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Autore: bebborahfeliz    23/12/2015    1 recensioni
Marbola è un’elfa particolare che sta raggiungendo ormai la seconda età e che da secoli vive nello stesso luogo: Ardena. Certo, un bosco meraviglioso, assieme ai membri della sua razza, ma monotono e limitato da regole e avvenimenti sempre uguali a se stessi. L’unico evento di particolare importanza è la comparsa nel cielo della luna rossa, foriera di sventure e portatrice di catastrofi. Ogni sei anni quella luna compare nella volta che illumina Liriel e giorno dopo giorno, accompagnata da una serie di spaventosi terremoti, malattie incurabili e guerre implacabili, si avvicina alla luna bianca per coprirla con la sua mole e la sua luce rossa. La nostra storia inizia qualche giorno dopo l’eclissi.
Essa porterà a Marbola un dono particolare che cambierà per sempre il suo mondo.
Se vi piace come scrivo o se vi interessa sapere cosa accade ai personaggi, vi informo che questa storia è un prequel al libro che ho pubblicato nel 2014, Il Sigillo della Luna Rossa, con il gruppo Albatros il Filo. Ogni personaggio o fatto qui di seguito presentato è protetto da diritto di autore.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sei anelli erano posati sul suo posto, proprio davanti allo scranno di Marbola.

Era piacevolmente colpita e senza parole. Lanciò un’occhiata interrogativa a Zeriah. Sapeva che era stata lei a spostare l’anello dal proprio al suo posto. L’elfa, quasi leggendole nel pensiero, scosse la testa, dicendole così che mai avrebbe voluto occuparsi delle due bambine.
Aveva spostato l’anello per far si che le bambine andassero a lei.

Che fosse una coincidenza o una pianificazione ben congegnata dai presenti, Marbola ne era felice. E al contempo spaventata. Non era capace, non aveva esperienza, non sapeva nulla di bambini.
«Non posso» mormorò, guardando Eloian e facendo un passo indietro, «Davvero, non posso! Non ho mai avuto figli! Zeriah può occuparsene! Lei ha avuto tre figli! Lei sa come funzionano queste cose!».

«Ti presterò assistenza, ma non sarò la responsabile. Dopotutto, sei stata scelta all’unanimità! Ti sei scelta da sola!» fece Zeriah con tono pressante. Sembrava intimarle di tacere e di non rivelare agli altri anziani cosa aveva fatto, e per un istante Marbola ebbe la tentazione di dire che Zeriah aveva spostato l’anello. Tuttavia, ciò avrebbe messo in difficoltà l’anziana ma non avrebbe tolto a Marbola la responsabilità; anche senza il suo voto, tutti gli altri avrebbero messo l’anello sul suo posto.

Marbola passò gli occhi su ognuno di loro e in qualche modo avvertì la loro complicità. Si erano schierati contro di lei.

Eloian fece un passo avanti per dire «D’ora in avanti dovrai crescere le Impure secondo i principi degli elfi e per nulla al mondo dovranno avere alcun contatto con il mondo umano! Sarai dispensata dalle tue mansioni di consigliere per la maggior parte del tempo. Ti sarà data assistenza nel caso tu la richieda. Dovrai mantenere il segreto sulla loro provenienza, non potrai parlarne con nessuno, e dovrai mantenere la maggior distanza possibile dal resto della popolazione di Ardena!».

Marbola avvertì un freddo gelido invaderle il petto. «Mi state isolando! Allontanando dalla mia cultura, dal mio mondo!» li accusò. Vide, per un istante, il sorriso di trionfo di Baladar e comprese che quello era stato il suo obiettivo fin dall’inizio.

«Sei stata scelta. Ogni contravvenzione alle regole ti costerà caro, perciò cerca di stare lontana e avere meno contatti possibili con qualunque altro elfo! Questo è quanto! Puoi andare!». Eloian le indicò la cesta e la congedò con un cenno brusco della mano. Ancora stordita, Marbola allungò le dita per riprendersi l’anello bianco, ma Eloian esclamò «Ah, quello non ti servirà più. Non fai più parte a tempo pieno del consiglio, perciò ogni tuo vantaggio sarà annullato seduta stante».

