la testa. Era irrazionale. I medici mi avrebbero aiutata, avrei ricominciato a respirare normalmente, e avrei saputo di Edward, trenta secondi più tardi. Ma in quel momento volevo semplicemente accertarmi che non avesse lasciato le mura dell’ospedale. Tutto era diventato una macchia indistinta, sentivo voci, vedevo ombre che si muovevano.

«Bloccatela».

Della mani afferrarono prontamente braccia e gambe, inchiodandomi al letto. Continuavo ad agitarmi, ma non riuscivo a muovermi. La mascherina trasparente prese prepotente posto sul mio viso.

Le pupille erano dilatate per la paura. La carotide pulsava indisturbata contro il cuscino. Tossii. Provai a tossire, ma mi sentii soffocare.

«La saturazione dell’ossigeno sta scendendo. Settanta».

«Le stiamo facendo male».

«La stiamo perdendo».

Tirai più forte un braccio nella mia direzione e la presa di una mano s’intensificò. Non respiro, non respiro, non respiro, era il pensiero ossessivo di chi sta per soffocare. Il mio.

«Datele un tranquillante, ora. Così non riesco ad intervenire» sbottò il dottore.

Pensai che avevo perso, tanto valeva calmarsi. Pensai che a quel punto non ne valesse più la pena di agitarsi, perché fra qualche istante non sarei stata più cosciente di me. Ma entrambi i pensieri furono meteorici nella mia mente confusa, così non smisi di agitarmi, non smisi di soffocare, non smisi di vedere la stanza girare su se stessa.

Qualcuno mi afferrò un braccio, trapassandomi la pelle con un ago.

«Edward!» gorgogliai, fra quello strano tentativo di tossire e il soffocamento in atto. Mi dibattei per pochi istanti ancora, come un insetto appena schiacciato i cui arti continuano a muoversi per chissà quali riflessi involontari.

Qualcuno mi girò su un fianco, e per un attimo mi tolsero la mascherina. Vidi il buio delle mie palpebre, e vidi la luce della stanza. Un piccolo fiotto di sangue mi colò dalle labbra.

Buio, luce. Buio, luce, buio, luce, buio.

Buio.

 

La mia mente registrava a scansioni progressive orribili scenari. Se Edward fosse andato da Jacob sarebbe stata la fine. La sua minaccia poco velata aleggiava ancora nella mia mente. Ma evidentemente ogni volta che tentavo di mettere un freno, di bloccare le conseguenze delle mie scelte peggiori, il destino si faceva beffe di me, aggirando bellamente l’ostacolo, indisturbato.

Terrore, ansia, angoscia, erano termini riduttivi per esprimere il mio stato emotivo anche al solo pensiero di un possibile incontro fra i due.

Dovevo impedirlo, ad ogni costo.

C’era silenzio, non udivo alcun suono. Faceva caldo, tanto caldo. E c’era molta luce.

Aprii gli occhi. Ero nella stanza d’ospedale, ma intorno a me non c’era nessuno. Sul comodino il bel mazzo di fiori profumato era secco, appassito. Tutti i macchinari che avrebbero dovuto esserci, al loro posto, erano scomparsi. Aleggiava un innaturale silenzio.

Mi sollevai a sedermi, e scoprii con poco stupore che la schiena non faceva più male.

Dovevo scoprire cos’era successo. Al più presto.

Misi un piede fuori dalle coperte, sul pavimento. Ero scalza. Indossavo il camice che Alice aveva definito “orrendo”. Mi sollevai dal letto, e uscii dalla stanza. Ma i corridoi erano deserti.

Corrugai le sopracciglia.

Da lontano sentivo provenire un pianto strozzato, smorzato. Seguii automaticamente il suono, dirigendomi verso il luogo da cui proveniva. Mi ritrovai in una piccola stanzetta completamente spoglia, con solo una sedia al centro.

Sulla sedia, una donna. Era lei che piangeva, almeno, per quello che poteva.

No, non era come pensavo io. Non poteva essere così.

«Esme…» sussurrai.

Cessò immediatamente i suoi lamenti. Rimase voltata di spalle, col volto basso. «I loro cuori non sono stati abbastanza grandi da poter contenere entrambi l’amore per te», la sua voce era disperata, rabbiosa, angosciata, ma allo stesso tempo, spenta.

