*****
Travis’
POV
Tutto
quello cominciava davvero ad innervosirmi.
Dopo
tre settimane passate solamente ad allenarmi senza
pensare ad altro – o almeno provandoci – avevo
iniziato a dare di matto, prima
ritrovandomi a parlare con me stesso, poi cominciando a rispondere ai
miei
compagni come se fossi appena tornato all’età
della pietra. E non capivo
davvero perché.
Insomma,
avevo quelle stramaledette Olimpiadi per cui
prepararmi e Claudio continuava a farmi sempre più
pressione, come se non bastasse
la mia emotività già traballante. E
più che di emotività, si trattavano di
nervi che non ne volevano sapere di restarsene buoni ed indisturbati.
Tre
settimane passate ad assimilare più cloro che altro e
cominciavo davvero a non avere più un briciolo di pazienza
per quella che era
diventata davvero una situazione assurda, una comica, perché
da fuori doveva
per forza esserlo. E se non fossi stato io, il diretto interessato,
probabilmente ci avrei riso sopra. Ma ero il protagonista sfigato di
quella
commedia da quattro soldi che era diventata la mia vita.
Non
avevo idea di che fine avesse fatto la calma che
avevo sempre pensato di avere, doveva aver alzato bandiera bianca dopo
il mio
ennesimo tentativo – andato a vuoto – di darmi una
regolata. Ed al posto suo,
avrei fatto la stessa identica cosa.
Cominciavo
a credere davvero di essere un caso disperato.
Gli
ultimi avvenimenti con Maya mi avevano scombussolato
più del solito, e la cosa che mi faceva innervosire
maggiormente era come non
riuscissi a capirne il vero motivo. Forse, quando si era presentata a
casa mia,
del tutto inaspettatamente, avevo sperato che qualcosa avesse capito e
che si
fosse data una svegliata, ma mi ero sbagliato completamente. Mi ero
lasciato
incastrare senza nemmeno rendermene conto e ci ero finito con tutti e
due i
piedi, in quel baratro che erano diventati gli occhi di Maya.
Perché aveva
avuto la stupida accortezza di stregarmi, quella ragazza, come se non
bastasse
la mia stupidità a darmi una sonora spinta.
Mi
ero lasciato trasportare dalle emozioni e quello era
il risultato, e mi meritavo tutto quello che stavo passando. Solamente
perché,
se avessi avuto un briciolo di intelligenza in più, non
sarei finito per tenere
a quella ragazza molto più di quanto non fosse concesso. E, dannazione!, non era da me, quello non
ero io e non mi riconoscevo davvero più, non sapevo
più chi ero.
L’unica
cosa che riusciva a darmi un barlume di speranza
era il dubbio che aveva instillato l’improvvisa comparsa di
Maya al mio
appartamento, quella sera. Perché se davvero non fosse stata
coinvolta, non
sarebbe accaduto davvero nulla.
Continuavo
a ripetermi che non poteva davvero andare in
quel modo e che quella stramaledetta donna non aveva detto tutta la
verità,
nemmeno a sé stessa, probabilmente. Mi ero ripromesso, poi,
di venirne a capo,
in qualche modo, prima o poi.
Cercai
di tornare con la mente al nuoto, nonostante
sembrasse davvero un’impresa titanica, ma dovevo farlo,
dovevo darmi una
svegliata e cercare di non deludere quelli che ancora credevano in me e
nelle
mie potenzialità, Claudio in primis. Claudio che, proprio
quel giorno, sembrava
avere un diavolo per capello.
Nell’ultimo
periodo era stato parecchio intrattabile,
certo, ma non era mai arrivato a quei livelli nemmeno nei suoi giorni
peggiori,
ed il fatto che fosse anche lui messo come me mi rassicurava, in parte.
Inoltre, mi incuriosiva davvero tanto ed avrei voluto scoprire il
motivo di
quel suo caratteraccio, se non avessi rischiato di andare incontro a
morte
certa, più o meno.
Sembrava
portarsi appresso un’aura pericolosa e cattiva
che lasciava tutti quanti a debita distanza, ed i suoi occhi sempre
allegri e
gentili non erano mai stati tanto burrascosi. Poi lo vidi dirigersi
verso di me
a passo di marcia, facendo allontanare chiunque gli passasse accanto,
ed io non
potei fare a meno di provare un leggero brivido di paura.
“Dannazione, Travis”,
esclamò, fulminandomi con lo sguardo. “Pensi
di rientrare in acqua e lavorare, almeno tu? Hai deciso di prenderti un
giorno
di ferie?”. Okay, forse intrattabile
non era la parola adatta e nemmeno nero
di rabbia, era proprio incazzato come non lo avevo mai visto.
E
probabilmente con il mondo intero.
“S-scusa, Claudio”,
mormorai, distogliendo lo sguardo da quei suoi occhi che non facevano
altro che
scagliare fulmini.
“Niente scuse”,
continuò. “Devi
cominciare a darti da
fare, altrimenti non potremmo mai farcela!”,
aggiunse, sospirando
pesantemente e passandosi una mano sul viso.
C’era
qualcosa che non andava, lo avevo notato subito, ma
avevo preferito restarmene buono, non chiedere nulla già dal
primo momento, ma
cominciavo a non poterne davvero più. Se si fosse comportato
in quel modo
solamente con me avrei anche capito, avrei lasciato perdere e avrei
eseguito i
suoi ordini in silenzio, a testa bassa, ma quando cominciava a
prendersela
anche con il suo collega, Roberto, c’era da preoccuparsi,
sì.
“Claudio”,
cominciai, esitante. “Va tutto bene?”.
Domanda
stupida perché, insomma, non andava tutto bene ed
era palese e tutti avevano preferito evitarlo, piuttosto che chiedere.
Osservai
il mio allenatore calmarsi un attimo, giusto il
tempo di un sospiro più pesante, più stanco,
giusto il tempo per capire che
c’era davvero qualche problema, ma poi
all’improvviso si ritrovò ad indossare
una maschera di indifferenza che metteva quasi i brividi. Ed ecco le
somiglianze con la figlia, quando tutto andava storto, quando la
situazione
cominciava a complicarsi e quando ci si trovava in una situazione
scomoda.
L’indifferenza era la loro migliore arma.
“Ti sembra che vada
tutto bene, Travis?”, domandò diretto,
inviperito. “Sei davvero diventato
tanto cieco da non renderti conto che non ci sia
un cazzo che vada bene, eh?”.
In
anni di allenamento non lo avevo mai sentito
imprecare, mai, per quanto assurdo potesse sembrare. Ed era strano
vederlo,
sentirlo così incazzato con il mondo intero, così
agitato tanto da parlare come
mai aveva fatto. C’era davvero qualcosa che non andava e la
mia mente non
smetteva un momento di agitarsi per cercare di capire cosa ci potesse
essere
dietro a quel suo comportamento. Ma proprio non riuscivo a trovare un
motivo
tanto grave.
Non
credevo nemmeno che in tutto quello potesse avere a
che fare Maya – che non si faceva vedere da giorni -, almeno
direttamente, ma
non si poteva mai sapere. Nonostante dubitavo fortemente che, tra quei
due,
potesse essere accaduto qualcosa di grave.
“Sto parlando sul
serio, Claudio”, gli dissi, serio, poggiando una
mano sulla sua spalla. “Cosa
è successo?”.
Si
guardò in giro per un istante, prima di sospirare
pesantemente e chinare il capo. Sembrò improvvisamente
stanco, sfinito da tutta
quella rabbia che si portava appresso e non mi piaceva affatto, vederlo
così.
Era sempre stato lui quello che se ne andava in giro a rallegrare e
rassicurare
la gente, era sempre lui quello che chiedeva se qualcosa non andava e
non
parlava mai di sé, non dava mai a vedere se qualcosa andava
male. Era
semplicemente lui, una persona che cercava di non buttarsi
giù, di restare a
galla per sé stesso e per gli altri.
Si
grattò la nuca, quando un sorriso amareggiato gli
comparve sul viso, poi si voltò a guardarmi e mi sorpresi
quando notai
un’incredibile somiglianza con Maya, in quello sguardo
stanco, spossato.
“Oggi è
semplicemente una giornata peggiore delle altre, tutto qui”,
cominciò,
tornando ad osservare la piscina attorno a lui e tutti i suoi atleti.
“Diciamo che negli anni passati ho
sempre
avuto la possibilità di restarmene a casa a sbollire la
rabbia, mentre oggi non
ce l’ho fatta”.
“Che giorno sarebbe
oggi?”, non riuscii a trattenermi dal fargli quella
domanda, nonostante
fossi perfettamente consapevole di quanto potessi apparire invadente. E
se mi
avesse detto di farmi gli affari miei avrei perfettamente capito e non
sarei
andato oltre, non ne avevo alcun diritto. Ma invece di mandarmi al
diavolo,
tornò con lo sguardo a terra, Claudio, e anche quella
briciola di sorriso,
seppur non sincero, scomparve.
“L’oggi di
diciannove anni fa, Travis, e mi sembra assurdo che sia passato
così tanto
tempo perché, nonostante provi a farmene una ragione,
continua a fare male”,
mormorò, poi, sospirando per l’ennesima volta.
sembrava costargli uno sforzo
immenso, continuare a parlare. “Diciannove anni fa, ecco quando quella che era mia moglie ha lasciato
me e Maya e se ne è
andata”, concluse, tornando a guardarmi negli occhi.
Ed
io mi sentii estremamente a disagio, perché sapevo che
non avrei dovuto indagare così a fondo, ma ero stato troppo
cocciuto e stupido
per fermarmi. Avevo fatto altre domande ritrovandomi solamente in una
posizione
alquanto scomoda, non sapendo bene come comportarmi. E mi dispiaceva
davvero
troppo per lui, per l’unica persona che mi era sempre
sembrata in grado di
affrontare tutto quanto, nella sua vita, ed invece in quel momento era
davanti
a me, con tutte le sue maschere gettate a terra, senza qualcosa dietro
la quale
nascondersi.