«Ma … come farò a sopperire ai bisogni miei e di due bambine? Senza i vantaggi dei consiglieri, come posso occuparmi di …».

«Questo è di tua responsabilità! Sei stata scelta, e da adesso è compito tuo pensare ai vostri bisogni» disse Baladar con freddezza disarmante. A Marbola mancò il fiato. «Ti verranno tuttavia pagati i servigi che ancora offrirai durante il resto dei giorni che passerai al consiglio. Se sarai assente, non ti verrà dato nulla».

Una furia cieca, rossa, travolse Marbola, che avvertì delle parole poco gentili salirle alle labbra. Per qualche istante lottò contro se stessa nel tentativo di impedirsi di pronunciarle, quindi afferrò la pesante cesta, coprì di nuovo le due bambine con il telo e, faticosamente, andò alla porta della sala.
Restò qualche momento a fissare quel legno bianco, massiccio, e avvertì tutto il peso di quello che era successo. Sapendo che se avesse messo a terra la cesta non sarebbe più riuscita a sollevarla, bussò per farsi aprire dall’esterno.

Una risata rauca alle sue spalle le disse che Baladar era contenta. Le porte si aprirono e Marbola sgusciò fuori dalla sala con il volto rosso dalla rabbia e dalla vergogna. Fece qualche passo, ma barcollò e rischiò di cadere sopra la cesta che quasi le scivolò dalle mani. Ad aiutarla, come ultimamente accadeva spesso, comparve Yolas. Mise una mano sotto la cesta e la aiutò a tenerla in equilibrio.

Il suo sguardo allarmato si fissò su di lei, «Sei pallida» mormorò piano.

Marbola sentì le lacrime salirle agli occhi. Tentò di parlare ma le labbra le tremarono talmente forte che dovette rinunciare a trasformare in parole ciò che provava. Si sistemò meglio la cesta sulle braccia e fece per andarsene sotto lo sguardo rigido delle altre guardie, rimaste nel corridoio in attesa di ulteriori ordini. Yolas, che sarebbe dovuto tornare immediatamente al suo posto, la seguì all’esterno.

«Lascia che ti aiuti» le suggerì, abbandonando la lancia lungo il muro esterno e porgendole entrambe le mani. Marbola scosse la testa tenendo gli occhi bassi. «Avanti, Marbola! Lascia che ti aiuti!».

Lei lo guardò diretta, «Non serve più che tu sia gentile con me! Mi hanno cacciata. Congedata!».

L’elfo restò interdetto. «Congedata? Si può essere congedati dal consiglio?».

«Evidentemente sì!» ringhiò lei, furiosa, «Ora lasciami passare!».

«No. Parlami! Spiegami come è successo!». Marbola cercò di aggirarlo, ma lui la prese per le spalle, impedendoglielo. «Non ti ho aiutata perché eri del consiglio! Ti ho aiutata perché eri in difficoltà, e ora lo sembri anche di più di quando hai smesso di respirare! Per la Sacra Madre, Marbola!» esclamò esasperato quando lei riuscì a scivolare via dalla sua presa e a dirigersi verso la cesta sospesa tra i rami.

«Ho scelto di proteggere la cosa sbagliata, e così ho perso tutto!» sbottò l’elfa, cercando di richiudere il portellino prima che Yolas salisse a sua volta, ma era troppo tardi. Lui le era già accanto.

Sembrò valutare le sue parole e cercarvi un senso, «Cosa hai protetto?».

Marbola aprì la bocca per rispondergli sinceramente. Poi si accorse che un soldato si era affacciato ai portoni per vedere che fine avesse fatto il capitano delle guardie. Yolas sarebbe stato nei guai se non fosse tornato immediatamente al suo posto. Perciò Marbola assunse un atteggiamento freddo.
«Scendi» gli intimò, mettendogli una mano sul petto coperto dall’armatura leggera e togliendola subito quando arrossì a quel contatto. «Scendi!». L’urlo lo scosse talmente tanto che l’elfo, anche se contro la sua volontà, abbandonò la cesta e le permise di tornare a casa sua senza ottenere una spiegazione adeguata.

