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Autore: nainai    08/03/2009    4 recensioni
Un'intervista. Una domanda scomoda. Un cassetto pieno di ricordi e sentimenti che non avrebbe dovuto...non avrebbe voluto riaprire...
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Molko
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Attenzione: la presente storia ha come protagonisti personaggi veri e personaggi inventati. Non ha alcuna pretesa di veridicità / verosimiglianza e non intende offendere nessuna delle persone ivi citate. Nessun diritto legalmente tutelato s'intende leso.

Centrefolds


Io sapevo che sarebbe successo.
Lo sapevo.
Lo sapevo come si sanno queste cose. Ti ostini a nasconderle in fondo ad un cassetto, non le tiri più fuori, le ignori e fingi di dimenticartene. Ma non te ne dimentichi davvero.
Determinate cose non si dimenticano quasi mai.

La mia vita è fatta di successi. Piccoli, sudati e cazzo! meritati. Tutti.
Ci ho messo me stesso nel costruirmi questa vita, ci ho messo tutto quello che avevo a disposizione, non mi sono risparmiato nulla, non mi sono risparmiato io stesso. Quindi, quello che ho, che tengo ben stretto, è mio ed io ne vado fiero, ne sono orgoglioso e lo reputo un sacrosanto diritto, sul quale non permetto a nessuno di sindacare.
Vi da fastidio? Problemi vostri. Non vi ho chiesto io di comprare i miei dischi, non vi ho chiesto di venire ai miei concerti, né di pagare per queste interviste o di smaniare per vedermi apparire sulle vostre televisioni o sentirmi alle vostre radio. Io non vi ho chiesto nulla, ho offerto qualcosa, voi lo avete accettato, ma le cazzo di condizioni, ora come ora, le detto io ed io soltanto.
Tutto questo per dire che odio quando qualcuno mi porta dove non voglio solo per il gusto di uno scandaluccio da paese.
La logica vorrebbe che, odiandolo, io mi limiti a rimbeccare la giornalista rotonda e graziosa che mi sorride falsa come una monetina da Luna Park. E che nel rimbeccarla, con gelida, cortese, ironia sprezzante, le chiarisca subito che le sue domande del cazzo le può graditamente riporre dove più le piace, ma sicuramente lontano da me.
La logica vorrebbe, insomma, che io facessi come faccio sempre quando qualcosa in un dialogo mi infastidisce e, quindi, mi rifiutassi di rispondere e lanciassi un educato avvertimento al mio interlocutore perché misuri bene la quantità di stronzate che intende ancora rovesciare in questa conversazione. Perché la mia pazienza ha un limite, per natura terrificantemente labile e prossimo alla rottura.
Solo che sapevo che prima o poi sarebbe successo.
I dannatissimi cassetti della mente umana fanno schifo sotto un numero spropositato di aspetti. E, decisamente, sono molto poco idonei a contenere i ricordi spiacevoli.

Mi ero trasferito a Londra da pochissimo quando entrai al College. Ci ero andato apposta, del resto. Tra le grida infuriate di mio padre ed i pianti isterici di mia madre. Barry, che io ricordi, fu l’unico a prendere la cosa con una filosofia impressionante.
Sempre che ridere ferocemente di me e dirmi che non sarei sopravvissuto due giorni fuori casa da solo potesse essere considerato adesione ad una corrente di pensiero filosofico.
Fatto sta che all’aeroporto ci ero arrivato in solitudine, in macchina, con l’autista che mi lanciava occhiate scettiche dallo specchietto retrovisore. Mio padre mi aveva rivolto l’ultimo saluto la mattina stessa, prima di andare a lavoro, dicendomi chiaro e tondo di non farmi rivedere mai più, e mia madre era da qualche parte dentro casa, con la domestica ed una confezione di sali sotto il naso per riprendersi da quel terribile colpo.
Mio fratello, in effetti, non ricordo dove accidenti fosse…
Ma sto divagando e direi che potremmo saltare a piè pari tutta la parte del lugubre viaggio fino all’aeroporto e dell’arrivo nella fredda ed inospitale Inghilterra. Soprattutto perché io non trovai affatto lugubre il viaggio – ero semplicemente euforico all’idea di mandare al diavolo casa, famiglia e quella cazzo di vita che avevo fatto per ben diciassette anni! – e l’Inghilterra mi apparve da subito come l’unica Terra Promessa per la quale valesse la pena di sbattersi un po’.
Non salteremo, invece, la parte del mio arrivo al College, perché in fondo ruota tutto attorno a questo ed attorno alla creaturina insignificante e vagamente pietosa che ero allora. A rivedermi adesso non mi stupisco affatto della pessima adolescenza che ho trascorso.
Perché all’epoca Brian Molko era un affaretto ridicolo, bassino e cicciottello come un bambino rimpinzato di caramelle dalla madre – la mia è sempre stata generosa di dolciumi, ora che ci rifletto, come non lo è mai stata di libertà in altri ambiti espressivi – e se non apparivo come un completo e totale disastro, lo dovevo solo al fatto che non apparivo proprio, avendo sviluppato – per istinto di sopravvivenza, immagino – una ragguardevole capacità di mimetismo con le pareti circostanti.
Come mi fosse poi saltato per testa di andare ad iscrivermi ad un’Accademia di arti figurative e di intraprendere la carriera di attore, rimarrà un mistero per me anzitutto. Forse è per questo che si trattava di qualcosa destinano a naufragare dapprincipio.
Fatto sta che il discutibile essere umano che ero allora arrivò a Londra e si iscrisse al Goldsmith College, entrandoci per la prima volta per prendere possesso di una stanzetta adorabile in campus, stanza che dividevo con un tizio di cui non ricordo nome, faccia o qualsiasi altro segno distintivo.
Ci rimasi talmente poco in quella stanzetta, che è un miracolo mi ricordi di esserci mai passato.
Peraltro, tolleravo a stento il fatto che fosse comunque mio padre a pagare per il College - su richiesta pressante di mia madre che non poteva sopportare nemmeno l’idea che io dovessi davvero arrangiarmi da me. Nella teoria delle cose, la mia avrebbe dovuto essere una fuga da casa, il fatto che casa continuasse a provvedere alle mie esigenze mi urtava non poco. Sul momento accettai perché non potevo fare altrimenti – sono sempre stato un bambino talmente viziato! - ma misi giù la borsa nel mezzo della camera, mi guardai attorno e cominciai a contare i secondi che mi separavano dal giorno in cui sarei uscito da lì ed avrei detto definitivamente a mio padre di andare a farsi fottere, lui ed i suoi soldi.

..sì, questa storia tende a colorarsi di eventi tutt’altro che significativi. Alla fine capita sempre che, quando lo apri, quel cassetto, dentro ci trovi un tale spropositato numero di oggetti di cui non ti ricordavi più da perdere ore intere a cercare di collocarli di nuovo al proprio posto nella memoria.
La stanza al campus, il mio compagno, il primo giorno di corso…sono altrettanti giocattoli nascosti che mi rigiro tra le mani con curiosità autentica e con una punta di soddisfazione per quel ritrovamento.
La giornalista tossicchia attorno alla propria domanda, aspetta che io le risponda. Io la osservo, il viso posato contro la mano, sospiro ed il fiato caldo investe le mie dita mentre dietro ci nascondo un sorrisetto cattivo.
Mi hai fatto un tale inaspettato e spiacevole regalo, mia cara, che dover rimanere lì in paziente attesa sarà una cosa della quale dovrai ritenerti fortunata.
In realtà la faccia di Tristan appare quasi subito dal fondo del cassetto. Non mi ci vuole molto a ritrovarla in mezzo al resto, è trasparente come una biglia di vetro ed al centro esatto c’è un macchia colorata, proprio come quelle delle biglie di vetro. Quella macchia colorata sono io, ciò che rimane di quello che provai allora, rinchiuso all’interno di un ricordo che ormai è sbiadito dalla rabbia e dal rancore, dal tempo che ci è passato su e che lo ha levigato – liscio come vetro, perfettamente sferico, se lo faccio rotolare a terra scivolerà via e si perderà.

Tristan.

…che cazzo di nome idiota.
Avrei dovuto pensarci subito che sarebbero stati guai.