“Io…”,
cominciai, non sapendo bene dove andare a parare, cosa dire senza
risultare un
perfetto stupido. “Io non ne sapevo
nulla, Claudio, mi dispiace, non avrei dovuto chiedere”.
“Non hai nulla di
cui scusarti, Travis, sono io quello che si sta comportando come un
idiota,
oggi”, ribatté, lui. “Ma non posso
farne a meno, non ci riesco. Vorrei solamente tornarmene a casa, sul
divano, e
non pensare a nulla fino a quando questa giornata non sarà
finita. E, probabilmente,
conoscendo Maya, starà facendo la stessa identica cosa: mi
assomiglia su troppi
aspetti, a volte”.
Solamente
in quel momento realizzai che, in quella
faccenda, era coinvolta anche Maya e mi resi conto di non sapere
assolutamente
nulla di lei, niente che la riguardasse davvero perché, se
avessi saputo il
significato di quella giornata, probabilmente non mi sarei trovato alla
piscina. Anche Maya doveva avere sofferto, sempre che non fosse stata
un pezzo
di ghiaccio anche da bambina, ma proprio non riuscivo a vederla in quel
modo.
Vedevo solamente una bambina più piccola della media con un
paio di occhioni in
grado di incantare il mondo.
“Maya come ha
affrontato… tutto quanto?”, chiesi,
infine, cercando di capirne il più
possibile.
“All’inizio è stata
dura, era molto legata a sua madre e ancora oggi non riesco a capire
come abbia
fatto ad abbandonarla, lei, ma poi ha cominciato a reagire e, dopo
qualche
anno, non le importava più, anzi, ha cominciato ad odiarla
davvero. Fino a
quando non si è fermata all’indifferenza totale”,
spiegò, Claudio, e a
volte cercò di buttarla addirittura sul ridere, ma con
scarsi risultati. Doveva
aver sofferto anche per sua figlia e pensare a cosa aveva dovuto
passare nel
periodo subito dopo la fuga della moglie era assurdo, perché
lui era ancora lì.
Non si era lasciato abbattere ed aveva continuato per la sua strada,
insieme a
Maya. “Ma se devo essere sincero,
credo
che lei ne soffra ancora, ma nemmeno se ne rende conto. Ormai avrai
capito
com’è, mia figlia, si nasconde talmente tanto dai
problemi e dalla sofferenza
che ne ha fatto un’abitudine senza accorgersene, e non va
bene. Non fa bene a
lei, perché quando comincerà a crollare,
sarà difficile da rimettere in piedi”.
Rimasi
stupito dalla sua sincerità, da quello che mi aveva
detto e da come, su certi aspetti, la pensassimo allo stesso modo. Ed
ero
preoccupato, per lui, ma soprattutto per Maya che continuava ad
assimilare, a
mandare giù rospi troppo grossi che prima o poi
l’avrebbero fatta esplodere.
Avrei tanto voluto poter risolvere tutto quanto, in qualsiasi modo, ma
non
sapevo da che parte farmi, non sapevo come comportarmi.
Poi
Claudio ricominciò a parlare. “Non
piange da quando ha quindici anni, se non mi sono perso qualcosa.
Credo che abbia accumulato fin troppe delusioni e che abbia bisogno di
distruggere tutti quei muri che ha voluto tanto tirare su. E credo che
da sola
non riesca a farcela”, aggiunse, lanciandomi uno
sguardo che non riuscii ad
interpretare appieno, uno sguardo che mi confuse ancora di
più, perché non
poteva essere possibile che proprio Claudio sapesse qualcosa di sua
figlia e
me.
Distolsi
gli occhi dai suoi, concentrandomi sulla prima
cosa che mi capitò sotto gli occhi, tutto pur di non far
trasparire quel moto
di nervosismo che mi aveva assalito.
“Torna ad
allenarti, ora”, ricominciò, lui,
tornando quasi lo stesso Claudio di poco
prima. “Abbiamo già perso
troppo tempo a
parlare”.
Rimasi
un momento fermo ad osservare il mio allenatore
dirigersi verso altri atleti, facendo finta di nulla, come se nulla
fosse
accaduto, e per certi versi era da ammirare perché era in
possesso di una forza
incredibile, ma restava comunque un uomo che aveva sofferto troppo.
Poi
tornai a pensare a sua figlia, a quella stupida di
Maya che si ostinava a tenersi tutto dentro, ad incassare ogni colpo
senza mai
rispondere a dovere. E non potei fare a meno di chiedermi come potesse
stare,
in una giornata simile, se davvero ne soffrisse ancora come aveva detto
Claudio. Non potei fare a meno di chiedermi quanto l’avrebbe
fatta incazzare
una mia visita improvvisa, proprio in quell’occasione, dopo
giorni di silenzio
radio tra noi.
Me
ne sarei pentito, forse, ma ci avevo pensato talmente
tanto durante la giornata che sentivo il bisogno di togliermi quel peso
dallo
stomaco e scoprire qualcosa di più, come se potesse davvero
servire a qualcosa.
Ma avevo come il presentimento che non avrebbe fatto altro che
complicare tutto
quanto. Come se ci fosse bisogno di qualche altra complicazione.
Così
continuai a bussare e, solamente dopo il terzo tentativo,
sentii dei passi avvicinarsi alla porta e la chiave girare nella
serratura.
Improvvisamente,
venni assalito dall’ansia e da
un’improvvisa voglia di scappare a gambe levate, come se
fuggire in quel
momento fosse servito a qualcosa. Non potevo battere in ritirata, non
in quel
momento, non a quel punto, con la porta che cominciava ad aprirsi
davanti a me.
“Che diavolo ci fai
qui!?”, esclamò Maya, quando si rese
conto di avere me, proprio me davanti
agli occhi. E si fece riconoscere come sempre per la sua delicatezza.
I
capelli legati a caso, sopra la testa, gli abiti
decisamente di un paio di taglie più grandi, il viso stanco:
Claudio aveva
ragione. Era nella sua stessa situazione.
“Pensi di
rispondermi o preferisci restare a fare la bella statuina davanti alla
mia
porta?”
“Ciao Maya, Sì, sto
bene, grazie per avermelo chiesto. Com’era il limone che hai
mangiato
stamattina?”, le chiesi, infine, non riuscendo a
nascondere una nota di
irritazione nella voce. Non aveva più senso cercare di
essere gentile con lei,
soprattutto quando decideva di comportarsi come una zitella inacidita
dalla
mancanza di sesso.
“Pensa a trovare un
valido motivo per essere qui, invece che fare l’idiota”,
continuò, non
lasciandosi impressionare da me. Si appoggiò allo stipite
della porta,con le
braccia incrociate al petto, guardandomi con un sopracciglio alzato,
come se
per lei rappresentassi davvero poco. Ed era esattamente ciò
che stavo provando,
sotto il suo sguardo di glaciale.
“Vorrei parlarti,
anche se può non essere di tuo gradimento”,
cominciai, avvicinandomi alla
porta ed evitando Maya, entrando nel suo appartamento. “Perciò, grazie mille per
l’ospitalità”, conclusi, con
un sorriso
tirato, giusto per il gusto di farla innervosire. Perché
sembrava diventato
l’unico modo efficace per farla parlare apertamente, con
sincerità.
“Dannazione, Travis”,
esclamò, facendo sbattere la porta e lanciandomi uno sguardo
che di
rassicurante aveva ben poco. “Devi
smetterla di fare tutto di testa tua, e non è proprio
giornata, quindi sei
pregato di levare il culo dal mio appartamento ed andartene!”.
Sembrava
davvero al limite della pazienza, con quei suoi
occhi fuori dalle orbite, ma quello era solo l’inizio e non
mi sarei fermato
prima di sentire tutta la sua storia, per filo e per segno. Non mi
sarei
fermato fino a quando non avessi visto tutti quei suoi muri crollare al
suolo.
“Lo so che non è
giornata”, ribattei, continuando a fissarla. Era
arrivato il momento di
smetterla di scherzare e di girarci attorno.
“Bene, allora se…”,
cominciò, fermandosi poi di colpo, dopo aver compreso
appieno le mie parole.
Se
ne restò zitta un momento, con lo sguardo quasi
allucinato e le labbra socchiuse, osservandomi come se venissi da un
altro
pianeta e per un momento ebbi quasi paura di come sarebbe potuta
esplodere,
perché era imprevedibile, Maya. “Come
sarebbe a dire che lo sai?”, mi domandò,
dopo un istante, in un sussurro.
Bomba
sganciata, ed aveva ottenuto l’effetto che avevo
desiderato e non mi sarei fermato fino a quando non avesse detto tutto
quanto.
“Sì”, le
confermai, continuando a scrutarla. “Me
lo ha detto tuo padre, all’allenamento”.
Quelle
poche parole sembravano averla mandata nel panico
più totale ed era palesemente a disagio, lo si vedeva dagli
occhi che avevano
cominciato a posarsi su tutto quanto tranne che sul sottoscritto. E
fece quello
che era solita fare quando cominciava a trovarsi in
difficoltà, scappò per
l’ennesima volta dirigendosi a passo spedito verso la cucina.
Ma non mi lasciai
sfuggire quel briciolo di occasione che sembrava essermi capitata, non
volevo;
così la seguii in silenzio, aspettando che fosse lei la
prima a parlare.
“Beh, non avrebbe
dovuto, non sono affari tuoi”, disse, poi, con fin
troppa calma. “Per una volta avrebbe
dovuto tenere la bocca
chiusa. E tu potevi risparmiarti questa visita, cosa volevi? Vedere se
ero
occupata a piangermi addosso?”, domandò,
infine, voltandosi improvvisamente
a guardarmi. E non vidi altro che fuoco, nei suoi occhi, rimorso e
rabbia.
“Mi spiace
informarti che hai fatto un viaggio a vuoto, Travis”,
aggiunse, e se avesse
potuto avrebbe sputato veleno, prima di tornare a trafficare con le
attrezzature da cucina senza, in realtà, fare nulla di
concreto.