A Marbola non interessava, non in quel momento. Con fare protettivo nascose la cesta alla vista degli elfi che le passavano accanto – per quanto la mole della cesta glielo permettesse, e alla fine si rifugiò nella calma sicura della sua abitazione bianca.

Con un sospiro di sollievo, appoggiò la cesta sul tavolo, liberandosi di quel peso che le aveva provocato forti fitte alla schiena. Non era abituata a svolgere lavori pesanti. Nessun elfo era abituato a quel genere di fatica. Solo le guardie erano addestrate e muscolose. Proprio come Yolas.

Quel pensiero la schiaffeggiò con forza. «Oh, Sacra Madre!» sbottò, confusa. Si appoggiò al tavolo e, dopo aver scacciato quei pensieri assurdi, con le dita sollevò piano la coperta per sbirciare le due bambine ancora addormentate. Allora si sedette e, mani intrecciate e sguardo concentrato, attese. Attese un qualsiasi segno di risveglio da parte delle due Impure.

Attese finché qualcuno non chiamò il suo nome. Marbola balzò in piedi, e vide che alla finestra c’era Filiena.

«No. Non adesso!» mormorò disperata, guardandosi intorno in cerca della coperta. La raccolse da terra, dove era scivolata durante la sua momentanea perdita di consapevolezza, e la gettò sopra la cesta, poi uscì dalla porta per richiudersela subito alle spalle, rivolgendo un sorriso teso all’elfa.
Filiena, con la fronte aggrottata, si ritrovò a pensare quanto quel comportamento fosse davvero strano.

«Non ti ho più vista da quando sei salita al consiglio, per cui mi stavo preoccupando. Cosa ti hanno detto? Gli esploratori non hanno saputo spiegarci cosa ci fosse di tanto urgente …». Allora notò come Marbola cercava di evitare il suo sguardo e di come non si schiodasse dalla porta, come per paura che potesse entrare. «Marbola?».

L’elfa dagli occhi gialli tornò presente e, piano, sussurrò «Non dovrei dire niente a nessuno». Tuttavia prese il polso di Filiena e la trascinò in casa dopo aver ponderato a lungo sulle possibili conseguenze di quel gesto. La portò davanti al tavolo, e le mostrò la cesta. «Questo è successo!». Tolse la coperta e mostrò all’elfa il suo contenuto.

Filiena trattenne il fiato, emettendo un verso strozzato a quella visione. Per lunghi istanti rimase ad osservare le due bambine con occhi spalancati.
Si portò una mano al cuore e soffiò «Sono due Impure». Era un’affermazione. Guardò Marbola con occhi sgranati, «Cosa ci fanno qui?». Indietreggiò di un passo, come se potessero essere pericolose. Poi notò l’espressione afflitta di Marbola e comprese, «Ecco cosa hanno riportato! E le hanno affidate a te?». Era sempre più scioccata. «Ti è stato dato un compito tanto ingrato dal consiglio stesso?».

«Abbiamo fatto una votazione, sì. Hanno scelto me! Ma io non so come ci si occupa di un bambino! Filiena, mi devi aiutare! Mi hanno tolto ogni privilegio di Consigliera e di Somma! Non posso fare più nulla da sola! Ho bisogno di te!».

Di fronte a quella supplica, Filiena boccheggiò. I suoi occhi corsero alle bambine e poi di nuovo su Marbola, «Io non … non credo di poterlo fare. Sono Impure, Marbola!» insistette, prendendole le mani tra le sue e fissandola come se fosse spiritata, «Non dovrebbero esistere! Potrebbero ucciderti, ucciderci tutti!» cercò negli occhi dell’elfa una qualche comprensione, ma Marbola si stava facendo sempre più fredda e distaccata.

«Mi stai dicendo di fare che cosa?». La voce di Marbola era dura.

«Liberatene! Abbandonale nel bosco! Lasciale a qualche umano, ma non tenerle qui!». Filiena sembrava seria, e decisamente spaventata.

«Non pensavo che avrei mai sentito pronunciare queste parole dalla tua bocca» soffiò Marbola mentre il fiato le veniva a mancare. I suoi occhi si fecero lucidi, «Io credevo che avresti capito, che mi avresti aiutato. Non possiamo uccidere delle bambine!».