Invece, che volete farci! all’epoca fingevo ancora di essere un animo romantico.
Anche se, di romantico, sesso…amore…e roba così hanno davvero poco. Niente. Neanche per sbaglio. Il romanticismo è una bella menzogna, confezionata in nastrini colorati e bamboline di zucchero da mettere sulle torte, il rapporto che ora ho con Helena e che è il più solido che io abbia mai costruito nella mia vita si fonda su questa stessa convinzione.
Il matrimonio è un compromesso ragionevole tra due persone adulte e responsabili. Una coincidenza di intenti, rivestita di una forma giuridica per amore della prevenzione. Noi non siamo sposati, chiaramente, ma confido che il nostro “accordo” sia sufficientemente duraturo e chiaro da non necessitare di una solennizzazione di tale tipo.
Ma allora ero ingenuo, sprovveduto e fatalmente convinto che buttare fuori il veleno che avevo accumulato grazie a mio padre ed al bigottismo di mia madre fosse la chiave per riuscire a raggiungere un meraviglioso equilibrio, fatto di amore – ricambiato, per carità, non tollero di essere meno che adorato - per il mondo intero. Un’illusione destinata ad infrangersi rapidamente ed a comportare, tra l’altro, la revisione totale delle mie posizioni con riferimento agli insegnamenti di mio padre.
Lui è stata indubbiamente la cosa più formativa capitatami nella vita e, se sono qui oggi, se questa graziosa e paffutella signorina che saltella impaziente sulla sedia mi sorride congelata nonostante la palese insofferenza, lo devo esclusivamente a lui.
Se non si fosse premurato di distruggere tutti i miei sogni quando ancora avevo il diritto di possederne, non sarei mai stato in grado di passarci su con tanta nonchalance nel momento in cui mi sono potuto permettere di realizzarli. E non sarei mai stato in grado di fare altrettanto con il mio prossimo.

Eppure quando Tristan piombò nella mia vita, io stavo attraversando una gioiosa fase di regressione emotiva, convinto com’ero che il mondo intero mi sorridesse solo perché non poteva più farlo mia madre alla mattina quando scendevo per la colazione.
Un tale stato d’animo, connesso alla mia totale confusione in ordine ai rapporti interpersonali – io non avevo mai avuto dei rapporti interpersonali – al totale disorientamento da provincialotto catapultato nella metropoli dai costumi libertini e - cosa di non minore importanza, penso – alla bellezza vagamente eterea ed irreale di Tristan, alla sua ambiguità sfacciata e portata in palmo di mano…beh, tutto questo complesso di cosucce deve aver influito non poco sul modo in cui rimasi letteralmente folgorato nel vederlo la prima volta.
Giusto per dovere di cronaca e per semplicità di narrazione, specifico che successe ad un party. Uno di quegli incasinatissimi raduni improvvisati che ogni tanto si organizzano nei corridoi dei campus universitari, in cui nessuno conosce nessuno e tutti bevono birra fino a sfondarsi felicemente, senza neppure sapere da dove venga e perché sia lì.
Un mondo meraviglioso che mi si spalancava davanti!
Tristan non era da solo quella sera, stava con un tizio ma lo venni a sapere solo molto più tardi. Sul momento quello che registrai fu la sua presenza bruna, gli occhi come due spezzoni di cielo staccati a forza per essere incastonati su quel viso pallido e dai tratti affilatissimi. Aveva un enorme capigliatura di riccioli piccoli e scuri, lunga fino a sotto le spalle, la portava raccolta in una coda morbida, ed era spaventosamente alto e spaventosamente magro, con le braccia e le gambe lunghe, muscolose ma incredibilmente sottili e nervose. Era volutamente sciatto, fintamente trasandato, in una sorta di ostentazione sfrontata di disinteresse per sé.
Ovviamente tutto in lui gridava di bugia a miglia di distanza. Quando i suoi occhi ti si piantavano addosso boccheggiavi sotto la loro limpidezza ed insieme agonizzavi, perché erano come stilettate che si piantassero ben dritte nella testa. Il suo sguardo era lo specchio fedele di un’intelligenza pronta, viva e veloce, che ti incuteva un timore reverenziale, ed insieme era uno specchio torbidissimo di un animo che annusavi subito essere falso e doppiogiochista, arrogante ed incurante degli altri.
Vi pare mai che un simile campione di cattive qualità potesse restarmi indifferente?
Non lo fece, è ovvio. Almeno tanto quanto è ovvio che io, in compenso, gli fui del tutto indifferente. Perlomeno in quella prima occasione. Se Tristan non rimase per me solo un’affascinante figurina sul fondo della festa, lo dovetti al fatto che il tizio con cui ci era venuto – un certo Finney Non So Chi – se lo perse di vista nella baraonda confusionaria che regnava in quella parte di corridoio. A Tristan questa cosa urtò non poco e, dopo aver girato a vuoto nel bordello immane che ci circondava, per qualche assurda ragione approdò davanti a me e si fermò a guardarmi perplesso.
-…tu sei il compagno di stanza di Finney?- mi chiese.
Scossi il capo in automatico, ma in realtà non lo stavo neppure ascoltando, registrai solo il nome – Finney – e mi resi conto che no, non mi ricordava nulla. Per il resto, ero troppo impegnato ad osservare la sua bocca: ricordo che aveva le labbra molto sottili, ma erano di un rosa talmente vivido da essere bellissime comunque.
-No, io sto in stanza con Sam Potter.- aggiunsi visto che lui sembrava piuttosto stizzito da quell’imprevisto.
…ecco come si chiamava…Sam…
Tristan soffiò come un gatto, altrettanto grosso e pasciuto e gonfio di un autocompiacimento irrispettoso del prossimo. Si guardò attorno ed io capii che se ne sarebbe andato di lì ad un momento e la cosa mi lasciò un sentore di amarezza che mi spinse ad agire.
-Comunque io sono Brian.- mi presentai senza neppure rendermene conto.
Dio! Ero patetico!
Gli occhi azzurri mi rimisero a fuoco, sollevando un sopracciglio in atteggiamento di scettica valutazione. Mi stava soppesando, esattamente come se io fossi un oggetto da stimare al mercato per decidere se valeva la pena di concedermi attenzione una seconda volta.
-Tristan.- decise di rivelare alla fine, in tono asciutto e scostante.
Giusto per mettere in chiaro che quella gentile concessione era stata dettata da un atto di pietà e che facevo bene a non aspettarmi che replicasse o che la sua benevolenza potesse arrivare oltre quel punto.
Ed io avrei fatto bene a capirlo da subito.
Quindi, chiaramente, non lo feci.

L’esistenza di un adolescente – che non è più davvero tale, almeno sulla carta – in un campus universitario – in cui gli spazi, le realtà, le compagnie sono strette e soffocanti e sembra di vivere in un rarefatto ambiente di nuvole spumose su cui passeggiare fino allo schianto al suolo – è quanto di più alienante possa essere concepito da essere umano. Corsi, vita di gruppo, ancora corsi, e studio fino allo sfinimento. Niente che valga la pena di essere davvero vissuto, insomma. È come stare rinchiusi in una gabbia e, man mano che allarghi il giro che ci fai tutt’intorno, scopri la verità su quanto sia angusta e su quanto ti tenga prigioniero.
Questa fu la prima sensazione che riuscì a formarsi in maniera completa nel mese del mio arrivo al Goldsmith. Nel secondo mese la sensazione si rafforzò. Al terzo smaniavo per mollare quel posto, scappare da lì e tuffarmi anima e corpo in una città – Londra – che avevo fino a quel momento soltanto osservato da lontano.
Nel frattempo la mia noiosissima sopravvivenza si era colorata di due note di dissonanza.
La prima era stata Celine.
Celine non era una matricola come me, lei era iscritta a quel College da due anni ormai, ma in due anni aveva frequentato poco e niente delle lezioni e dei corsi ed aveva dato ancor meno esami. Così successe che c’incontrammo proprio ad un’esercitazione del primo anno, in cui finimmo per caso a fare coppia assieme in un esercizio di recitazione. Non so esattamente cosa la colpì in me, fatto sta che io le stavo simpatico e lei decise di prendermi sotto la sua ala protettiva.
Scoprii in fretta che uno dei motivi per cui Celine non aveva terminato il proprio anno di corso era il fatto che al College ci vivesse poco e niente. Tutta la sua frenetica esistenza si svolgeva nella stessa Londra che io sognavo dalla mattina alla sera e nella quale mi ritrovai catapultato all’improvviso, quando lei decise di farmi uscire dal bozzolo nel quale mi ero rintanato.
Celine era un essere affascinante, lo ammetto. Era interessante, ma non bella; era euforica e travolgente, ma non dinamica; era accattivante senza essere un vero animale sociale… A lei piacevano le feste, essere al centro dell’attenzione, guadagnarsi da vivere con il minimo sforzo, non doverne rendere conto a nessuno e scopare.
Scopava così tanto che mi stupivo trovasse tempo per fare altro. Beata gioventù…
A me, comunque, andava bene. Chiaramente non rientravo nel suo “genere” e, quindi, con me non scopava affatto. Ma siccome il sentimento era reciproco e quella nostra stramba amicizia era più che appagante, non mi dispiaceva affatto l’esserle indifferente per quanto riguardava il rotolarsi tra le lenzuola.
Anche perché qui si intromette la seconda nota dissonante.