“Ti ho detto che
sono qui per parlare, Maya, o per ascoltare. dipende da cosa ti
può essere più
utile”, ribattei, cominciando ad innervosirmi.
La
vidi voltarsi di scatto ancora una volta verso di me,
con lo sguardo furente e le labbra semiaperte. E se non avessi saputo
che,
tutta quella messinscena, veniva tirata su solamente per proteggere
sé stessa,
avrei quasi avuto paura.
“Credi ancora che
abbia bisogno di te, Travis!?”, mi chiese, con una
risata amara,
schernendomi. “Non mi sono mai
pianta
addosso in vita mia e non ho intenzione di farlo ora, non con te”,
aggiunse, infine, e terminò con meno enfasi, come se fosse
improvvisamente
stanca di parlare. Poi tornò a darmi le spalle, poggiando
entrambe le mani al
banco della cucina, tenendo la testa chinata.
Non
avevo la minima idea di cosa fare e di come
comportarmi, una parte di me avrebbe voluto raggiungerla e sistemare le
cose,
ma non avevo la minima idea di come fare per limitare i danni.
“Maya…”,
cominciai, prima di venire interrotto proprio da lei.
“Non capisco cosa
ti dia il diritto di piombare a casa mia dopo giorni di silenzio,
pretendendo
che mi apra con te su un argomento come… come questo”,
sputò, velenosa. “Davvero,
non riesco a capire come tu possa
avere certe pretese con…”.
“Maledizione, Maya,
smettila!”, esclamai, perdendo definitivamente la
pazienza. “Non sono venuto qui con
delle pretese, e se
per una volta mi ascoltassi capiresti le mie intenzioni. Ma no, devi
sempre
straparlare ed allontanare chiunque cerchi di darti una mano”,
le dissi
esasperato, quasi urlando.
Non ne potevo davvero più di quel suo comportamento e la
odiavo, la odiavo
davvero quando faceva la stronza in quel modo, perché lei
era più di quella
facciata che si ostinava a mostrare, era più di quella
montagna di arroganza e
frecciate non tanto velate. Era molto di più e nemmeno se ne
rendeva conto.
Mi
avvicinai lentamente a lei, in attesa di una sua
risposta che sembrava non arrivare mai, poi le posai le mani sulle
spalle,
cercando di scorgere il suo viso tra tutti quei ricci che le ricadevano
sul
volto. Ma era nascosta tra tutti quei capelli e se ne restava zitta,
non aveva
ancora proferito parole, e l’unica cosa che riuscivo a
percepire erano le sue spalle
che si alzavano ed abbassavo in modo irregolare, come se anche solo
l’azione
del respirare le riuscisse difficile, complicata come non mai.
“Perché mi stai
facendo questo?”, domandò, dopo alcuni
istanti, con voce incrinata. E mi
sembrava tanto vicina la meta, la riuscita dei miei intenti. “Perché cerchi ogni volta di annientarmi?”.
“Maya, ne hai
bisogno”, le dissi, piano, cercando di voltarla
verso di me. “Ne hai bisogno tu come
ne ho avuto bisogno
io, e mi sento in dovere di restituirti il favore”.
“No, non è vero!”,
esclamò, poi, sbattendo la mano contro il ripiano a cui era
appoggiata. “Cazzo, Travis,
è l’ultima cosa di cui ho
bisogno, tu non hai idea di cosa stai parlando”.
Continuò
a tenere lo sguardo incollato al pavimento,
nonostante fossi riuscito a farla girare verso di me, ma sembrava non
volerne
sapere di sollevare gli occhi.
Con
una mano le afferrai il mento e la costrinsi a
guardarmi, notando quanto sembrasse improvvisamente stanca e spossata,
con gli
occhi leggermente arrossati. Stava cedendo, si vedeva, lo sentivo, ed
avevo
paura di cosa avrebbe comportato tutto quello.
“Credi di avere
sempre ragione, tu, di essere sempre nel giusto, ma questa volta no,
Travis,
questa volta ti sbagli di grosso”,
sussurrò, continuando a guardarmi, e a
stento capii le sue parole per quanto parlò piano.
“Questa volta… io, non ce
la faccio”.
Sgusciò
ancora una volta dalla mia presa, scappando,
ancora e cominciò a girovagare per il suo appartamento senza
una meta precisa.
Non avevo idea di come comportarmi e di cosa dirle senza perdere la
pazienza
che, anche in quel momento, cominciava a vacillare.
“Non so come sia
successo, il vero motivo della sua fuga, so solo che è da
pazzi anche solo
pensare di abbandonare i propri figli, non credi? Come può
una madre lasciarsi
alle spalle sua figlia!?”
Aveva
cominciato a parlare davvero, improvvisamente, nel
momento in cui era crollata di peso sul divano, guardandosi le mani che
continuavano a torturare l’orlo della maglia. Ed io avevo
quasi paura di
muovere anche un solo passo: non avrei permesso che si fermasse ancora
una
volta e che si chiudesse in se stessa.
“A cinque anni non
ti rendi conto di quello che ti accade davvero, sei fin troppo
infantile e
stupida, ma crescendo ti rendi conto di tutto quanto pian piano, come
se la
vita non facesse già abbastanza schifo. Man mano che passa
il tempo ti accorgi
di piccoli particolari a cui non avevi nemmeno fatto caso e non hai
idea di
quanto faccia male, di quanto faccia schifo farsi migliaia di domande
per
capire dove hai sbagliato per meritare una cosa simile. Nessun bambino
merita
di essere abbandonato così di punto in bianco, senza una
spiegazione. Ma lei lo
ha fatto ed è stata così tanto stronza che mi fa
schifo anche solo pensarci”,
prese un profondo respiro, passandosi una mano tra i capelli e
stringendo, vicino
alla nuca, fino a farsi male, togliendosi infine l’elastico
che li teneva fermi
a stento.
La
vedevo tentare di trattenersi il più possibile, di
restare in quel precario equilibrio a cui sembrava fin troppo
affezionata, la
vedevo cercare di trattenere le lacrime, di non piangere. Sapevo che si
sarebbe
solamente arrabbiata di più con sé stessa se
avesse perso quella sfida che
sembrava essere diventata invincibile.
“Mio padre ha detto
che se ne è andata per colpa sua, perché la sua
celebrità aveva cominciato ad
infastidirla e non ne reggeva più il peso. Io non ho nulla a
che fare con tutto
questo, secondo lui, e credo sia anche peggio. Significa che nemmeno mi
ha
calcolata, non ha pensato alla sua maledetta figlia nemmeno un istante.
C’era
solo lei e la vita tranquilla che tanto voleva, così se ne
è andata una sera,
mentre ero già a letto. Sai cosa mi ha detto mio padre, la
mattina dopo? Ha detto
che sarebbe tornata, nei giorni seguenti sarebbe tornata ed io ci ho
sperato
così tanto, ci ho creduto fino a star male, ma poi i giorni
sono diventati
settimane, poi mesi e alla fine ho smesso di chiedere che fine avesse
fatto mia
madre e quando sarebbe tornata. Solamente sei anni dopo mio padre mi ha
raccontato tutto quanto, e credo di aver pianto per delle ore, dopo.
Credo di
aver pianto come mai in vita mia e lui non sapeva da che parte farsi,
non aveva
la minima idea di come comportarsi, e come dargli torto?”
, le uscì una
risata amara, che non mi convinse affatto. Sembrava sul punto di
crollare in
mille pezzi da un momento all’altro, di cadere
nell’oblio da cui continuava a
scappare da fin troppo tempo.
“Poi si è fatto in
quattro per me, cercando di seguire allo stesso tempo anche la piscina.
E ci è
riuscito, maledizione! Mia madre aveva avuto così poca
fiducia in lui che per
un momento mi aveva fatto sorgere dei dubbi, ma ora che ci ripenso mi
rendo
conto di come si sia impegnato per non farmi mancare nulla, per essere
sempre
presente. La scuola, i concerti, l’università, i
soldi per pagare questo
appartamento… ha fatto tutto il possibile e anche di
più perché doveva
rimpiazzare una donna che non ha avuto le palle di fare il suo
lavoro!”,
aggiunse, quasi ringhiando ed assottigliando lo sguardo sulle sue mani,
visibilmente nervosa.
“E mi fa incazzare,
non sai quanto, che lei si sia rifatta una vita perché, sai,
quando avevo
sedici anni sono andata a cercarla e l’ho trovata, ho
scoperto dove abitava quella
donna. Sono arrivata in Veneto, facendo credere a mio padre di aver
passato un
weekend a casa di un’amica, e l’ho trovata davanti
ad una scuola. Credo che
abbia vent’anni, ora, la bambina che ho visto correrle
incontro. Dopo quel
momento, me ne sono tornata di corsa a casa, senza nemmeno voltarmi
indietro.
Decisi nel momento in cui salii sul treno che, quella parte della mia
vita, era
conclusa, non ci avrei più pensato. E sono rimasta fedele
alla mia parola… fino
a questo momento”, disse poi, sollevando gli occhi
a fatica ed incontrando
i miei. E la sensazione di disagio che provai fu indescrivibile, fu
come
rendersi conto di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato e con
la
persona sbagliata. Aveva quello strano potere, lei, di farti sentire
come la
persona migliore del mondo, un attimo, e quella peggiore
l’attimo dopo.
“Per colpa tua,
perché sei così cocciuto da farmi venire la
nausea. Sei contento, ora?
Spero
davvero che tu lo sia davvero tanto, perché…
perché io non ne posso
più, non ce la posso fare”,
tornò con le mani tra i
ricci scomposti, prendendosi la testa e scuotendola leggermente.
“Non ce la faccio proprio a
ripensare a mia
madre, fa troppo male. Per anni sono riuscita a tenerla sepolta
chissà dove ed
ora tu, con le manie di sincerità sei arrivato a mandare a
puttane tutto quello
che ho costruito con fin troppa fatica”, il suo
tono di voce si era alzato
notevolmente, diventando più acuto, disperato. Ed avrei
davvero voluto fare
qualcosa per farle passare tutto quel dolore che sembrava provare, ma
non avevo
davvero idea di che cosa fare, di come comportarmi. Me ne restavo in
piedi
davanti a lei, immobile e senza avere la forza di muovere un muscolo.