Filiena si staccò da lei e fece un passo indietro, «Non le uccideremmo. Le abbandoniamo e lasciamo che la natura faccia il suo corso! Se devono vivere, vivranno! E se devono morire, sarà la natura a decidere!». Anche lei aveva indurito i tratti del viso e la sua voce si era fatta più profonda e più decisa.

«Sono bambine» insistette sconsolata Marbola, sopraffatta da un intensa nausea per ciò che stava ascoltando. Le parve assurdo dover ripetere più volte quelle due parole. Come potevano non comprendere una cosa così semplice?

Filiena inspirò a fondo, e sembrò prendere una decisione definitiva. «Se tu insisterai su questa strada, non sono sicura di poterti restare accanto. Non voglio immischiarmi con qualcosa di tanto pericoloso. Tuttavia mi fido ancora di te e del tuo giudizio». A quel punto, il suo tono si raddolcì all’improvviso, «Non lo faccio per cattiveria, ma quelle due creature sono pericolose! Gli anziani lo hanno sempre detto».

«Beh, forse gli anziani sbagliano e mentono!» sbottò Marbola, pentendosene subito. Difatti, Filiena la guardò con orrore. Le lanciò un ultimo sguardo significativo, poi le voltò le spalle e andò alla porta. Prima che la richiudesse, Marbola la richiamò, «Filiena! Non puoi rivelare a nessuno cosa sono queste due bambine! Lo sospetteranno, ma non dare loro alcuna conferma! È un ordine del consiglio!».

Filiena si girò indietro e i suoi occhi lampeggiarono di furia, «Non lo direi a nessuno in ogni caso. Non voglio che qualcuno sappia che sono entrata in contatto con qualcosa di così sporco e pericoloso! Il tuo segreto è al sicuro. Ma bada bene, Marbola …» proseguì, di nuovo fredda, «Non tutti ti lasceranno in pace. Non tutti manterranno il silenzio! Fai attenzione». Detto questo, si richiuse la porta e si allontanò in fretta lungo il pontile.

Marbola finalmente riuscì a respirare liberamente. L’intensità di quell’incontro le aveva prosciugato tutte le energie. In quel momento avrebbe voluto avere qualcuno accanto che la consolasse, che le dicesse che andava tutto bene. Si sentiva ancora una bambina dentro, una adolescente che per secoli aveva fatto sempre le stesse cose, che era rimasta relegata nello stesso posto con le stesse persone che le imponevano le stesse regole e la indottrinavano con le stesse idee di quando era più piccola.

«Se sapessero da dove vengo …» Marbola si rivolse alla cesta con tono scontento, quasi aspettandosi una risposta. Le bambine erano ancora immobili, respiravano appena. I loro volti paffutelli contrastavano troppo con le orecchie lievemente appuntite. Di certo non sembravano bambine elfe, avevano tratti rotondeggianti troppo simili a quelli dei bambini umani. Marbola li aveva visti da lontano, una volta. Non le erano piaciuti, troppo chiassosi e lamentosi.
Tuttavia possedevano una bellezza particolare, in un senso affilata, proprio come quella degli elfi, e i loro capelli avevano sfumature e riflessi che solamente gli elfi possedevano. Gli occhi le avrebbero rivelato se potevano passare per bambine elfe o se sarebbe stata costretta a tenerle chiuse in casa per sempre.

Incerta sul da farsi, allungò le mani per prendere una delle due in braccio. Le pose le mani sui fianchi e cercò di sollevarla, ma la pelle morbida e liscia scivolò via come acqua. Allora tentò di mettere le mani sotto le ascelle della piccola dai capelli neri e, una volta assicuratasi di avere una buona presa, la sollevò lentamente in aria per toglierla dalla cesta.

La testa della neonata penzolò subito all’indietro, e Marbola, agitata, la rimise tra le stoffe della cesta, spaventata all’idea di averle fatto del male.
Si portò una mano sotto il mento e la fissò incerta nel tentativo di escogitare un modo per tirarle fuori da lì senza rischiare di romperle. Radunò allora una serie di cuscini a terra, vicino alle gambe del tavolo, poi usò uno degli stracci nella cesta per avvolgere completamente la bambina, dalla testa ai piedi.