La cosa veramente piacevole delle dissonanze è che creano increspature.
C’è un’armonia di base, che è come il corso di un fiume o di un ruscello – dipende da quanto schiocca scivolando sulle rocce, da quanto è forte la corrente, da quanto veloce corre l’acqua… - su questa armonia si innesta la dissonanza come increspatura a pelo d’acqua. Si allarga in cerchi concentrici e poi viene riassorbita, ma io mi diverto a credere che muti almeno un po’ il corso del fiume, quanto meno attirando l’attenzione di chi la osserva… Anche il semplice scorrere del tempo sulle cose è già mutamento, il modo in cui lo si lascia scorrere – osservando o correndo verso il mare – comporta il segno di quel mutamento.
Celine fu un’increspatura vorace, enorme; affamata di vita com’era mi trasmise la stessa fame e la stessa bramosia, catapultandomi in un mondo fatto di corse contro il tempo nel desiderio di afferrare tutto e subito. Non mi è mai più passata, sono ancora assolutamente istintivo nelle mie cose, mi getto a capofitto senza pormi problemi e poi, quando i problemi appaiono, ci passo su con indifferenza, alla ricerca dell’obiettivo successivo.
Tristan doveva essere un’increspatura violenta, di quelle che almeno per un momento cambiano del tutto il corso dell’acqua: non scivola più dal monte a valle, ma inverte la rotta e si ostina a cercare di risalire il pendio. Era chiaro, quindi, il fallimento insito in tutto questo.
Ancora una volta per dovere di cronaca, preciso i particolari più rilevanti del contesto in cui ci muovevamo. Tristan era più grande di me di due o tre anni – lui frequentava il corso di recitazione ed era al terzo anno – non stava con Finney, il fantomatico tipo della festa, come non stava con nessun altro. Era piuttosto una di quelle affascinanti persone che usano la propria bellezza – il proprio “sapere di piacere” – per ottenere attenzione, favori ed una buona dose di servilismo gratuito da parte di chi li circonda.
Io sarei volentieri rientrato nella categoria di quelli che si fanno sfruttare, ma Tristan non era all’epoca interessato alla cosa. Aveva già una nutrita schiera di maschi e femmine che gli ruotavano attorno desiderando solo compiacerlo e sperando di guadagnarsi un minimo di “riconoscenza” in cambio, io decisamente non avrei mai potuto competere con loro e, se per questo, non ci provavo neppure. Mi accontentavo di guardare Tristan e la sua variegata corte da lontano, compiacendomi di osservarlo come si farebbe con una statua o un’opera d’arte e convinto che non mi sarei potuto muovere di un millimetro da quella posizione per avvicinarmi a lui.
Ed, in effetti, era esattamente così.
Mi ci abituai. Se ci ripenso adesso mi rendo conto che all’epoca avevo uno spirito di sacrificio decisamente più sviluppato, le cose che mi davano davvero fastidio erano molto poche e, comunque, ero in grado di adattarmi anche a quelle. Non che ora non sia capace di farlo. C’è poco e niente davanti al quale opporrei un “no” deciso. Ma allora, a differenza di adesso, avevo molti più motivi per sorridere e dire di “sì”.
Ora sorrido davvero poco, ancora meno lo faccio sinceramente, ed in generale se qualcosa mi da fastidio la elimino.

Celine aveva un giro di amici piuttosto ampio.
Anche a vederlo dalla prospettiva odierna – in cui il novero dei miei conoscenti è, chiaramente, tutt’altro che irrisorio – il suo giro era piuttosto ampio. Celine era una meravigliosa fanciulla di quelle che conoscono praticamente chiunque, in qualsiasi ambiente.
Lei era alternativa quando al venerdì sera andava a sentire i suoi amici suonare nei pub underground. Era snob quando al sabato s’intratteneva nei club privati e nelle discoteche chic. Era solare ed un po’ ingenua alla domenica, al parco con i colleghi dell’Università. Era così deliziosamente mutevole che il cielo di Londra al confronto era blu e limpido come Haiti.
Ad un certo punto io le dissi che mi ero rotto le palle di fare vita di campus.
Lei mi rispose che non c’era problema e mi trovò un appartamento in città in meno di due giorni.
Poi venne un momento in cui le dissi che avevo voglia di ricominciare a suonare.
Lei mi rispose che andava bene e mi presentò qualche amico e presentò me in un paio di locali.
A quel punto decisi che era arrivato il momento di cambiare tutto.
E Celine ridacchiò assieme a me mentre sedevamo sul mio letto e mi ricambiò lo sguardo malizioso che le rivolgevo.

Per un momento desidero davvero volermi bene. Non lo faccio tanto spesso, è una condizione alla quale ci si abitua in fretta ed ha troppe controindicazioni per essere veramente apprezzabile. Ma ogni tanto mi capita di trovare in me lati che possono apparirmi validi e piacevoli, li rimiro un pochino – giusto quanto basta per sorridere divertito e compiaciuto come in questo momento – e poi li rimetto a posto, prima che diventino un problema reale da porsi.
Stavolta, mentre la signorina paffuta sbuffa in un accenno sottilissimo – oh, non vuoi veramente irritarmi! e farmi fretta è un modo rapido per irritarmi – io desidero sinceramente volermi bene almeno un pochino. E più precisamente, desidero sinceramente volere un pochino di bene a quel me insignificante che è sparito nelle pieghe del tempo.
Quindi dirò che anche allora – o meglio, che sempre, in qualsiasi momento, in qualunque istante – avevo una dote che non tutti possiedono. Un feroce senso dell’ironia.
No, non sottovalutatela come qualità. Fareste un errore di cui i vostri nemici si potrebbero approfittare facilmente.
Io me ne sono sempre approfittato con disinvoltura invidiabile, ad esempio.
L’ironia, soprattutto quando si accosta all’auto-ironia, serve a renderci inattaccabili – c’è davvero poco che possa raggiungere una persona disposta ad incassare con una risatina ed una scrollata di spalle – e rende gli altri assolutamente alla nostra portata, smontando l’aura di magnificenza che li circonda anche quando siano realmente superiori a noi su qualunque fronte.
Chiaramente l’ironia di cui parlo si accompagna ad un’assoluta mancanza di senso del pudore, ma ammetto di non aver mai scarseggiato nemmeno in quel senso.
Le due componenti combinate assieme, comunque, danno ottimi risultati.

Provate a guardarmi e ditemi che sto mentendo.

Io non avevo nulla da perdere.
Vedevo la mia vita da un’angolazione tale da renderla simile ad una barzelletta non troppo riuscita.
Mi trovavo patetico allora, tanto quanto mi reputo patetico adesso a guardarmi indietro.
Insomma. Sapevo che qualcosa andava fatto.
Celine, poi, mi diede una poderosa spinta in questo senso.