Cos’è successo? Cos’è successo, Esme?, non lo chiesi ad alta voce. Ma mi rispose.

«Sono morti. Tutti e due. Edward e Jacob».

Tutto si fece buio.

 

«No!» gridai, tirandomi a sedere. Tremavo, pervasa da brividi di freddo, ma la schiena e la fronte erano madidi di sudore. Dovetti ricadere immediatamente fra i cuscini, ma feci appena a tempo a osservarmi intorno per capire di trovarmi ancora nella stanza d’ospedale. Ma questa volta i fiori profumavano, i macchinari erano ai loro posti, e così anche i loro corrispettivi rumori.

«Bella, amore. Calmati, sono qui con te».

La mia mente era confusa, appena uscita da qualcosa che… sì. Doveva essere stato un sogno, se riuscivo ancora a sentire la voce di Edward, vedere il suo volto. Se mi sembravano così vividi e reali. Ma l’immaginazione, esperta beffatrice, mi stava ancora confondendo la mente pesante.

Scossi il capo, incredula. Un singhiozzo mi nacque dal petto, facendo espandere in tutto il mio corpo un’onda di nauseante dolore.

La sua espressione si fece crucciata, preoccupata. Mi accarezzò il volto, prendendolo con entrambe le mani. «Va tutto bene. Sono qui, sono qui con te. Va tutto bene».

Annaspai per un attimo, e subito sentii il peso di una mascherina trasparente sul viso. Mi carezzò i capelli, sostenendo l’oggetto con una mano, senza premerlo con forza.

«Rilassati, ecco. Così. Va tutto bene tesoro, non ti agitare» mormorò delicatamente, soffiando le parole sul mio viso. «É stato solo un brutto sogno».

Lo osservai ancora, immobile, gli occhi pesanti e lucidi. Battei le palpebre, e mossi una mano sulla mascherina, gemendo. «D-dove…» farfugliai «non… non lasciarmi più…» lo implorai, stringendo la mano che aveva posato sulla mia guancia.

Si chinò a baciarmi la fronte. «Non ti lascio, te l’ho promesso» disse, gli occhi che ardevano di sincerità, «non ti ho mai lasciato. Mai».

Le labbra mi tremarono e per un istante la testa mi girò. «Ma… come…» biascicai, la gola secca.

«Sono sempre stato qui con te» fece, sorridendomi dolcemente, «eri in un tale stato di agitazione e confusione che non riuscivo a rassicurarti. Era normale, in quelle condizioni».

Sospirai, gemendo debolmente. Il corpo era pesante, caldo, febbricitante. Mi sentivo debole e dolorante. Provai a tirarmi a sedere, per liberarmi, almeno in parte, di quelle coperte calde. Ma appena feci leva sulla braccia delle fitte dolorose mi assalirono. Feci una smorfia, strofinandomi le braccia. Sotto le maniche del pigiama una serie di lividi, ancora freschi.

Le mani di Edward si sostituirono alle mie. «Mi dispiace. Nessuno voleva farti del male, ma non riuscivano a tenerti ferma. Ti chiamavo, ti parlavo, ma non riuscivi a sentirmi. Avrei voluto che tutto questo non fosse stato necessario».

Sollevai il viso nel suo. Stare seduta acuiva il dolore alla schiena e alle costole. «Non è colpa tua, lo sai» mormorai, abbassando lo sguardo. «Mi dispiace tantissimo per quello che ti ha detto mio padre. Io…» annaspai, «non è giusto che tu… che debba subire anche questo…».

«Ehi» mormorò, sollevandomi il mento. Mi sorrise. «Va bene così. Era ovvio, dopo quanto detto, che se la prendesse con me. Ma ora è tutto apposto. L’importante è che tu stia bene».

Mi tesi nella sua direzione, stringendo il suo corpo col mio e i suoi capelli far le dita. «Ho avuto così tanta paura, così tanta paura di perderti» confessai, gemendo, piano.

Allontanò il mio corpo dal suo con cautela, permettendomi di tornare ad una posizione che fosse meno dolorosa e scomoda per il mio busto ferito. Mi accarezzò una guancia, stringendomi i capelli con l’altra mano, e, piano, si avvicinò a me, alle mie labbra, toccandole e lambendole con le sue.