“Dio, Travis”,
esclamò, all’improvviso. “Perché
lo hai
fatto, per quale assurdo motivo sei arrivato qui come un treno in
corsa!?
Perché? Ti diverte vedermi così?”,
chiese, poi, spalancando gli occhi e
fissandomi. Stava cominciando a crollare, le prime lacrime stavano
scendendo
sulle sue guance e fu come ricevere una pugnalata al petto, vederla in
quello
stato.
“Non pensavo che mi
odiassi fino a tal punto, cosa ti ho fatto di male per meritarmi
questo, eh? Lo
hai fatto perché ti sei trovato nella stessa situazione, eh?
Perché ti ho messo
alle strette e hai trovato il modo perfetto per vendicarti?”,
la sua voce
aveva cominciato ad incrinarsi, a non reggere più la
situazione, così come il
suo viso che sembrava un vero disastro: gli occhi già rossi
e inondati di
lacrime, l’espressione sofferente.
“Non credevo fossi
così subdolo!”, sussurrò,
infine, cominciando a lasciarsi andare in
singhiozzi che cercava comunque di trattenere, abbassando lo sguardo e
nascondendosi dietro i riccioli che le cadevano sulla fronte.
Mi
avvicinai lentamente, con cautela, pensando a quello
che avrei potuto fare o dire, soprattutto dopo quello che mi aveva
detto. Ed io
non volevo assolutamente che pensasse certe cose di me,
perché non avevo
insistito per puro gusto personale. Tenevo a lei e volevo aiutarla,
volevo che
fosse un po’ più spesso la Maya dei primi tempi
dopo quel Capodanno passato
insieme. Non era quella che avevo davanti la donna che mi aveva
lasciato senza
fiato, e vederla in quello stato mi faceva male, mi faceva venir voglia
di fare
tutto il possibile per migliorare la serie di stati d’animo
che parevano sovrapporsi
in lei. Non avevo idea di come avrei fatto, ma ero deciso a fare del
mio
meglio.
Mi
inginocchiai davanti a lei, prendendo un respiro
profondo e cercai di attirare la sua attenzione, abbassandomi a livello
del suo
viso. Ma lei continuava a sfuggirmi, cercando di non incontrare il mio
sguardo.
Così le presi il viso tra le mani, sollevandolo ed
incontrando i suoi occhi,
quell’oceano in tempesta. E fu quasi come una pugnalata al
petto.
“Non sono subdolo,
Maya, e di certo non sono venuto qui con l’intenzione di
farti crollare”,
cercai di sembrare sincero, ma sapevo che sarebbe stato davvero
difficile
convincerla, farle capire davvero per quale motivo mi trovavo
lì. “Voglio solamente
capire per quale motivo sei
diventata così, voglio conoscerti e, questo, comprende ogni
più piccola cosa e
tutto quello che ti è capitato di spiacevole. Voglio
conoscere la vera te, non
quella che si nasconde, non quella che cerca di difendersi ad ogni
attacco,
voglio che ti apra con me e che ti possa fidare. E mi dispiace davvero,
non sai
quanto, di aver riaperto una ferita simile”.
Quanto
può sembrare indifesa una persona, mentre piange,
mentre fa crollare tutti quei muri che per anni ha cercato di mantenere
su?
Quanto può far male vedere una persona cadere a pezzi?
E
lei non ce la fece più a tenersi tutto dentro, a
nascondere tutte quelle sensazioni che sembrava provare
all’unisono. Crollò nel
momento stesso in cui finii di parlare, come se avesse cercato di
resistere il
più possibile, di trattenersi fino al momento giusto, ed i
singhiozzi che
avevano cominciato ad uscirle dalla gola mi stringevano lo stomaco in
una
morsa. Non avevo idea di quanto potesse essere disperata, di quanto
potesse
aver sofferto e, probabilmente, non lo avrei mai saputo, ma il suo
pianto
rendeva perfettamente l’idea.
Si
prese il viso tra le mani, nascondendosi per
l’ennesima volta, così cercai di avvicinarmi
ancora di più a lei e la
abbracciai nel modo migliore in cui potessi fare. Doveva sentirmi
vicino,
doveva capire quanto si potesse fidare davvero di me e non le avrei
permesso di
scappare ancora una volta, non gliel’avrei lasciato fare. Ero
lì per un motivo
ben preciso, cioè prendermi cura di lei e non avrei lasciato
rovinare tutto dal
suo orgoglio. L’avrebbe superato ed io l’avrei
aiutata, a partire da quel
momento.
“Maya, calmati, ti
prego”, le mormorai, tra i capelli, sentendola
tremare tra le mie braccia.
“La fai tanto
facile tu, lo hai sempre fatto”,
esclamò, poi, tra le lacrime,
allontanandomi da lei e cercando il mio sguardo. “Ma non lo è affatto. Non lo è
mai stato e non lo sarà mai. Perché?
Perché mi ha fatto questo!? Cosa ho fatto di sbagliato per
farla scappare?”.
Quella serie di domande dovevano rappresentare una vera e propria
tortura, da
come ricominciò a piangere, più disperata di
prima, e faceva male, faceva
davvero un male cane vederla soffrire in quel modo, vederla tormentarsi
per
qualcosa che con lei non aveva nulla a che fare, perché mi
rifiutavo di credere
che la madre se ne fosse andata per colpa sua. Non avrebbe avuto alcun
senso.
“Non osare
incolparti per una cosa simile, Maya, non pensarci nemmeno!”,
cominciai,
deciso a farmi ascoltare. “Non
è colpa
tua e, onestamente, credo che l’unica ad averci rimesso
qualcosa sia lei, non
tu. Non ha potuto vederti raggiungere i tuoi traguardi, non ha potuto
vedere
come, nonostante tutto, tu sia riuscita a farti strada, a rialzarti con
le tue
gambe. Tu non hai nulla di cui incolparti, credimi. Così
come mi hai detto che
non devo incolparmi per la morte di mio padre, tu non devi farlo per la
fuga di
mia madre”.
La
vidi cercare improvvisamente i miei occhi, guardarmi
con quella che sembrava un briciolo di speranza, quando
sentì quelle parole e
sperai davvero di aver colto nel segno, di poterla convincere seguendo
quella
strada.
Nemmeno
se lo immaginava, ma mi aveva davvero aiutato, mi
aveva fatto sentire meglio, nonostante tutto quello successo a mio
padre non
sarebbe mai passato davvero, ma per un solo momento lo avevo quasi
dimenticato.
Per un solo istante avevo quasi dimenticato cosa significasse crescere
senza un
padre e senza una madre accanto, andare avanti con il pensiero fisso e
martellante di non aver fatto abbastanza e di non essere
mai abbastanza. E lo avevo fatto grazie a quella ragazza che
sembrava quasi irriconoscibile e, per questo, le dovevo almeno quel
favore.
“Tu non hai smesso
di incolparti per tuo padre”, mormorò,
poi. “Non cercare di darmela a bere”.
“Probabilmente una
parte di me si incolperà sempre, ma avevi ragione tu: presto
o tardi sarebbe
successo ed io non sarei stato in grado di fare nulla. Ma la tua
situazione è
ben diversa, tua madre ha fatto una scelta e, nonostante sia stata
quella
sbagliata, ti ha fatto diventare quella che sei oggi”.
Non sapevo più a
cosa aggrapparmi, non avevo idea se quello che le stavo dicendo avrebbe
funzionato, ma ci speravo davvero. E tanto valeva essere brutalmente
sinceri,
in quell’occasione, non farsi scappare quel suo attimo di
debolezza per potermi
aprire lo stretto indispensabile. “E,
nonostante non abbia la minima idea di chi saresti potuta diventare con
tua
madre ancora al tuo fianco, sappi che io preferisco in ogni caso la
donna che
ho davanti agli occhi in questo momento, con tutti i suoi mille
difetti. Vai
bene così, Maya, non credere al contrario”.
“Vuoi dire questo
disastro ambulante?”, chiese, dopo qualche istante,
tranquillizzandosi
leggermente.
“No, tu”,
risposi, togliendole i capelli dal viso. “In
tutte le tue sfaccettature, tu”.
Restò
in silenzio, continuando ad osservarmi, mentre io
cercavo di capire come potesse essere stato tanto semplice dirle quelle
parole.
Perché, diciamocelo, ero stato un vero e proprio idiota a
non dirglielo prima
e, con ogni probabilità, viste le sue condizioni il giorno
seguente non se ne
sarebbe nemmeno ricordata. Ma andava bene così, mi ero tolto
un peso che aveva
sostato fin troppo sul mio stomaco ed era stata una vera e propria
liberazione.
“Continua a fare
male, Travis”, mi disse, poi,con la voce ancora
rotta dal pianto e le
lacrime che avevano ripreso il loro percorso sul suo viso. Le passai le
mani
sulle guance, cercando di limitarmi all’insultare mentalmente
la madre di
quella ragazza che non meritava affatto tutto quel male.
“Lo so, piccola”.
Non riuscii a dirle altrimenti, ad articolare una frase con un senso
perché lei
in quelle condizioni mi destabilizzava e mi impediva di pensare
lucidamente.
Anche se, la maggior parte del tempo, mi annebbiava la vista.
Così mi avvicinai
ancora, abbracciandola delicatamente, stringendola poi più
forte quando
cominciai a sentire distintamente i suoi singhiozzi ricominciare.
Crollò con il
viso nell’incavo del mio collo, crollò in mille
pezzi tra le mie braccia senza
che potessi fare qualcosa di concreto per aiutarla. Ma andava bene
così, sapevo
che prima o poi ce l’avrebbe fatta, sarebbe riuscita a
rialzarsi. Era più forte
di quello che credeva e nemmeno se ne rendeva conto, perciò,
in quell’abbraccio
che di normale aveva ben poco, andava bene così.