Con grande rammarico di mammina, che ci provava ancora a tenere i contatti, la mia frequentazione dei corsi al college divenne assidua più o meno quanto quella di Celine.
Il risultato più immediato fu che smisi di vedere Tristan, perché lui invece passava il proprio tempo buttato tra aule e cortili, chiocciando felice con i propri cortigiani vestiti a festa. Io mi accontentavo di passare da lì “per caso” quando mi trovavo in sede per qualche esame o per un corso che proprio non potevo saltare, lo spiavo da lontano, me ne riempivo gli occhi fino allo sfinimento e poi tornavo a scorazzare libero oltre le mura del college.
L’effetto immediato avrebbe dovuto essere un radicale ridimensionamento dei miei risultati negli studi, ma considerato che di talento non ne ho mai avuto di più per la recitazione che per la musica e considerato che ero abbastanza intelligente per cavarmela con qualunque corso teorico, su quel fronte non si mosse nulla né in un senso né in quello opposto.
Io invece mi mossi, eccome.
Mi piacerebbe perdere il mio ed il vostro tempo rievocando i singoli passaggi di quella trasformazione da baco a farfalla. Non lo farò. Anzitutto perché, più che una farfalla, sono diventato una falena – una creatura notturna, priva di colore, grigia come solo Londra sa essere ed altrettanto brutta, sporca ed indifferente. Nessuno ama una falena, nessuno lo fa davvero, è poco più di una macchia sul muro: le sue ali, che sono belle tanto quelle di una vera farfalla, sono così prive di attrattiva e di lusinghe da risultare solo sporco sulla faccia del mondo.
Del resto non ero davvero nemmeno un baco. Più un verme in potenza. Un autentico, piccolo, strisciante esserino di cattiveria repressa e mancanza di buon senso. Grazie a Dio, non mancavo affatto di senso pratico e di spirito calcolatore, li avevo ereditati nella stessa misura dai geni paterni ed erano lì, che aspettavano solo di fiorire e di costruirmi attorno il bozzolo artificioso nel quale avrei riposato in attesa di ricevere in dono un bel paio di ali.
Per cui la mia favola non fu affatto una vera favola. Nessuna storia di anatroccoli che si trasformano in cigni da raccontare e, pertanto, niente che valga davvero la pena tirare fuori dal cilindro dei ricordi perché sia rivestito della grazia annacquata che hanno sempre le storie lontane e perse.
Dunque, non racconterò questa fiaba dell’orrore. Non dirò di come l’essere pietoso era destinato a diventare in fretta un principe dei pantani. Ero viziato e lo rimasi, ero annoiato dalla vita e non mi è mai passata, ma ero diventato anche più esigente e volevo quello che prima mi accontentavo solo di guardare da lontano.
Cominciai con il voler essere bello.
Celine rise di me e mi disse che, in realtà, era molto più semplice di quello che potesse sembrare. La bellezza - sosteneva lei che “bella” non lo era affatto – è un concetto assolutamente fuori moda, la gente dice “bello” quando vuole dire “sesso”. Quindi, la chiave è il sesso. Ed il sesso può farlo chiunque.
Aveva ragione, chiaramente, ma - come scoprii quando cominciai a dimagrire, a curare il mio aspetto, ad aggiungerci modi smorfiosi da mocciosa arrogante, allusivi come quelli di una lolita quindicenne ma molto più torbidi, perché io non ero una lolita e non avevo affatto quindici anni – nel mio caso la bellezza era anche bellezza. Da mia madre avevo rubato la pelle chiara come la neve, i capelli scurissimi, gli occhi grigi e mutevoli, falsi. Da mio padre avevo preso la spregiudicatezza, la mancanza di senso dell’onore, la voglia di vincere, l’assenza di affetti, la capacità di simulare.
Da Celine imparai i modi da puttana che il mondo voleva da me.

E qui la favola si chiude, le porte di Londra si spalancavano ed io diventavo l’ennesima creatura sospesa tra un eterno crepuscolo e la notte più nera: non troppo scura, non eccessivamente chiara, a mio agio dovunque e dovunque fuori luogo.
Ma sicuramente non indifferente al prossimo.

Era arrivato il momento che anche Tristan se ne accorgesse.

Fu il caso a fare in modo che accadesse.
Fino ad allora, il mio interesse per i maschi era rimasto un qualcosa di latente. Non mi ero mai nascosto che esistesse: l’interesse per Tristan lo avevo qualificato in termini esatti fin dal primo momento in cui avevo sentito una scarica di adrenalina scivolarmi lungo la schiena solo ad incrociare i suoi occhi. E non mi erano neppure mancate le occasioni per verificare se fosse un episodio legato al solo Tristan o un qualcosa di più profondo e meno poetico.
Eppure quelle stesse occasioni le avevo snobbate con finto disinteresse. Mi incuriosivano e, sicuramente, mi eccitavano, ma un po’ per sana paura un po’ per meno sana noia non mi ci addentravo. Le persone che frequentavo in quel periodo mi apparivano tutte ugualmente scialbe e prive di consistenza e, sebbene mi divertisse far credere loro che fossi davvero solo una puttanella alle prime armi, la verità era che non m’intrigavano al punto da volermi concedere sul serio. Qualche tizio più interessante degli altri si era anche fatto avanti, ma fu proprio mentre valutavo la possibilità di accettare le loro proposte che Tristan ricomparve nella mia vita dopo che, per un po’ almeno, lo avevo accantonato in un angolo buio dal quale riemerse senza alcuna fatica.
Successe una sera che stavo tornando da un pub ed ero, insolitamente, meno ubriaco di quanto avrei dovuto. Celine, che invece era persa nei sogni estatici che birra e droga le propinavano generosamente, mi stava addosso, aggrappata al mio braccio e con la testa posata sulla spalla. Ridacchiava come una scema e aveva difficoltà enormi ad incocciare correttamente nei gradini sconnessi della scalinata che portava al mio appartamento. Mi aveva chiesto lei di non riaccompagnarla a casa propria, viveva con due secchione rompiballe che le facevano storie come se fossero state sua madre e sua sorella e lei, se poteva, preferiva accettare l’ospitalità di qualcun altro quando si riduceva troppo male da non potersi evitare una paternale senza autorità dalle due bigotte. Stasera toccava a me, Celine era troppo ubriaca e troppo fatta anche per riuscire a destare l’attenzione di qualcuno degli amici che avevamo mollato al locale, loro le avevano gettato un’occhiata pietosa e poi mi avevano consigliato gentilmente di portarmela via finché era in grado di muoversi senza vomitare l’anima. Avevo seguito il consiglio, trascinandomela in strada mentre lei rideva felice e gridava al cielo pezzi sconnessi di frasi e canzoni. A parte doverla riacciuffare un paio di volte prima che si buttasse sotto un auto o, più semplicemente, si accasciasse stremata contro il muro di un palazzo, portarmela dietro non era stato nemmeno tanto difficile. Mentre introducevo le chiavi nella serratura del portone, Celine si era abbattuta sul corrimano arrugginito, lasciandosi dondolare piegata a metà ed arrotolata attorno al ferro gelido, avevo controllato distrattamente che non cadesse di sotto, poi l’avevo richiamata secco quando lei si stava facendo scivolare troppo in là e, con uno spintone deciso alla porta dietro di me, avevo aperto e me l’ero tirata in braccio, obbligandola a posare il piedino calzato in costosissime scarpette di raso con il tacco sul primo dei gradini consunti.
-Brian!- aveva mugolato lei, abbracciandomi grata e stendendomisi addosso. Il suo fiato caldo e pesante mi aveva dato noia, ma siccome era sempre Celine – la mia piccola, pazza, assurda Celine – avevo sopportato, concedendomi solo un sorrisetto cattivo mentre continuavamo ad avanzare con difficoltà nella penombra sporca della tromba delle scale.- Tu non sei un ragazzo!- aveva affermato lei con convinzione- Tu sei un angelo! Un vero angelo! Vomitato dritto dalle fiamme dell’Inferno per venire ad appestare il mondo con la tua presenza!- mi disse in modo alquanto carino.
-Sì, Celine, certo. E tu sei la fata turchina: un’ubriacona strafatta che parla con gli animali proprio come lei.- ribattei pigramente.
-…‘fanculo.- borbottò Celine contrariata dal fatto che non avessi apprezzato i suoi complimenti.
Sospirai, domandandomi che diavolo ci guadagnavo a restare amico di quella lì – si sarebbe ammazzata entro l’anno, dovevo solo avere pazienza e poi una dose di troppo se la sarebbe portata al Creatore…sempre ammesso che Celine credesse ancora a queste cazzate. In tutta onestà avevo di meglio da fare che non badare ad una scema, incapace anche di gestirsi per non finire strafatta in strada, e magari avrei dovuto rifilare l’incombenza di assicurarsi della sua incolumità a qualcun altro, le due secchione bigotte sarebbero state sicuramente più felici di me di prendersi cura dell’anima della derelitta.
Con questi pensieri a rincuorarmi mi disposi ad affrontare l’ultima rampa traballante, quella che portava al terzo piano dello stabile, più su c’erano altri due piani ed un terrazzo malmesso incastrato tra due spioventi di tegole semidistrutte. Mi piaceva salirci ogni tanto, bisognava passare il quinto piano e le urla isteriche di una coppia di tizi che non faceva altro che litigare e prendersi a calci e pugni, ma se si usciva incolumi dalla porta di alluminio si poteva guardare un pezzo di Londra.
Fu allora che il caso ci fece reincontrare.
Celine ridacchiò più forte, miagolando qualcosa di osceno diretto ad un immaginario amante, io mi voltai a scoccarle un’occhiata divertita e perplessa e stavo per chiederle spiegazioni – sicuro che me le avrebbe fornite, posta l’assoluta mancanza di freni inibitori – quando qualcuno ci si parò davanti di colpo, in rapida discesa dai piani superiori, e si fermò appena in tempo per non travolgerci.
Il qualcuno era Tristan.
A differenza sua, immagino, io non feci alcuna fatica a riconoscerlo.
Tristan non era cambiato per nulla. Forse aveva i capelli un po’ più corti, ma era sempre lui, gli stessi occhi intelligenti e vivi che riuscivano ad essere blu perfino nel buio, la stessa figura snella, l’andatura elegante e svogliata, l’espressione sprezzante, che lo sguardo genuinamente sorpreso storpiava in parte, rendendolo meno distante.
La stessa bellezza cattiva ed arrogante, ambigua e deliziosamente conturbante.
Ci guardammo. Io lo fissai perché non potevo farne a meno, piazzato com’era sulla strada esatta che avrei dovuto percorrere con Celine, e lui mi squadrò come aveva già fatto in passato. Mi studiò irrispettoso come sempre, la sua espressione mutò lentamente mentre lo faceva ed alla fine mi riconobbe...o qualcosa del genere.
-…tu vieni al Goldsmith.- disse senza che fosse una domanda.- Sei una matricola?- mi chiese.
Celine singhiozzò al mio orecchio, era un lamento, segno che – come previsto – la roba che aveva in corpo aveva terminato gli effetti benefici ed era intenzionata a cominciare con quelli meno piacevoli. Dovevo portarla in casa.
-Lo sai che sono una matricola.- ribattei più aspro di quanto volessi suonare, dopodiché mi mossi senza dire altro e lo superai di forza, costringendolo a farsi da parte per farci passare.
Mentre mi voltavo a scoccargli un’occhiata silenziosa, mi accorsi che anche lui mi guardava, sorridendo come se tutta la situazione fosse per lui estremamente divertente. Mi venne voglia di mandarlo al diavolo, ma quando aprii la bocca per farlo le parole s’incastrarono prepotentemente nei suoi occhi blu, stringendo alla gola, ed io pensai debolmente “…cosa cazzo hai da guardare?”. Ma non lo dissi.