Strinsi più forte la mia presa sui suoi capelli, tentando di non lasciarlo andare e contemporaneamente regolarizzare il ritmo del respiro.

Edward si allontanò appena. «A quanto pare dovremmo andarci piano» mormorò contrariato, osservando il monitor dietro le mie spalle. Mi indicò la mascherina, ma scossi il capo, lasciando che il ritmo del respiro si normalizzasse autonomamente.

Arrossii quando la porta della stanza si aprì, lasciando passare Carlisle, seguito da Charlie e Esme.

«Bella» mi salutò il medico, «ti sei svegliata».

«Bells» farfugliò mio padre a disagio, «stai meglio, vedo…». Mi avvicinò al letto, e tremando posò le dita sulla mia fronte. Sapevo che quei gesti non erano naturali per lui, per di più se fatti in pubblico. «Mi dispiace» prese un respiro, «per prima…».

Misi una mano sulla sua, guardandolo negli occhi. «Va tutto bene» sussurrai appena, poco incline a continuare quel dialogo che causava tanto disagio a me quanto a lui.

Mi sorrise, allontanandosi di qualche passo.

Esme sistemò un nuovo mazzo di fiori sul mo comodino, aprendo appena la finestra per arieggiare la stanza. Carlisle controllò velocemente i miei parametri, scoccando un’occhiata al figlio quando lesse l’ultimo picco rivelato, risalendo velocemente alla causa dato il rossore sulle mie guance.

«Come ti senti?» mi chiese, osservandomi.

Annuii, senza parlare. Ma presto rimasi immobile, vinta da un’ondata di nausea. Non propriamente bene. Non ricordavo di essere stata così malridotta da tanto tempo.

«Rimani stesa, dovrebbe far meno male. Vuoi degli antidolorifici?».

Edward mi accompagnò nuovamente sul letto, fra le coperte. Scossi il capo, stringendo stoicamente i denti.

«Sei sicura?» mi chiese quest’ultimo, accarezzandomi il viso.

«Sì» sussurrai, chiudendo appena gli occhi. Avevo paura dei farmaci. Non volevo essere così poco lucida da non comprendere cosa mi stava attorno. Non volevo provare ancora la sensazione di terrore, di perdita, che avevo provato quando avevo creduto Edward lontano da me.

«Charlie» cominciò a spiegare pacatamente Carlisle, «Bella ha un trauma toracico. Ha diverse fratture alle costole, e delle lussazioni. Questo ha causato delle lesioni delle pleure e un conseguente emotorace».

«Quanto è grave?» chiese, preoccupato. Aprii gli occhi.

«Se interveniamo in tempo non c’è pericolo».

«Se intervenite?» sussurrai, lo smarrimento nella voce. Edward strinse più forte la mia mano, accarezzandomi i capelli.

Carlisle si voltò nella mia direzione. Il suo sguardo era pacato, atto a rassicurarmi. «La procedura è abbastanza invasiva, ma non troppo dolorosa. Potrebbe essere risolutiva, se non c’è troppo sangue. In caso contrario dovremmo intervenire con un intervento chirurgico».

Strinsi le labbra, fermando il loro fremito.

Si avvicinò di un passo, sedendosi sul bordo del letto. «Bisogna aspirare il sangue in eccesso per mezzo di una siringa. Farò piano».

Impallidii, sentendo lo stomaco stringersi in una morsa. Edward mi accarezzò i capelli. «Sarò sempre con te. Te l’ho promesso. Andrà tutto bene, vedrai».

Deglutii, risollevando debolmente lo sguardo su suo padre. «Q-quando…?» farfugliai a mezza voce.

Mi sorrise appena. «Sono le quattro» fece, guardando l’orologio, «fra un paio d’ore, credo. Meglio non aspettare oltre».

Annuii, abbassando le palpebre in un sospiro.

Non mi sentivo bene. E la situazione non fece che peggiorare al passare di ogni minuto, quando diventava sempre più difficile muovermi, parlare, tenere gli occhi aperti. Ero estremamente intontita e dolorante.