Non
avrei
voluto svegliarla, ma dovevo scappare e andarmene senza dirle nulla,
lasciandola svegliare da sola, non mi sembrava proprio il caso. Non
dopo quello
che era accaduto la sera precedente. Era riuscita a prendere sonno
– finalmente
– solamente poche ore prima, probabilmente esausta dalle
varie crisi di pianto
che l’avevano assalita.
Era
stata la
prima volta che avevo visto piangere una persona in quel modo, non
pensavo
nemmeno fosse umanamente possibile, ma era successo. E davanti ai miei
occhi,
per giunta. Avevo avuto paura per me stesso perché non avevo
idea di come
comportarmi, ma soprattutto per lei perché pareva davvero
non riuscire a
smettere ed aveva continuato a tremare contro di me, singhiozzando come
una
bambina. Ma se fosse stata davvero una bambina a piangere in quel modo,
il
tutto si sarebbe risolto in fretta, invece la situazione era seria e
reale e faceva
paura.
Eppure
sembrava
così tranquilla in quel momento, nonostante avesse passato
quelle poche ore di
sonno in preda a sogni che non avevano fatto altro che agitarla, ma
almeno si
era calmata, addormentandosi praticamente addosso a me. Ma non avevo
avuto il
coraggio di spostarla, preoccupato che potesse svegliarsi e
ricominciare ancora
a piangere, a stare male.
Se
ne stava
rannicchiata su un fianco, dandomi la schiena, chiusa talmente tanto a
riccio
che non potei fare a meno di chiedermi come potesse dormire bene in
quella
posizione. Così mi avvicinai a lei, facendo aderire il mio
corpo al suo e le
passai delicatamente la mano sul braccio che spuntava dal lenzuolo,
praticamente abbracciandola.
“Maya”, sussurrai, cercando di
svegliarla
nel modo più delicato possibile. Ma lei sembrava non
ascoltarmi. Provai a
chiamarla ancora una volta, baciandole la porzione di pelle dietro
l’orecchio e
affondando il viso nella massa di capelli scomposti sul cuscino, e
finalmente
la sentii svegliarsi, mugugnando chissà cosa e muovendosi
leggermente.
“Lasciami dormire”,
biascicò, scorbutica,
con la voce ancora impastata dal sonno. Almeno sembrava aver
riacquistato parte
del suo solito carattere.
“Non ti preoccupare, puoi tornare a dormire”,
la rassicurai, sorridendo divertito dalla sua solita indole scontrosa.
“Volevo solamente avvisarti che devo
andare”.
La
vidi
socchiudere gli occhi, stropicciandoseli con una mano, prima di cercare
il mio
sguardo. Come poteva essere così
di
prima mattina, dopo l’inferno che aveva passato la notte
precedente? “Ma che ore sono?”,
domandò, rimettendosi
nella posizione precedente, senza però chiudere gli occhi.
“Sono le sette”.
“E che dovresti fare alle sette?”,
domandò in un sussurro, non riuscendo ad articolare una vera
e propria frase
per colpa del sonno.
“Devo andare ad allenarmi, Maya”,
risposi, spostandole alcune ciocche dal viso perdendomi ad osservare i
suoi
lineamenti. “Tanto per cambiare”,
aggiunsi, in un sussurro. Mi sollevai su un gomito, per poterla
osservare
meglio, per poterla vedere ancora assorta nei suoi pensieri con lo
sguardo
perso nel vuoto, come se nemmeno avesse ascoltato le mie parole. Certo,
aveva
recuperato un briciolo di sé stessa, ma ancora non le era
passata del tutto, ed
era molto più che comprensibile.
Poi
si voltò
con calma verso di me, mettendosi a pancia in alto, fissandomi con
quelle pozze
d’acqua che la sera precedente avevano straripato come non
mai. Metteva quasi a
disagio, quel suo sguardo, come se fosse lì pronto per dirti
che non eri altro che
uno dei tanti, che non eri nessuno, ed io non riuscivo davvero a capire
se
fossero proprio quelli i suoi pensieri oppure se fosse solamente frutto
della
mia immaginazione.
“Sei rimasto”, disse infine,
quasi
sorpresa, lasciandomi interdetto. Davvero pensava che me ne sarei
andato? Dopo
quello che avevo visto non l’avrei lasciata sola nemmeno se
mi avesse buttato
fuori dal suo appartamento a calci, non ce l’avrei fatta.
“Dove pensavi che andassi?”, le
chiesi,
poi, continuando a giocare con i suoi capelli vicino alla nuca.
“Mi hai fatto preoccupare, Maya,
forse non te
ne rendi conto, ma per un momento ho davvero pensato che non saresti
riuscita a
fermarti”.
Tanto
valeva
essere sinceri anche in quell’occasione, nonostante sembrasse
stupido. Ma
quando le avevo detto che mi ero preoccupato era tutto completamente e
assolutamente vero, perché non avrei mai pensato che una
come lei potesse
crollare in quel modo, rompendosi in mille pezzi.
Poi
Maya
afferrò una mia spalla e mi attirò a
sé, ed io rischiai di sotterrarla tra me ed
il materasso, ma sembrava non importarle. E vederla così
bisognosa di un
semplice abbraccio mi lasciò di stucco, perché
vengono sempre tanto
sottovalutati, gli abbracci, e vengono dimenticati, ma con uno come
quelli fu
come tornare a respirare davvero, fu come sentirsi davvero importanti
per
qualcuno. Si aggrappò con un braccio alle mie spalle e alla
mia nuca e con
l’altro mi avvicinò a lei ancora di
più, cingendomi il busto. Così la avvolsi
anche io come meglio potei, affondando il viso nei suoi capelli e
stringendola
a me come non avevo mai fatto, probabilmente. Quasi non mi sembrava
vero,
eppure era stata davvero lei a lasciarsi andare in quel modo, cercando
la mia
vicinanza.
“Sei rimasto”,
ripeté, lei, con un tono
sommesso che avrei scambiato quasi per commosso. “Nonostante mi sia comportata da perfetta stronza,
sei rimasto, ieri
sera”, aggiunse, facendo più salda la
sua presa.
“Stai zitta”, la ammonii.
“Questa volta mi devi lasciare parlare”,
ribatté, lei, non sciogliendo l’abbraccio.
Entrambi
eravamo ben consapevoli che, qualunque fosse il discorso che avrebbe
fatto
Maya, non saremmo mai riusciti a farlo faccia a faccia, guardandoci
negli
occhi, non riuscendo a nascondere la sincerità. Ma andava
bene così, andava
benissimo quell’abbraccio quasi soffocante, ma vero da far
male. Andava bene
parlare sulla pelle dell’altro, e non avrei cambiato un solo particolare
nemmeno se avessi potuto.
“Mi dispiace”, ammise, dopo
qualche
istante di silenzio, sorprendendomi. “Ti
ho trattato malissimo e… mi dispiace, davvero. E per ieri
sera… ti ringrazio”,
concluse, con voce incrinata.
Mi
stesi su un
fianco, trascinando Maya con me per poterla finalmente guardare in
viso, per
vedere quei suoi occhi ancora inumiditi dall’emozione, per
vedere finalmente
quelle sue migliaia di barriere che cominciavano a cadere pian piano.
Le
scostai i
riccioli che le ricadevano sul viso, sfiorandone la pelle con le dita,
mentre
lei sembrava non intenzionata a lasciarmi andare, per una volta. E mi
persi
ancora in quei pozzi che non smettevano un momento di fissarmi, di
scrutare il
mio volto, mi persi come avevo fatto la prima volta e come avrei fatto
ogni
altra volta successiva, probabilmente. E fu proprio in quel momento,
forse, che
mi resi conto di quanto fossi fottuto.
“Sta zitta, una buona volta”, le
ribadii,
avvicinandola ancora a me. “Zitta e
torna
a dormire, ne hai bisogno”.
La
vidi
aggrottare leggermente le sopracciglia, mentre potevo immaginare il suo
cervello intento ad analizzare ogni singolo particolare di
ciò che le avevo
appena detto, poi tornò a rilassarsi contro di me con la
fronte poggiata alla
mia spalla. “Dovresti andare,
allora, se
non vuoi far tardi”, sussurrò, ed io
feci davvero fatica a sentirla. “Mio
padre potrebbe ucciderti, o peggio:
farti fare vasche su vasche fino a quando camperai”,
aggiunse,
ridacchiando. E fu quasi surreale sentire quel suono uscire dalla sua
bocca,
con la sua voce ancora assonnata, perché sembrava davvero
aver recuperato parte
di sé stessa, sembrava che la sera precedente non ci fosse
nemmeno stata.
Rimasi
un
momento in silenzio, a pensare, a cercare di capire cosa fare e come
agire,
nonostante sapessi perfettamente cosa avrei fatto infine. Forse lo
sapevo dal
momento stesso in cui mi ero svegliato con il corpo di Maya accanto al
mio e
con il suo profumo sulla mia pelle, sul cuscino, tra le lenzuola.
Ovunque.
Già
in quel
momento avevo capito che non sarei riuscito ad abbandonarla in una
giornata
simile, nonostante l’allenamento che mi attendeva, nonostante
la ramanzina che
mi sarei beccato sicuramente da Claudio. Non potevo andarmene e non
volevo.
Così mi sistemai meglio sul letto, facendo attenzione al
corpo di Maya e
tornando a poggiare la testa sul cuscino. “Di
allenamenti e di vasche ne dovrò fare in ogni caso, oggi
posso anche mandare a
fanculo il resto del mondo”, mormorai, giocando con
i capelli di Maya, che
sollevò lo sguardo all’improvviso, trovandosi
spaventosamente vicina a me.