Scoprii che la coppia di tizi del quinto piano non esisteva più da un paio di giorni. Lo venni a sapere il mattino dopo, quando, assonnato e con un mal di testa feroce a tempestarmi le tempie, scostai via il corpo di Celine, che mi si era arrotolata addosso nel sonno, e misi i piedi a terra tirandomi su. Lanciai uno sguardo alla ragazza distesa, che dormiva a bocca aperta, il trucco sfatto e la minigonna troppo corta che le copriva appena le mutande. Raccolsi da una sedia una coperta di pile e gliela stesi sopra, più che altro per evitare che i miei coinquilini si affacciassero per caso alla porta della camera e decidessero di fermarsi lì a godersi lo spettacolo delle sue grazie seminude. Poi uscii e lasciai l’appartamento, senza chiudere la porta, per salire le ultime quattro rampe che portavano al corridoio del quinto piano. Dalla sera prima mi era rimasta attaccata addosso la voglia di uscire sul terrazzo, nel silenzio spettrale del sabato mattina mi affacciai all’ultimo piano e seguii la fila di porte tutte uguali e tutte sbarrate.
Posto che non credo nel destino più di quanto creda a Dio o al Diavolo, il mio primo pensiero quando vidi uno dei battenti spalancarsi due metri davanti a me ed il viso di Tristan emergerne per puntarmisi addosso, fu che mi stava aspettando. O quanto meno doveva aver sentito qualcuno nel corridoio ed aver guardato dall’uscio chi fosse, decidendo poi di venire a rompere le palle già di prima mattina.
Ci riuscì. La sua presenza mi irritò, come se la sensazione di fastidio ed inadeguatezza della notte precedente fosse rimasta attaccata alla mia pelle almeno quanto la voglia di superarlo e raggiungere la porta di alluminio che dava all’esterno. Provai a controllarla, perché non aveva senso e perché non potevo uscire senza superarlo e non potevo superarlo senza fare almeno segno di averlo visto e riconosciuto. Fu inutile, ma mi fermai lo stesso e lo fissai ostile.
-Ciao, matricola.- mi schernì lui quando il silenzio si fu fatto sufficientemente lungo da poter essere spezzato con una battuta maliziosa.
-Ho un nome.- ribattei apatico, fiero di me stesso per essere riuscito comunque a mantenere un tono indecifrabile.
-Sì, ma non me lo hai detto.
Pensai: “certo che te l’ho detto, coglione, vattelo a ripescare nel bagaglio di ricordi inutili che ti affollano la testa”.
Ma non risposi questo.
-…Brian.- borbottai, invece, perdendo quasi interamente quella magnifica indifferenza irritata che avevo ostentato, per ricadere in una molto più banale irritazione imbarazzata.
-Io sono Tristan.- si presentò lui divertito da quel cambio di intonazione.
Sospirai.
-Lo so.- ammisi secco.
-Sul serio?!- rise lui, affatto stupito. Immagino che l’essere sicuro della propria popolarità fosse una cosa naturale, per lui.
Non persi tempo a cercare di smontare l’evidenza.
-Quella è casa di George ed Isaac.- dissi senza nessun legame con il discorso, ma con il preciso intento di distogliere la sua attenzione da me.
Lui si voltò indietro, allo stesso battente ancora aperto che lo aveva lasciato uscire poco prima, scrollò le spalle con indifferenza.
-Di Isaac.- specificò correggendomi.- George se n’è andato due giorni fa.
Fine dell’idillio di piatti rotti e urla isteriche, pensai io.
-E tu sei quello che l’ha sostituito?- m’informai con un ghigno, pregustando l’affondo inevitabile della battuta.
Ma avevo sottovalutato Tristan, l’essere additato come una puttana non lo sfiorava minimamente e, del resto, anche io avrei scoperto con il tempo che è una condizione decisamente vantaggiosa per potersene sentire offesi.
-Più o meno.- mi rispose senza nessun interesse- Qualcosa del genere.- spiegò subito dopo.
-Bene.- ribattei io facendomi risolutamente avanti- Non vorrei portarti via troppo tempo…- mi affrettai a congedarmi mentre gli passavo di fianco. La sua risata leggera mi raggelò, era così sinceramente superficiale e priva di sentimento che pensai avrebbe dovuto suonarmi falsa ed, invece, non lo faceva affatto. Mi costrinsi a proseguire, nella frase e nel cammino diretto e preciso che mi avrebbe portato a posare la mano sull’acciaio distorto della porta sgangherata.- anche perché Isaac non è il tipo che ama aspettare.
-Io non sono il tipo da farmi problemi di questo genere.- mi rispose lui tranquillamente, mentre mi veniva dietro senza nemmeno scusarsi.
Respirai a fondo, si era fatto vicino – troppo vicino – ed io ricordo che aveva un odore decisamente intenso, che sapeva di sesso, come se avesse sempre appena finito di scopare, e di “maschio”, come la sua aria apparentemente fragile non avrebbe mai fatto presumere. Uscii all’aria aperta ringraziando tutti i Santi in cui non credevo del vento gelido che mi sferzò la faccia appena misi la testa fuori dal corridoio, mi allontanai dalla porta trattenendomi a stento dal correre lontano da lui, grato di avere la possibilità di mettere una qualche distanza tra noi due. Tristan mi seguì in modo decisamente più lento, io mi ero già sistemato sul parapetto ampio che guardava alla strada di sotto quando lui si sedette per terra, al mio fianco, fissandomi da sotto in su in un silenzio che divenne pensante nel giro di pochissimi minuti.
Sbuffai, scossi i capelli indietro perché erano già diventati lunghi abbastanza da darmi noia con il vento e poi me li ritrovai comunque in faccia e, per poterlo guardare decentemente, li afferrai con le mani e li tirai via dal volto.
-Tu non ti ricordi davvero di me?- domandai giusto per provocarlo, adottando allo scopo un tono irriverente e saccente che speravo lo infastidisse almeno un decimo di quanto mi sentivo infastidito io dalla sua indifferente pacatezza.
Scosse il capo e non disse nulla.
Alzai la voce per farmi sentire da sopra il rumore del vento e raccontai stringato.
-Ci siamo visti ad una festa. Tu stavi lì con un certo Finney, credevi fossi il suo compagno di stanza.
Riuscii a stupirlo. Ci pensò su un momento e poi mi guardò.
-Scherzi?!- ritorse- Tu non somigli affatto a quel ranocchio del compagno di stanza di Finney!- affermò con sicurezza.
Risi.
-Probabilmente il problema è che per te i ranocchi si assomigliano tutti.- commentai rendendomi conto che la risposta era proprio quella.
-…e questo cosa c’entra?- mi chiese lui senza riuscire a seguirmi.
Mi dissi che non avevo voglia di spiegarglielo, che non mi andava di ricordargli dell’essere patetico e ridicolo con cui aveva avuto a che fare quella sera. Mi dissi anche che lo facevo perché tanto sarebbe stato inutile, quelli come Tristan non cambiano solo perché gli sbatti in faccia realtà scomode. La verità che mi negai sopra quella terrazza era che io non volevo che mi ricollegasse al me stesso di qualche mese prima. Avevo paura che l’interesse evidente che mi mostrava adesso sparisse con quel ricordo e poco importava che stessi pagando la mia identità con un anonimato privo di dignità.