Mio padre restò ancora poco con me, poi tornò al lavoro, declinando l’offerta di Esme di cucinargli qualcosa. Lo conoscevo abbastanza per sapere che era tanto simile a me da odiare allo stesso modo gli ospedali. Non che non mi volesse bene, non che se non gliel’avessi chiesto non mi sarebbe rimasto affianco. Ma sapevo che in quel momento aveva bisogno di buttarsi nel lavoro, la sua centrale di polizia, un luogo sicuro, per dimenticare l’ansia che lo attanagliava.

Edward restò con me, ad accarezzarmi e baciarmi in ogni momento. Era bruciato dalla preoccupazione e, per quanto tentasse di non darlo a vedere, dalla rabbia. Mi aveva promesso un incontro pacifico, non appena mi fossi ripresa, tutti e tre insieme. Speravo solo di riuscire a sostenerne il peso, ma in cuor mio sapevo che non avrebbe potuto portare a nessuna conseguenza positiva.

Un’unica idea avevo in mente: seguire il mio cuore. Non ci sarebbe più stato spazio per nessuno sbaglio, neppure il più piccolo. E se ciò avrebbe significato cancellare ogni sorta di amicizia con Jacob l’avrei fatto, non a cuor leggero, ma sicuramente molto più libero e sgombro che al solo pensiero di separarmi anche minimamente da Edward.

Non rimanemmo soli a lungo. Presto Alice tornò a farmi visita, portando con sé nuovi ricambi per quei giorni. Pigiami nuovi di zecca che non avevo mai visto in vita mia. Avrei voluto essere più di compagnia, avrei voluto risponderle e partecipare al dialogo sussurrato fra lei e il fratello. Ma non ne avevo la forza.

«Tesoro, come ti senti?» domandò, accarezzandomi i capelli e chinandosi su di me. «Gli altri vorrebbero venire, dopo, o magari domani, durante l’orario delle visite. Mi dispiace per… Jasper» la sua espressione si fece tenera e crucciata «lui non se la sente di venire qui, ma ti manda i suoi saluti».

Sorrisi, debolmente. «Certo, Alice. Grazie» sussurrai, prendendo un fiato più lungo del precedente. Il respiro era corto, affannoso.

«Vuoi ancora la mascherina?» mi chiese gentilmente Edward, accarezzandomi la nuca scoperta. Stavo girata su un lato, quello che mi pareva dolesse meno, per cercare di calmare tutti gli altri dolori, pulsanti come stelle in un cielo di luglio.

Scossi il capo, tentando di raggomitolarmi maggiormente su me stessa.

Poco tempo dopo chiamò mia madre, allarmata e preoccupata. Ci vollero Alice e le sue parole dolci, prima che fosse in uno stato tale da poter parlare con me, e che potessi risponderle.

«Mamma…». Ma la sua voce era troppo acuta e squillante per la mia testa martoriata, e le mie risposte sempre più brevi, deboli e rotte.

Feci una smorfia di dolore, stringendo le dita sul piccolo cellulare. Me lo sfilò dalle dita Alice, riprendendo a parlarle.

«Stai bene?» mi chiese Edward, facendo il giro del letto per venirmi vicino. Ansimai leggermente, stringendo il punto del torace da cui sentivo provenire maggiore dolore. Mi sfiorò il viso. «Vuoi girarti Bella?».

Annuii, serrando i denti e gli occhi. Mi sollevò delicatamente, attento a non causarmi più dolore di quanto non ne stessi sentendo. Mi prese una mano, accarezzandomi i capelli in attesa che scemasse. Ma, anziché calmarsi, aumentava di secondo in secondo, pulsando, inesorabile. Provammo con l’ossigeno, sperando che se fossi riuscita a respirare meglio anche il dolore si sarebbe assopito. Neppure quello funzionò.

«Chiamo l’infermiera, ti darà qualcosa» mormorò, rassicurandomi, premendo il tasto rosso sulla mia testa.

«Edward» mormorai, agitata, quando l’infermiera entrò nella mia stanza con una siringa di antidolorifici. La mia mente era frastornata e sconvolta, e non potevo fare a meno di pensare a quello che sarebbe successo di lì a poco, quando anche Carlisle sarebbe dovuto intervenire.

Mi sorrise, un sorriso che voleva essere sereno e rassicurante. «Tranquilla, non ti toccherà» mi rassicurò, chinandosi a sfiorarmi le labbra.