Una
stilettata
ai polmoni, ecco cos’erano quegli occhi, perché
che fossero intrisi di
felicità, rabbia o sorpresa, restavano comunque micidiali,
capaci di farti
mancare il respiro. Come quel mezzo sorriso che le spuntò
sulle labbra, che
cercò in qualche modo di nascondere, invano. “L’allievo perfetto che salta gli
allenamenti? Chi sei tu e che ne hai
fatto della superstar, del campione mondiale?”, mi
punzecchiò, ridendo,
portando una mano tra i miei capelli alla base della nuca.
Ed
io mi beai
di quel tocco, cercando di gustarmi il più possibile la
sensazione delle mani
di Maya su di me, seppur solamente tra i capelli. Poggiai la fronte
alla sua,
chiudendo gli occhi e respirando profondamente perché dovevo
trattenermi,
dovevo mantenere il controllo per non rovinare quel momento e la
tranquillità
della ragazza che, la sera prima, aveva perso completamente il
controllo di sé
stessa. Non avrei approfittato di lei in quella situazione, non ce
l’avrei
fatta.
“Oggi sono solamente me stesso, non il
campione, non l’allievo perfetto. Oggi sono solo Travis”,
risposi, cercando
di darmi un tono, nonostante il tocco delle sue mani mi stesse mandando
in
estati, su un altro pianeta dove non c’era il nuoto di mezzo
e dove non c’erano
ostacoli né per lei né per me. “Non
voglio andarmene… posso restare?”, le
chiesi, poi, aprendo gli occhi e
trovando i suoi intenti a fissarmi a pochi centimetri dal viso.
Lei
si limitò
ad annuire, leggermente, come se avesse paura di far conoscere la
propria
opinione in merito, e non mi diede nemmeno il tempo di studiare la sua
espressione, i suoi occhi, che abbassò immediatamente lo
sguardo, tornando a
poggiare la fronte sulla mia spalla, rintanandosi tra le mie braccia.
Ed io non
feci altro che stringerla ancora di più, avvicinandola a me
e sentendo ogni
particella del mio corpo animarsi a contatto con la sua pelle.
Cercai
di darmi
una calmata, di contenermi e di pensare ad altro, ma l’unica
cosa che mi si
parava davanti agli occhi, nella mia mente, quando decidevo di serrare
le
palpebre, era quel sorriso incerto che si era lasciata scappare poco
prima,
come se una qualche emozione diversa dal solito l’avesse
animata.
Era
stato un
passo avanti, quello, una sorta di resa che aveva portato ad un
risultato
migliore di quello precedente. E non me lo sarei lasciato scappare, non
avrei
più permesso a me stesso di fare l’idiota e di
perdere un qualcosa di così
prezioso come la persona che si era addormentata con la testa sopra il
mio
braccio.
Mi
ero
svegliato più di tre ore dopo, con ancora il corpo di Maya
vicino al mio ed il
suo profumo nelle narici. Dava alla testa, tutto quanto, e dava quasi
dipendenza.
Lei
continuava
a dormire indisturbata, fortunatamente, così dopo alcuni
istanti passati ad
osservarla rannicchiata contro di me, decisi di alzarmi per andarmi a
preparare
qualcosa in cucina.
Mi
avrebbe
ammazzato, probabilmente, per aver utilizzato le sue cose senza
chiedere, ma la
sera prima non mi ero nemmeno fermato a mangiare un boccone prima di
raggiungerla e cominciavo ad avere fame. Ricordavo il primo giorno
dell’anno,
quando l’avevo trovata in cucina intenta a prepararsi una
tazza di tè, e ricordavo
perfettamente come impazzisse per il tè Earl Grey. Era un
particolare che non
avrei mai potuto dimenticare e che la faceva assomigliare
pericolosamente a mia
madre, ma lasciai perdere. Così mi decisi a fare qualcosa di
carino e, dopo
aver cercato un po’ per la cucina, misi sul fornello
l’acqua per il tè e attesi
con le mani poggiate al bancone che fosse pronto.
Dalla
sera
prima avevo ancora indosso i pantaloni sportivi, non avendo avuto il
coraggio
di spogliarmi completamente con Maya messa in quelle condizioni, e
cominciavo a
sentire il bisogno di una doccia, ma avrei atteso fino a quando non si
fosse
svegliata, troppo preoccupato che potesse cadere ancora in crisi. Avrei
voluto
tornare al mio appartamento, certo, ma non me la sentivo proprio di
lasciarla
sola.
Era
stato un
po’ come tornare a vedere il mondo con gli occhi di sempre,
svegliarsi accanto
a quella ragazza. Perché sapevo quanto potesse essere
davvero rompipalle e
nevrotica, ma dopo quel momento era tornata anche la stessa Maya che
aveva
saputo sorprendermi e mandarmi al manicomio e stupirmi per come, a
volte,
rendesse tutto quanto più semplice. E non riuscivo davvero a
capacitarmi di
come avesse potuto soffrire così tanto, quella ragazza, ma
tutto spiegava i
suoi atteggiamenti ed i mille muri che ogni volta cercava di tirar su.
Ma io
ero riuscito a distruggerli, quei muri, anche solo un paio e mi stavo
avvicinando sempre di più a quella che pensavo fosse davvero
Maya. Peccato che
più mi avvicinavo e più mi rendevo conto di come
risultava difficile, poi,
lasciarla andare, allontanarsi da lei.
Tornai
a
concentrarmi sul pentolino d’acqua davanti a me, che aveva
cominciato a
bollire, così spensi il fornello ed immersi
l’infusore, perdendomi ad osservare
i vari flussi di colore che avevano cominciato a tingere
l’acqua.
Ingannava
e
stregava, quel colore che si muoveva lento ed indisturbato e dava un
senso di
pace che sapeva incantare. E fu per quel motivo che mi resi conto della
presenza di Maya solamente quando si avvicinò a me, posando
una mano sul mio
avambraccio.
Mi
voltai
lentamente verso di lei, che si stava sporgendo per poter vedere cosa
stessi
facendo e cercò di nascondere un sorriso quando si rese
conto della qualità di
tè che avevo scelto tra la sua scorta. Sembrava aver ancora
i segni del cuscino
stampati in faccia e si notava fin troppo bene la stanchezza sul suo
volto, ma
restava comunque bella da mozzare il fiato. Come sempre.
Poi
sollevò lo
sguardo, trovando il mio, e quasi mi pensi dentro quel mare che
sembrava non
abbandonarla mai, che la caratterizzava e la rendeva unica. Mi ci sarei
tuffato
seduta stante e, conoscendomi, non ne sarei più uscito.
“Ben svegliata”, mormorai,
continuando ad
osservarla. Non avevo nemmeno il coraggio di muovere un muscolo,
nonostante
ogni mia particella stesse urlando di prendere quella ragazza e farla
mia. Ma
la vedevo ancora troppo fragile, un castello di carte
all’aria aperta pronto a
crollare, così mi limitai a restare immobile e ad attendere
una sua reazione. “Pensavo non ti
saresti svegliata prima di domani
mattina”, aggiunsi, cercando di buttarla sul
ridere.
Ma
lei non fece
una piega: il sorrisetto di poco prima era sparito chissà
dove, lasciando il
posto ad un’espressione indifferente, assente. Era davvero
spossante vederle
così, sentirla così su un altro pianeta. Non era
lei quella, nonostante non si
fosse mai esposta più di tanto, ma così era
davvero troppo.
La
vidi
appoggiarsi con la schiena al banco della cucina, accanto a me,
rivolgendo lo
sguardo al tè che sembrava quasi pronto.
“Non dovevi”, disse, poi,
facendo un
cenno con il capo al fornello. “Avrei
fatto io”.
“Non volevo svegliarti”,
risposi,
mettendomi di fronte a lei, intrappolandola tra il mio corpo e il
bancone, con
le mani poggiate al piano accanto ai suoi fianchi.
Il
suo sguardo
crollò a terra, non riuscendo a sostenere i miei occhi che
continuavano ad
analizzare ogni briciola di emozione che le attraversava il viso.
Dovevo capire
cosa le passava per la testa e sembrava un’impresa titanica,
quasi impossibile.
Sembrava
quasi
intimorita dalla mia presenza, e non mi pareva possibile
perché non era mai
successo, non si era mai lasciata sopraffare da me o da qualunque altra
persona. Era strano e diverso e non mi piaceva non poter navigare nei
suoi
occhi. Ci avevo quasi preso l’abitudine.
“Ehi”, le dissi, piano, cercando
di
attirare la sua attenzione, facendomi più vicino.
Si
avvicinò
anche lei, poggiando la fronte al mio petto e sospirando pesantemente,
mostrandosi ancora più debole e fragile.
Se
ne stava lì,
con solamente la pelle della sua fronte come contatto con me,
perché sembrava
davvero altrove. Così non riuscii a resistere e le presi il
viso tra le mani,
sollevandole il volto e sentii l’ennesima stilettata
perforarmi i polmoni,
quando vidi quei suoi maledetti occhi, ancora lucidi, ancora
sull’orlo
dell’ennesimo pianto. “Tutto
bene?”,
chiesi in un soffio, sfiorandole gli zigomi con i pollici.
“Non lo so nemmeno io, Travis”,
rispose
esasperata, lei, dopo alcuni istanti persi a fissarmi. “Pensavo di aver superato tutto quanto, non mi
è mai successo di
crollare in questo modo, ed è stato come tornare a quando mi
svegliavo dagli
incubi, da bambina, e cercavo mia madre. Ma lei non c’era
mai, e mio padre
impazziva ogni volta per cercare di calmarmi”.
Si
prese il
volto tra le mani, abbassando il volto, nascondendosi ancora una volta.
ma se
io ero riuscito a superare, anche se solo in parte, tutto lo schifo che
mi era
successo, doveva farlo anche lei. perché sapevo che ce
l’avrebbe fatta, ne ero
sicuro. Era forte, e nemmeno lo sapeva.
“Guardami”, le dissi, deciso,
cercando
comunque di mantenere un tono calmo. “Maya,
ti prego, guardami”.
E
finalmente si
decise ad ascoltarmi, a risollevare quel suo sguardo liquido che mi
preoccupava
ogni attimo di più. Le presi le mani, liberando
completamente il suo viso, e me
ne portai dietro la schiena, tornando poi a sfiorarle il volto come
poco prima.