Raccontai a Celine quella storia solo due settimane dopo, quando incrociammo nuovamente Tristan su per le scale della palazzina, ancora una volta camminava nella direzione opposta rispetto alla nostra ma stavolta non era solo. Mi riconobbe da lontano e mi sorrise, salutandomi a gran voce con un “ehi, matricola-Brian!” che strappò un sorriso anche a me ed un’occhiata sospettosa ad Isaac, che mi scoccò uno sguardo seccato da sopra la spalla dell’altro ma non disse nulla; proprio come Celine, che squadrò prima Tristan e poi me come se ci vedesse per la prima volta. Infilai le chiavi nella toppa della porta di casa, risposi al saluto di Tristan ricambiandolo con un irrisorio “ehi, senior-Tristan!” e poi mi infilai dentro seguito da Celine, senza degnarlo di uno sguardo di più.
Appena la porta si fu chiusa alle nostre spalle, mi ci appoggiai pesantemente come se solo restare in piedi mi costasse uno sforzo enorme. Da fuori mi arrivò il vociare confuso di Isaac e Tristan, sembrava che il primo stesse chiedendo conto e ragione all’altro di qualcosa in particolare ed io immaginai quale potesse essere l’argomento di discussione. Celine coprì le voci ed i passi fuori della porta con uno strilletto isterico, agitando le buste della spesa come se fossero armi e fissandomi ad occhi sgranati.
-Brian!- esordì ferocemente quando l’urlo ferino si fu placato.
Io ridacchiai e finsi di non capire, avanzando nell’appartamento per sfilarle le buste di plastica dalle mani e portarmele verso la cucina.
-Quello è Tristan!- affermò lei.
Eh sì, ne avevamo parlato. Ne avevamo parlato per giorni e giorni, e poi per notti intere, finché non era diventato un argomento noioso in un mare di cose più interessanti. Ed ora eccolo riapparire.
-Se la fa con Isaac.- ritorsi come se fosse una spiegazione sufficiente, sebbene la cosa fosse comunque già evidente da sé.
Posai le buste sul tavolo e mi voltai ad incrociare la sua occhiata affatto convinta.
-Balle!- proruppe.- Sa il tuo nome!
-Sì, gliel’ho dovuto dire due volte, ma adesso sembra averlo memorizzato.- ironizzai sorridendo come un imbecille felice.
Celine perse qualunque capacità di fingersi offesa e sbuffò una risata sincera a quell’espressione deficiente. Poi si mise tranquilla e mi fece il terzo grado.
Convenimmo entrambi sul fatto che non ci potessero essere molte ragioni per cui Tristan potesse ricordare il mio nome. Celine mi studiò con un sorrisetto soddisfatto, ponderandomi mentre mi squadrava ed io sbuffavo imitando un fastidio che non provavo: il personaggio che lentamente stavo diventando era un’invenzione di Celine almeno quanto mia. Rise e mi disse che non c’era molto da stupirmi se ora come ora Tristan mi reputava degno di perdere un po’ del suo prezioso tempo. Io ribattei che Isaac non sembrava apprezzare e lei mi disse semplicemente che Isaac, come tutti prima di lui, si sarebbe adeguato.
La cosa si chiuse lì, salvo per il fatto che – insolitamente – il caso voleva che io e Tristan ci incontrassimo continuamente.
In quel periodo avevo smesso praticamente del tutto di frequentare i corsi universitari, tra poco si sarebbe chiuso l’anno e si stavano organizzando gli spettacoli estivi. Sarei dovuto passare quanto prima dal Goldsmith per trovarmi un posto in qualcuno di quegli spettacoli, ma sebbene me lo ripetessi quasi tutte le mattine, trovavo sempre di meglio da fare che raggiungere davvero il College. Man mano che la mia presenza nella struttura universitaria diminuiva, la presenza di Tristan nei corridoi dello stabile dove vivevo aumentava. Sapevo che non si era trasferito da Isaac, perché glielo avevo chiesto esplicitamente e lui mi aveva negato che fosse così, eppure ogni volta che io uscivo dalla porta o quando mi affacciavo al portone per rincasare, lui mi sorprendeva con un sorriso ed uno sguardo ammiccante, i suoi occhi mi seguivano passo passo mentre facevo le scale ed io diventavo progressivamente più insofferente.
Così che alla fine lo aggredii.
-Ma si può sapere che cazzo vuoi?!
Era tardi, le due o le tre di notte, avevo sonno ed ero fatto ed ubriaco come lo era stata Celine la prima sera che avevo incrociato Tristan. L’unica differenza stava nel fatto che a me a casa non mi ci aveva riportato nessuno. Ero scivolato via dal locale quasi come un ladro, dopo che Celine era andata via con qualcuno, io avevo mandato a cagare un tipo decisamente invadente, tirandogli un pugno quando non aveva voluto rimettere le mani a posto per tempo, ed a quel punto avevo dichiarato chiusa la serata, trascinandomi a casa. Tristan mi aveva sorpreso mentre imprecavo contro la chiave e la serratura, che sembravano continuare a rincorrersi senza mai trovarsi mentre la chitarra a tracolla su una spalla mi pesava dannatamente e la testa girava. Ad un certo punto avevo sentito qualcosa pungere la nuca, come uno spillo arroventato, mi ero voltato di scatto e, per la paura, la chiave mi era volata di mano e giù per la scala.
-Porca puttana Eva, Tristan!- avevo ruggito riconoscendo la figura snella nella penombra pesante. Mentre riprendevo fiato a rantoli brevi e schioccanti lui si era avvicinato ridendo e quel suono mi aveva dato alla testa- Si può sapere che cazzo vuoi?!- chiesi brusco a quel punto.
Tristan si fermò un gradino più in alto del pianerottolo, inarcando le sopracciglia sottili sulla fronte spaziosa, mi squadrò quasi pietoso e poi scese e raccolse per me le chiavi, porgendomele.
-Andiamo, Brian, non sei davvero così stupido.- mi disse piano mentre io allungavo le dita di scatto e gli strappavo il portachiavi tintinnante.
Ringhiai un suono indistinto, voltandogli le spalle rabbiosamente, infuriato contro di lui per quell’inutile manfrina di inseguimenti senza senso ed appostamenti fuori luogo, e contro di me per la mia assoluta incapacità di mandarlo “a fanculo” come avrebbe meritato. Lui non si diede per vinto e, mentre riprendevo a litigare con più convinzione con quella dannata serratura, mi si strinse addosso e sollevò la mano ad afferrarmi il collo.
L’indomani mattina, mi dissi che avrei fatto bene a chiedere a Celine di restituirmi le chiavi dell’appartamento. E lo pensai quando a svegliarci fu un grido soffocato ed inarticolato: quello che le sfuggì nel vederci a letto assieme.