«Va tutto bene, piccola. Presto non sentirai più dolore» mi rassicurò l’infermiera, iniettando il medicinale direttamente nel tubicino trasparente collegato alla mia vena. «É un leggero antidolorifico. Il dottor Cullen ha detto che dopo dovranno intervenire e in quel caso le somministreranno un anestetico locale. Edward» lo salutò, uscendo dalla stanza.

Sbattei le palpebre, stringendo la presa sulle lenzuola. Non volevo che si preoccupasse ancora; mi rendevo conto di quanto la situazione fosse grave di per sé e mi sentivo profondamente in colpa per l’angoscia che gli stavo causando. Così volevo starmene zitta, nel letto, le labbra serrate, quasi pensando che sarebbe stato meglio - per lui, non certo per me - se non avesse assistito all’intervento che di lì a poco mi attendeva. Potevo essere tanto egoista da volerlo accanto, ad ogni costo?

Portai una mano al viso, nascondendolo. In poco tempo i polpastrelli si bagnarono delle lacrime che mi scorrevano dagli occhi.

«Ehi» mormorò Edward, preoccupato, scostandomi la mano dal viso.

«Fa male» singhiozzai, tentando di asciugarmi le guance.

Mi prese il volto fra le mani, baciando delicatamente la fronte, il naso, le labbra. «Va tutto bene» mormorò, sedendosi sul letto accanto a me. Con estrema delicatezza passò un braccio attorno alle mie spalle, sollevandomi per stringermi fra le sue braccia. «Adesso passa, vedrai. Aspetta che i farmaci facciano effetto» mi rassicurò, cullandomi a sé, baciandomi le palpebre chiuse e pesanti.

Non potevo immaginare una vita senza di lui. Rabbrividii, ricordando l’angoscia e il terrore che avevo provato, sognando di averlo perso per sempre, per causa mia. Perdere le sue labbra sul mio viso, quel meraviglioso contatto duro e freddo che mi faceva entusiasmare e rabbrividire.

«Va meglio?» mi chiese, sorridendomi, quando riaprii gli occhi.

Annuii, avvicinando il naso bagnato alla sua mascella, baciandolo piano. «Grazie» borbottai, stringendo il suo maglione con la mano.

Si chinò sul mio orecchio, sospirando piano. «Non dovresti ringraziarmi. Fra poco saremo sposati, e credo che questo rientri in uno dei cosiddetti “doveri coniugali”. Non essere così imbarazzata, Bella, ti prego» fece dolcemente, con un sorriso. E avrei ribattuto se non avessi saputo quanto ci sarebbe rimasto male, così serio come, in fondo, era. «Voglio che il mondo sappia quanto ti amo. Che sappia che sei mia».

Sarebbe stato un magico momento di distrazione se non: primo, il monitor non avesse iniziato a contare i miei battiti, impazzito; secondo, l’infermiera non si fosse precipitata in camera trovandoci così avvinghiati.

Spalancai gli occhi, arrossendo. Provai a separarmi dal suo corpo, ma lui mi trattenne, non dandomi via di fuga. Immaginavo che sarebbe stata davvero dura stare in ospedale quei giorni.

«Edward, Bella dovrebbe riposare» lo ammonì, le mani sui fianchi.

Il viso del mio fidanzato si aprì in un sorriso angelico. «É proprio quello che avevo in mente, Mrs Nupe. Bella non riusciva a calmarsi, aveva dolore» spiegò, mellifluo.

La donna arrossì, e borbottando uscì dalla stanza, senza replicare.

«Edward» biascicai indignata, ancora troppo rossa per dare al mio viso una parvenza di serietà. Sapevo che per lui non era un problema farci trovare vicini, o abbracciati. Ma io non ero come lui. Aveva ragione: ero terribilmente timida e imbarazzata.

Mi sorrise, un sorriso furbo, ma presto il suo viso si distese in un’espressione dolce. «Ho detto la verità» mormorò, baciandomi la fronte.

Mi lasciò andare fra le coperte, rimanendo seduto accanto a me, accarezzandomi e baciandomi.

 

La porta della stanza si aprì.

«Ci siamo Bella. Non ti preoccupare e andrà tutto bene».

«Certo» sussurrai. Sarebbe andato tutto bene con Edward accanto a me.

Almeno, lo speravo.

   
 
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