“Non è colpa tua, mettitelo bene in
testa, ed
è normale reagire così”,
cercai di convincerla, sapendo bene quanto potesse
essere difficile. “E te lo dice uno
che
ne sa qualcosa”, aggiunsi, poi, ammorbidendo i toni
e cercando di farla
sorridere.
“Non dirlo a mio padre, Travis”,
mi
pregò, avvicinandosi leggermente a me. E non me la sentii
proprio di dirle di
no, nonostante Claudio avrebbe dovuto sapere, ma quella scintilla di
disperazione negli occhi e nella voce mi aveva fatto vacillare e
convinto a
reggerle il gioco. “Me…
me ne vergogno
troppo e… so che ne soffrirebbe”.
Continuò, lei, facendo più salda la presa
alla base della mia schiena.
“Va bene”, sospirai, infine,
arrendendomi
a lei. Come sempre. Ed io che per un momento avevo creduto davvero di
poterle
resistere, anche solo per una volta. “Ma
promettimi che non ti incolperai mai più per una cosa del
genere, tu non hai
fatto niente”, cercai di convincerla e mi feci
ancora più vicino, poggiando
la fronte alla sua, circondandole le spalle con le braccia.
Poi
mi
allontanai da lei, sciogliendo quella specie di abbraccio, che era
diventato
quasi un modo per aggrapparsi l’uno all’altra, e
tornai con le mani poggiate al
banco, ai lati di Maya. E la scrutai attentamente, guadagnandomi un
sorriso
appena abbozzato, una briciola della solita Maya.
“Siamo intesi?”, le domandai,
poi,
sorridendo.
E
lei annuì
leggermente, poggiando le mani sulle mie, esitante, quasi timida come
non era
mai stata, seguendole con lo sguardo.
“Quando prima ti ho detto che mi dispiace”,
cominciò, ed io quasi non la sentii per quanto parlava
piano, poi sollevò lo
sguardo ed incontrai i suoi occhi che parevano essersi calmati, non
erano più
agitati, mossi, tempestosi. “Stavo
dicendo sul serio”, aggiunse, facendosi
improvvisamente seria. E lo dovevo
considerare un evento, perché sapevo che stava parlando con
sincerità e, in
più, lo stava facendo guardandomi negli occhi, non
nascondendosi dietro muri
invalicabili.
Ed
io non
riuscii a rispondere, se non con l’ennesimo sorriso,
l’ennesimo squarcio di
felicità che mi occupava le labbra, e avvicinai il viso a
quello di lei, non
riuscendo a resistere, nonostante mi limitai a sfiorarle una guancia
con le
labbra. “Lo so, Maya”,
le dissi in un
soffio, restando sulla sua pelle. “Lo
so”.
E
restammo
immobili, come se il tempo si fosse fermato, come se avessimo entrambi
paura di
far scoppiare quella bolla che si era creata, debole e fragile.
Restammo in
quella posizione per alcuni istanti interminabili, in quel mezzo
abbraccio nel
silenzio più assoluto. Ma alla fine fu lei a muoversi, a
distruggere quel fermo
immagine, avvicinandosi e rannicchiandosi tra le mie braccia.
“E tu continui a restare, nonostante io non
sappia ancora cosa fare”, continuò,
cingendomi la vita con le braccia, ed
io rimasi fermo, immobile con lei premuta sul mio corpo, ancora per
paura che
cambiasse atteggiamento per l’ennesima volta, volubile
com’era. Avevo
cominciato a vederla come una bambola di porcellana, piccola, delicata,
sempre
pronta a rompersi.
“Non ho fretta, in un certo senso”,
le
risposi, non sapendo bene quale significato potessero avere le mie
parole.
Se
ne restò
zitta per un momento, facendosi addirittura più piccola di
quanto già non fosse,
poi sollevò il capo, facendosi scontrare i suoi occhi con i
miei. L’ennesimo
colpo al cuore.
Non
avevo la
benché minima spina dorsale, e dire che mi ero ripromesso di
starmene buono e
calmo per evitare di farla crollare ancora una volta, ma, dannazione!, come avrei potuto resistere
con lei che mi guardava
come non aveva mai fatto, come fossi davvero qualcuno di importante? E
ce
l’avrei anche fatta – con non poche
difficoltà, certo – se solo lo sguardo di
Maya non fosse caduto sulla mia bocca.
E
diamine,
quanto mi erano mancate quelle
labbra, il corpo esile di quella ragazza addossato al mio, le sue mani
a
stringermi i capelli. Quanto mi era mancata lei.
Rendersi
conto
di quell’assurda mancanza faceva male, davvero, ma tutto
veniva surclassato da
lei e dal suo corpicino in cerca del mio, dal suo respiro sulle mie
labbra che
premevano frenetiche sulle sue. Veniva tutto surclassato da lei.
Ci
eravamo
comportati da stupidi entrambi e questo ci aveva portati
all’ennesima
discussione e all’ennesimo periodo di distacco, e se in quel
bacio ci fosse
stata solamente quella mancanza sarebbe stata la cosa migliore per
entrambi,
una sensazione passeggera e destinata a scomparire. Ma
c’erano così tanti
sentimenti, lì dentro, c’era un così
grande miscuglio di sensazioni ed emozioni
da farmi tremare le ginocchia. C’era così tanto
che risultava difficile persino
dare un nome a tutto quello che ci stava attorno.
E
continuai a
baciarla, a lasciarmi baciare, a complicare ulteriormente le cose,
sollevandola
da terra e facendola sedere sopra il piano della cucina, prendendo il
suo corpo
tra le braccia ed avvicinandola ancora a me, stringendola ancora.
Cazzo,
quanto
mi ero rincretinito per una donna, per uno scricciolo quasi invisibile.
Ero
fottuto, semplicemente. Perché non sarei mai riuscito a
togliermela dalla mente
completamente, lo capii in quel momento, con il viso tra le sue mani e
le sue
gambe allacciate ai miei fianchi. Capii quanto fossi fregato quando
pronunciò
il mio nome mentre scendevo con le labbra sul suo collo, sulle
clavicole
lasciate scoperte dalla maglia, perché sapevo che non avrei
potuto più fare a
meno di un suono simile, pronunciato da lei, da quella voce.
Ma
soprattutto
lo capii quando mi fermò e respirò a fondo prima
di cercare i miei occhi e
quando la vidi sorridere, ma sorridere davvero, come non aveva mai
fatto con
me. Un sorriso che, finalmente, le occupò gli occhi, quei
pozzi che tornarono a
brillare e che erano rivolti a me e a me soltanto.
Ed
io, da
perfetto idiota, mi ritrovai senza avere la più pallida idea
di come
comportarmi davanti a quella meraviglia.
“Finirò al manicomio per colpa tua”,
le
feci notare, rispondendo a quel suo sorriso. “Mi
avrai sulla coscienza”.
“Penso che correrò il rischio”,
ribatté,
ridendo e tornando a giocare con i miei capelli alla base della nuca,
facendomi
sospirare. Quelle sue mani erano una libidine.
Mi
persi
l’ennesima volta a fissarla, a studiare lei e la sua
espressione, quel mezzo
sorriso che sembrava non volersene andare da quelle labbra, quelle
maledette
labbra che erano una tentazione continua, una tortura. Mi persi e
basta, perché
un labirinto sarebbe stato meno complicatone contorno di lei, sarebbe
stato più
facile liberarsene, avrebbe fatto meno male. Invece, avevo la
sensazione che
Maya avrebbe fatto male, in un modo o nell’altro avrebbe
fatto male, e tanto.
Ma se si trattava di viverla ancora, di conoscerla ancora… e
di amarla ancora,
avrei fatto quello ed altro. E già solo il fatto di rendermi
conto di essere,
in uno strano e stupido modo, innamorato di lei era come scavarsi la
fosse con
le mie stesse mani. E non sarei più riuscito a venirne fuori.
Dannazione,
ero
davvero fottuto!
Maya’s
POV
“Credo che abbiano
firmato le carte del divorzio un weekend, quando avevo sei o sette anni
e mio
padre mi aveva lasciata alla vicina, una sua zia di secondo grado,
forse.
Ricordo che mi ha portato al parco poco distante da casa nostra per i
due
pomeriggi interi, perché Claudio mi ci portava di rado, e
quando è tornato a
casa, mio padre mi ha fatto dormire con lui”.
Travis continuava ad
osservarmi rapito, mentre mi esponevo a lui come non avevo mai fatto
con
nessun’altro. E lo stavo facendo con una
semplicità tale da farmi venire le
vertigini.
Mi
aveva annientata con la stessa forza di un uragano, e
sentirsi crollare addosso diciannove anni di vita aveva fatto davvero
male, ma
lui era rimasto. Nonostante tutte le cazzate che avevo fatto,
nonostante tutto
quello che avevo detto era rimasto. Era piombato a casa mia dal nulla,
senza
preavviso, aveva saltato gli allenamenti giornalieri ed era ancora
lì, ad
ascoltare il mio straparlare che sembrava non avere più fine.
Eravamo
ancora a letto, dopo esserci lasciati andare per
l’ennesima volta, coperti solamente dal lenzuolo, e nessuno
dei due sembrava
avere la minima intenzione di alzarsi ed andarsene.
“Non mi aveva mai
permesso di dormire con lui”, continuai, girandomi
su un fianco e poggiando
il gomito al materasso, con la testa sul palmo della mano. Travis,
accanto a
me, invece, non aveva smesso un momento di accarezzarmi un fianco ed
ascoltarmi
in religioso silenzio, con il viso voltato verso di me. “Perciò capii subito che qualcosa non
andava. Ero una bambina, certo, ma
conoscevo le espressioni sul volto di mio padre, quindi non ci misi
molto a
fare due più due”.
“Una giovane Sherlock”,
scherzò Travis, con un sorriso, guadagnandosi uno schiaffo
leggero sul petto.