La giornalista insofferente ha smesso di essere carina. È rotonda come prima, paffuta e graziosa, ma non sorride più. Io invece non riesco a smettere ed ho bisogno di nascondere in qualche modo il compiacimento irriverente che provo in questo momento. Caccio la mano in tasca, cercando a tentoni le sigarette, lei intuisce e, prima che io riesca nel mio intento, sfodera nuovamente il sorriso di circostanza e mi porge il proprio pacchetto tra le dita rotondette. Accetto, mi sta già più simpatica.
-Magari preferisce fare una pausa? Per raccogliere le idee?- mi chiede quasi con dolcezza.
Ma siccome è evidente che, in realtà, vorrebbe solo che rispondessi a quella cazzo di domanda senza tirarmela ancora, decido che non le darò la soddisfazione di poter sollevare il suo culo pienotto dalla sedia.
Sospiro una nuvola di fumo enorme, lasciando ricadere le spalle contro lo schienale imbottito della poltrona, una volta tanto devo dare merito ad Alex di aver scelto un posto davvero piacevole dove adempiere quella tortura infinita che sono le interviste. Ma magari non l’ha nemmeno scelto lei…
-No,- rispondo intanto, giusto per non essere del tutto ed assolutamente cafone e maleducato- fa lo stesso. E poi non è l’unica intervista della giornata.- sorrido zuccheroso.
Lei si offende, la vedo irrigidirsi sulla sedia mentre il sorriso torna ad essere gelido e tirato come una copertina di plastica. Sono decisamente più bravo di lei a fingere di provare qualcosa: una “felicità” che non mi appartiene per una situazione che mi sta stretta, ad esempio. Sono decisamente più bravo di chiunque altro.

Ero meno bravo solo di Tristan. Lui fingeva con una facilità disarmante ed era convincente oltre ogni dire.
Non so, forse fu proprio il nostro incontro a farmi capire, alla fin fine, che non sarei davvero diventato un attore: non avevo la scioltezza crudele di Tristan nell’imitare la vita, la sua disillusione priva di qualsiasi delicatezza verso il prossimo e la sua assoluta indifferenza alla possibilità che l’inganno in cui “il prossimo” incappava invariabilmente fosse l’ultimo pantano, quello da cui è impossibile uscire. O quantomeno uscire incolumi.
Ovviamente il mattino dopo, quando chiusi la porta di casa dietro le spalle magri di Tristan ed i suoi fianchi sottili che ancheggiavano appena salendo le scale, non feci nessuna di queste considerazioni. I miei pensieri di quel momento erano molto più terreni ed avevano a che fare con la nausea incipiente che mi tramortiva, con il mal di testa pulsante e con il ricordo distorto di una notte che aveva avuto un sapore molto strano e non del tutto soddisfacente.
Sbuffai insofferente e tornai a passo lento e strascicato verso l’interno dell’appartamento, grattandomi la testa. Celine mi studiava con espressione incomprensibile, ritta sulla soglia della cucina e con le braccia incrociate al petto come una madre badessa molto arrabbiata. Le scoccai un’occhiata in tralice e decisi di invertire la rotta prima che attraccasse dalle sue parti, puntai al bagno e lasciai la porta aperta sentendo il rumore dei suoi tacchi seguirmi precipitosamente. Sapevo di non poterla evitare in eterno ed al momento avevo almeno la scusante di non essere del tutto in me, per cui qualunque cosa avessi risposto avrei potuto ritrattarla con comodo più tardi.
-Non sono sicura che questa cosa sia un bene, Brian.- esordì senza nessuna ragione specifica.
-Ahah.- annuii io, fissando incredulo la matassa scura e filacciosa a cui si erano ridotti i miei capelli.- Sono un disastro…Ma come cavolo si fa a guardarmi…?!- constatai a mezza voce, sollevando un dito per infilarlo a caso tra i nodi e tirare.- Ahi!- sbottai socchiudendo gli occhi quando mi feci davvero molto male.
-Com’è che è successo?- insistette Celine dietro di me, mentre io fissavo sconsolato il pettine posato sul ripiano dello specchio.
-Ero troppo fatto per buttarlo fuori.- ammisi.- E’ entrato in casa e poi…già che eravamo lì, credo abbia pensato che tanto valeva approfittarne.
-…tu o lui?- ritorse lei.
Allungai una mano ed afferrai il pettine.
-Tutti e due, presumo.- confessai strabuzzando gli occhi mentre mi rendevo conto che davvero non avevo pensato nemmeno quello.
Celine sospirò, lasciò cadere le braccia da madre badessa e mi scrutò.
-Sai che Tristan è come il vento, Brian? Oggi c’è e domani è già nel letto di un altro o di un’altra.
-Sì.- risposi fingendomi disinteressato, quando in realtà bruciavo alla sola idea che potesse andare esattamente così.- Anche se, invece che “vento”, io lo definirei in modo meno lusinghiero.- affermai sforzando un sogghigno poco convinto.
Celine non aggiunse altro; io sfogai il bruciore feroce che sentivo allo stomaco sui capelli, sul viso dal trucco disfatto, sulla pelle che prese ad infiammarsi quando la strofinai con il sapone per lavare le tracce di matita nera. Non ero più un bambino da tempo, non fingevo più di credere alle favole, di Tristan sapevo che di poetico aveva solo il nome e mi aspettavo, onestamente, che quell’episodio rimanesse unico e solo.
Mi stavo prendendo in giro una volta di più. È davvero idiota credere nella bontà degli esseri umani, io avevo sopravvalutato quella di Tristan e decisamente sottovalutato la sua appartenenza alla razza.

Isaac rimaneva il compagno ufficiale, quello che metteva a disposizione casa, letto e, soprattutto, occasioni perché io e Tristan ci incrociassimo sulle scale della palazzina. Mi sono sempre chiesto se stesse usando lui tanto quanto usava me, ma non sono mai riuscito a darmi risposta, perché la capacità di Tristan di recitare la propria parte andava assolutamente aldilà della mia di capire quale fosse il ruolo che stava interpretando in quel momento. E poi dovevo rimanere concentrato su di me se volevo sperare di salvare qualcosa, per cui non avevo il tempo di pensare al rapporto tra Tristan ed Isaac se non per realizzare che, nonostante tutto, si protendeva nel tempo.
Il “nonostante tutto” comprendeva anche le discussioni interminabili che ogni tanto mi capitava di cogliere, le sentivo fuori dal pianerottolo dell’appartamento, nel corridoio del quinto piano ed a volte ne afferravo stralci in lontananza dopo che Tristan ed Isaac mi avevano beccato sulle scale ed io avevo salutato entrambi. Non ero l’unico a non sapere come comportarsi in quelle occasioni, Isaac aveva delle difficoltà enormi a rapportarsi con me: non era uno sciocco e sapeva che Tristan ed io non eravamo diventati semplicemente amiconi da un giorno all’altro. Quando mi trovava da solo mi rivolgeva occhiate rancorose e non si degnava nemmeno di parlarmi, io facevo finta di non accorgermene e persistevo nel rivolgergli insolentemente la parola, quasi volessi vendicarmi su di lui del fatto che il rapporto tra me e Tristan non evolvesse ulteriormente. Ma Isaac non c’entrava, almeno quanto non c’entravo io nella sua relazione con Tristan, mi domandavo solo se lui fossi in grado di capirlo come lo ero io.
Presumo che una delle cose che rendeva più difficile mandar giù quella storia senza futuro, fosse la consapevolezza lucida che la accompagnò dall’inizio alla fine. Non sono mai stato annebbiato dai sentimenti che provavo per Tristan, non ho mai perso la percezione esatta di quello che era e di quello che eravamo noi due, ho sempre saputo che un noi due non esisteva per nulla. Celine ha voluto credere che non fosse così, perché questo le permetteva di ricoprire il ruolo amorevole di crocerossina ed amica, faceva da confidente, mi stordiva di chiacchiere inutili che mi davano anche fastidio, consigliandomi di fare proprio come Tristan: prendere il buono e buttare via il resto. Mi veniva da ribatterle velenosamente che “il resto” che andava buttato ero io e che non era un granché sentirsi considerato come una vecchia ciabatta anche da lei.
Non glielo dicevo.
Così come non dicevo a Tristan di andare a farsi fottere e di uscire dalla mia vita una volta per tutte.
Vorrei poter affermare che la mia sia stata una scelta volontaria, che stavo scientemente e studiatamente perseguendo la mia stessa rovina, ma mentirei. La verità era che non potevo fare a meno della presenza di Tristan, che mi facevo bastare gli incontri “fortuiti” e le fughe dentro casa, in camera mia, da cui lui usciva fin troppo in fretta e con un sorriso finto e distante stampato in faccia. Magari, a mia discolpa almeno parziale, potrei addurre le capacità di imbonitore di Tristan - che erano notevoli – il numero immane di sciocchezze con cui riusciva a riempire la stanza, al punto che, per quanto ti ripromettessi di prenderle per ciò che erano – parole gettate in strada a marcire – finivi comunque per essere stordito dalla loro quantità, finché cominciavi stupidamente a dare retta alla possibilità che possedessero una qualche “qualità”. Mi parlava sempre di quanto fosse ossessionato da me, mi diceva che non riusciva semplicemente a voltarmi le spalle ed andarsene, che era la prima volta che gli succedeva una cosa del genere, che non pensava sarebbe mai accaduta e tante altre similari perle, infilate con cura tra un bacio e l’altro, tra una carezza ed una richiesta più spinta delle altre. Se faccio la somma della mia imbecillità di allora ci riempio per intero la vita e credo che, anzi, ne rimanga da scontare.
Non che gli credessi, no. Stupido sì, ma c’è un limite all’idiozia: potevo anche ammettere di comportarmi da idiota, ma avevo difficoltà ad accettare di pensare come un idiota. Per cui ogni volta che lui iniziava uno dei suoi monologhi da affabulatore, io gli rivolgevo una frase scontrosa a caso ed un insulto – il primo che mi venisse in mente, se ci ripenso eravamo esilaranti! – nella speranza di farlo smettere immediatamente. Di solito non ottenevo che una risata divertita ed un’occhiata più maliziosa delle altre.