Certa di aver legato bene i lembi della tunica, sollevò l’intero fagotto e, con movimenti lenti e ponderati, appoggiò la bambina sui cuscini per terra.
Ansimante, si asciugò il sudore dalla fronte e si guardò le mani tremanti. Quella tensione l’aveva sfiancata. Tuttavia, radunò ancora qualche altro cuscino vicino a quelli già a terra e fece la stessa cosa con la bambina dai capelli rossi. Ora entrambe si trovavano sul letto di cuscini che ricopriva il pavimento.

«Bene!» sospirò Marbola, sedendosi sulla sedia e osservandole con una certa indecisione. «Ora devo trovarvi un posto dove dormire!». Si guardò intorno, in cerca del luogo adatto, e alla fine optò per l’angolo più remoto e spoglio della stanza.

Allora si acquattò a terra, accanto ai cuscini, e iniziò a spingerli con le mani. Nel farlo, però, alcuni rimasero fermi, e altri presero direzioni diverse, così che all’improvviso la bambina dai capelli rossi scivolò tra le aperture dei cuscini, rotolando sul pavimento e rimanendovi immobile.

Marbola si ritrovò a fissarla con occhi spalancati. Ebbe un tuffo al cuore quando pensò di averla uccisa, ma quando le mise le dita sul collo, sentì che il battito del suo cuoricino era ancora forte. Con un sospiro di sollievo, sospinse di nuovo il corpicino avvolto negli abiti sopra i cuscini e ritentò, questa volta con più calma. Dopo vari tentativi, durante i quali dovette prodigarsi per far sì che le bambine non crollassero di nuovo sul duro pavimento, riuscì a relegarle, assieme ai cuscini, nell’angolo che aveva scelto.

Lì, seduta a terra, Marbola si mise ad analizzarle meglio. «Hanno un gran testone» mormorò tra sé e sé, piegando la testa di lato. Uno sterno sporgente, ma braccia e gambe piccole e magre. «Molto diverse da un bambino elfo» concluse, lievemente disgustata dal colore cinereo della pelle delle bambine. Gli elfi, quando nascevano, erano perfetti, belli rosei, con volto affilato, arti per nulla raggrinziti e occhi intelligenti.

«Di certo non spiccherete in bellezza …» sospirò Marbola, alzandosi in piedi e osservandole dall’alto. Ancora immobili nella stessa posizione in cui le aveva lasciate, le bambine sembravano così fragili e infreddolite che Marbola rovesciò sopra di loro l’intera cesta di vestiti e stracci che le avevano accompagnate in quel lungo viaggio.

Oltre ai tessuti, però, cadde anche qualcos’altro. Incuriosita, Marbola appoggiò a terra la cesta e allungò la mano verso la lettera che era caduta proprio tra i due corpicini inerti. Sulla carta esterna non vi era scritto nulla, né un mandante né un ricevente. Marbola fece per rompere il sigillo che racchiudeva probabilmente il nome della madre o delle due bambine, ma si fermò poco prima di usare le unghie per spezzarlo.

Guardò la lettera con crescente incertezza, e alla fine prese la decisione di non aprirla. Ora non voleva sapere nulla del loro passato, e loro non sarebbero state abbastanza grandi da capire, perciò andò in camera e nascose la lettera nel cassetto più in alto della cassettiera.

Passò davanti allo specchio e, soffermandosi a guardare il suo riflesso, notò quanto apparisse stanca. Solo in quell’istante le dispiacque per come aveva trattato Yolas. Scosse la testa, arrabbiata perché i suoi pensieri correvano sempre a lui, quindi si gettò sul letto e lì vi rimase finché non prese sonno.

Quella notte, sognò una donna. Una donna bellissima, dai corti capelli rossi e dallo sguardo triste, vestita con una tunica sporca di sangue. La donna le indicò la cesta dove le due bambine piangevano, poi scomparve nel nulla in una nuvola di fumo. 
   
 
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