“Elementare, Watson”,
ribattei. “Comunque, non mi ha mai
detto
nulla, ma se continuo a pensarci è quella l’unica
occasione possibile”,
cominciai a tracciare le linee del tatuaggio di Travis con la mano
libera,
distrattamente, sfiorando di tanto in tanto la sua pelle. E il sorriso
che
cercò di trattenere, dopo un momento di esitazione, non mi
passò inosservato.
Passarono
alcuni istanti, con me impegnata ad osservare
la mia mano ed il suo percorso e Travis impegnato a non distogliere gli
occhi
da me. E non era assillante come le volte precedenti, sapevo che mi
stava
studiando dal momento in cui mi ero risvegliata, ma la sensazione del
suo
sguardo su di me non era più la stesa. Era quasi piacevole.
“Non me ne aveva
mai parlato, Claudio, ma dopotutto non sapevo nemmeno della tua
esistenza,
qualche mese fa”, interruppe il silenzio, lui,
ricominciando a far scorrere
la sua mano sulla mia pelle. “Per
questo,
ringrazio tutte le cadute da sbadata davanti alle porte”,
aggiunse, poi,
ridendo e facendomi ricordare il nostro primo tragico incontro.
“Sbadata io? Sei tu
che sei entrato come una furia, superstar”,
aggiunsi, infine, marcando
quell’aggettivo che odiava, con un sorriso angelico sulle
labbra. E in
ricompensa ricevetti un pizzico non troppo gentile sul fianco, ma
quell’occhiata
divertita smorzava tutto quanto.
Poi,
ancora con il sorriso sulle labbra, Travis si
avvicinò leggermente, chiudendo gli occhi con un sospiro. La
sua mano su di me
cominciò a percorrere lentamente la schiena, facendomi
rabbrividire, e se ne
restò in silenzio.
Accoccolato
in quel modo a me, mi sembrò un bambino un po’
troppo cresciuto. Forse quel bambino che aspettava la sera il ritorno
del padre,
con gli occhi serrati, ma comunque con le orecchie sempre
sull’attenti.
Aveva
fatto tanto per me e me ne stavo rendendo conto
solamente in quel momento, con il silenzio che regnava sovrano, dopo
aver
passato ore a piangere e a rivangare il passato, ma mi aveva fatto
bene, lo
sentivo. Ed era frustrante rendersi conto di come, in parte,
quell’uomo avesse
sempre avuto ragione. Parlare del mio passato aveva alleggerito di quel
poco
che bastava il peso che continuavo a portarmi sullo stomaco e farlo con
lui lo
aveva reso meno difficile. Lo avrei dovuto ringraziare
perché, dopotutto, se lo
meritava, qualcosa da parte mia in segno di riconoscimento se lo
meritava
davvero.
Continuavo
ad osservare ogni piccolo particolare del suo
viso e mi rendevo conto che, qualcosa, stava cambiando. Aveva
già cominciato
tempo prima, ma ero stata talmente stupida e codarda da respingere il
più
piccolo cambiamento e da nascondermi come avevo sempre fatto. Ma se
c’è una cosa
che h imparato da mio padre è che, in ogni occasione, la
cosa migliore da fare
è rialzarsi e combattere per quello che ci sta
più a cuore. E Travis,
nonostante avessi provato qualunque cosa per evitarlo, lo era diventato
davvero.
Avevo cominciato a tenere a lui senza nemmeno accorgermene e, solamente
in quel
momento, mi rendevo conto di avere la verità stampata in
faccia.
“Sai, io…”,
comincia, non sapendo bene da che parte cominciare. Perché,
insomma, non era
facile cambiare completamente rotta, non era facile mandare
all’aria tutto
quello che mi ero ripromessa di non fare, ma quando mi ero detta che in
qualche
modo dovevo ringraziarlo, mi ero decisa non tirarmi indietro.
“Io, non…
oddio, non sono sicura di non volere quel qualcosa in
più, adesso”.
E quello era il mio modo di ringraziarlo: dargli una
possibilità, provare a
vivere quel qualcosa in più che mi aveva sempre spaventata e
che continuava a
spaventarmi, ma aveva fatto talmente tanto per me ed era stato talmente
presente che, una semplice stretta di mano, sarebbe stata un insulto.
Lo
vidi aprire gli occhi all’improvviso e cercare il mio
sguardo. E fu quasi divertente la sua espressione, così
sorpresa da sembrare
irreale e leggermente spaventata. Sembrava essere diventato un tronco
di legno,
lui, per come si era irrigidito dopo aver compreso le mie parole, e in
un certo
senso mi spaventava quella sua reazione, mi mandava in confusione,
perché non
avevo idea di che cosa potesse significare.
“Ecco, adesso mi
fai paura”, dissi, cercando di nascondere una
risata nervosa. “Questa non era la
reazione che mi aspettavo,
ma sono seria. Davvero, forse per una volta so cosa voglio,
cioè smetterla di
nascondermi da me stessa. E questo comprende anche te, soprattutto dopo
quello
che hai fatto per me, ieri sera”.
“Maya, frena”,
mi interruppe, lui, all’improvviso, facendomi andare ancora
di più nel pallone perché,
proprio nel momento in cui decidevo di essere sincera, lui non poteva
saltare
su dicendomi “frena”!
“Non dire così solo
per esserci stato, ieri sera”, cominciò,
sorridendo appena. “Non voglio che
ti senta in debito con me per
qualsiasi motivo”.
“Non mi sento in
debito con te, Travis!”, esclamai, mettendomi
seduta sul materasso,
tirandomi dietro il lenzuolo. “Quello
che
è successo mi ha solamente aperto gli occhi e, per essere
stato presente, ti
ringrazio, ma non è per questo motivo che… che ti
ho detto di volere qualcosa
in più”, aggiunsi, infine, sentendo la
voce mancare. Quella sua reazione mi
aveva fatta vacillare, confondere ancora prima di rendermi conto di
poter anche
ricevere un rifiuto da parte sua. E dopo tutto gli sforzi fatti per
buttare giù
la mia corazza, probabilmente, non lo avrei sopportato.
“Ehi”, cercò di
attirare la mia attenzione, sedendosi al mio fianco e prendendomi il
mento con
una mano, facendo scontrare ancora una volta il suo sguardo con il mio.
“Guardami”,
disse piano. “Non credere che non ti
voglia, perché non
hai idea di quanto avrei dato per sentirti dire questo tempo fa, ma
voglio che
tu sia sicura delle tue scelte. Quindi, pensaci, non voglio farti
fretta. Pensaci
bene, ti prego, poi ne riparliamo, okay?”, mi
chiese, infine, sorridendo
più convinto.
Mi
persi per un momento ad osservarlo, a studiare quei
suoi occhi che parevano non volersi mai distaccare da me e, per un solo
momento, pensai a cosa sarebbe successo se lì, proprio in
quell’istante, mi
fossi tirata indietro per l’ennesima volta. probabilmente,
lui si sarebbe
stancato davvero di me e mi avrebbe mandato al diavolo una volta per
tutte, e
mi resi conto di volere assolutamente una cosa simile, di non voler
vederlo
andare via da quell’appartamento non sapendo se fossi
riuscita o meno a vederlo
un’altra volta. Volevo lui, Travis, nonostante avessi una
paura fottuta di
tutte le possibili conseguenze, ma mi aveva fatta sentire tranquilla
così tante
volte che mi convinsi che ci sarebbe riuscito anche in
quell’occasione.
“Okay”,
sospirai, cercando di sorridere. “Va
bene”,
aggiunsi, poi, poggiando la fronte sulla sua spalla.
“Brava, piccola”,
mormorò, mentre mi cingeva le spalle con un braccio e mi
trascinava di peso con
lui, ancora stesi sul letto. E mi bastò quello, un bacio tra
i capelli e quell’insignificante,
piccolo particolare che fu la sua mano, mentre mi tirava il lenzuolo
fin sopra
le spalle, coprendomi. Mi bastò lui, mentre
ricominciò a coccolarmi
leggermente, senza mai risultare troppo scontato o dolce.
Mi
bastò Travis, con i suoi mille difetti, a scavarmi la pelle
delicatamente, pian piano, a fondermi il cervello e a mandare a puttane
ogni
promessa che avevo fatto a me stessa perché, in altre
occasioni, non mi sarei
nemmeno disturbata a tirarlo indietro per un braccio, baciandolo e
ringraziandolo per quello che aveva fatto per me, quando quella sera se
ne andò
dal mio appartamento.
Mi
bastarono quei due giorni a farmi passare l’intera
serata con un sorriso da idiota sulle labbra, a prendere il telefono in
mano e
scrivere un messaggio a mio padre perché, in un certo senso,
per quella
situazione dovevo qualcosa anche a lui.
Grazie per averglielo detto. Ti voglio bene, papà!
*****
Sarà che a Natale si è tutti più buoni, ma a me quest'atmosfera ha dato ispirazione.Ho passato giorni a finire questo capitolo perchè DOVEVO finirlo. Per voi, ma soprattutto per me stessa perchè questi due mi sono mancati davvero tantissimo, non avete idea.
Sono stata fin troppo occupata e questo è il risultato. Non darò date precise, non vi dirò quando aggiornerò perchè sono un'incognita e non mi sembra giusto propinarvi false speranze. Sappiate solo che non ho abbandonato questa storia e che non ho intenzione di farlo. Tengo troppo a tutto questo per lasciarlo in un angolo a prendere polvere.
Spero che voi stiate bene, comunque. Appena avrò un secondo, risponderò anche alle recensioni dello scorso capitolo! Nel frattempo, vi ringrazio di cuore per esserci ancora, anche voi che vi limitate a leggere!
Detto questo, Buon Natale, buone feste e felice anno nuovo.. buona vita, ve la meritate. Ce la meritiamo tutti quanti!
Chiara
P.S. Se volete, questo è il gruppo che ho creato su Facebook, per restare aggiornate sull'andamento della storia, per parlare, per conoscermi (se volete).. Born to Run