Saremmo potuti andare avanti così per secoli.
Saremmo potuti andare avanti così fino alla fine dei secoli.
Io non volevo che finisse, lui si divertiva a trascinarsi in quella storia e nella mia vita. Nessuno dei due era veramente interessato a scoprire quale potesse essere il prezzo che avrei pagato in cambio. Io perché già a quel tempo andavo scoprendo di essere disposto a pagare prezzi altissimi per tutto ciò che volevo davvero; lui perché non era interessato a sapere se di me sarebbe rimasto abbastanza da continuare ad esistere dopo che lui avesse finito. Tristan non si poneva mai il problema del dopo, era troppo concentrato a vivere il proprio presente.
Quindi saremmo potuti andare avanti fino alla fine dei giorni di questo stesso mondo.
I “Placebo” non sarebbero mai esistiti.
Io non sarei mai esistito.
…scommetto di conoscere più di un paio di persone che avrebbero apprezzato molto questa prospettiva.
E scommetto che la mia giornalista paffutella rientra nel novero, in questo momento. Non dovrebbe rendersi tanto ridicola, non fa che accrescere il mio divertimento e prolungare la propria agonia.
Ma la verità autentica era che così come sarebbe potuto essere “per sempre” – e sempre è un tempo infinito anche da mortali, quando hai la prospettiva di passarlo rinchiuso in una prigione – era inevitabilmente destinato a schiantarsi subito. La mia biglia di vetro liscia e rotonda, perfetta, colorata come l’odio che provavo, era destinata a rotolarmi via dalle mani e scivolare a terra.
In questo momento mi piacerebbe riuscire a mantenere intatto quello stesso odio. Riuscire a mantenerlo vivo e colorato come lo era allora.

Mi sembra strano, invece, ma man mano che i ricordi vanno avanti, sfuma sul fondo. Come se quella biglia stesse rotolando troppo lontana.

Dove non potrei più afferrarla.

…mi viene quasi da domandarmi quale desiderio potrei mai avere di riacciuffarla. Dovrei raccoglierla e metterla via di nuovo, nello stesso cassetto ed in attesa che qualcun altro per sbaglio lo apra. Sarebbe molto più semplice ignorarne la caduta, fingere che non si stia davvero allontanando per non tornare mai più indietro…
Ma sono certo che non lo farò. Tristan è stato un tassello della mia vita - uno di quelli sbagliati - e come tale l’ha costruita, lasciarlo scivolare via sarebbe come rinunciare ad un pezzo di me. Io non rinuncio mai a nulla di me stesso, negli anni ho imparato quanto poco valgono gli altri e quanto più importante sia tenersi stretti a se stessi con tutta la tenacia cui possiamo ricorrere.
Quindi mi tengo stretto anche lui, quel tizio bruno che si è portato via un pezzo in più di un’adolescenza prolungata ma mefitica, la stessa adolescenza malata e senza speranze che avevo vissuto per i primi diciassette anni della mia vita.

E ricomincio da dove mi sono interrotto, dicendo che tra le cose che vorrei poter affermare c’è anche di essere stato io a rompere quella relazione senza uscita. Vorrei poter dire che ad un certo punto diventò semplicemente troppo e che la mia dignità – dovunque si sia nascosta per tutto il tempo che ho vissuto – abbia mandato chiaro il segnale che avevo raggiunto il limite in basso e più giù non potevo e non volevo scendere.
Ma non è andata così, chiaramente. Se c’è qualcosa che ho capito degli esseri umani è che il fondo non esiste affatto, non lo tocchi mai, è solo il tuo limite personale che puoi raggiungere: quello che separa la vita dalla morte.
Io non ci sono ancora arrivato, c’è un baratro talmente ampio tra me e ciò che può uccidermi davvero da giustificare almeno in parte i miei deliri di onnipotenza.
Quindi, anche se vorrei poter affermare di aver preso in mano la situazione e di aver scelto di porvi fine, la verità è stata che nessuno ed in nessun momento vi ha messo “fine”.
Tristan non era davvero ossessionato da niente e da nessuno ed io non facevo eccezione alla regola. Ero solo meno disponibile degli altri, lo insultavo invece di adorarlo spudoratamente, lo prendevo in giro quando lui si comportava in modo gentile e mi mostrava apertamente apprezzamento e lo facevo anche se non eravamo soli, quando ricevere le attenzioni di Tristan “in pubblico” avrebbe solo dovuto mandarmi in visibilio e farmi camminare un palmo da terra. Questo lo stuzzicava, cambiava gli schemi classici a cui era abituato – inseguire invece di farsi correre dietro – e lo divertiva rompendo la noia mortale di quegli stessi schemi. Il risultato finale era chiaramente che ci volesse più tempo perché io gli venissi a noia e lui decidesse di dedicare altrove le sue attenzioni.
Nel frattempo le mie possibilità di continuare ad evitare il College e gli spettacoli di fine anno si erano rapidamente azzerate. Controvoglia mi trascinai in istituto una mattina in cui non avevo proprio nient’altro a distrarmi e stetti quasi un’ora a cercare di decifrare l’elenco dei provini ancora aperti fuori dalla segreteria. Tristan mi trovò lì, a consultare svogliatamente il foglio ormai ingiallito dal sole, mi riconobbe da lontano, salutò la corte festante e puntò dritto nella mia direzione, allungando un braccio sopra la mia spalla e posando il petto sulla mia schiena, nel finto tentativo di raggiungere lo stesso elenco e puntare il dito su uno degli spettacoli in particolare. Un brivido che con il freddo aveva tutt’altro a che fare mi attraversò la pelle, i nervi ed i muscoli, irrigidendomi di scatto quando il peso di Tristan mi si appoggiò addosso, salvo poi sciogliermi altrettanto rapidamente quando il suo viso si abbassò al livello del mio orecchio, per sussurrarmi con voce roca.
-Io faccio Oberon, il Re degli Elfi.
Misi a fuoco lo spettacolo che aveva indicato e mi accorsi che era l’ennesima riedizione del “Sogno di una Notte di Mezza Estate”. Sbuffai, insolitamente era rimasto vacante il posto per Puck ed io pensai che avevo davvero poca voglia di fingermi un satiro irriverente e malizioso.
-No.- dissi quindi secco, scostando lo sguardo per continuare a sfilare la lista. Ma il fatto che nel rifiutare il suo invito non decidessi anche di spostarmi da sotto il suo corpo privò la mia determinazione di molta della sua forza d’impatto.- Volevo qualcosa di un po’ meno stagionato.- ribattei aspramente.- Sai, età del bronzo invece che paleolitico superiore.
Tristan non si fece prendere in contropiede, rise e non si spostò neanche lui, aprendo il palmo contro il foglio ed il muro per restare appoggiato mollemente alla mia schiena.
-Però sarebbe divertente lavorare assieme.- mi fece notare piano.- Voglio dire, avremmo molto più tempo da passare noi due, senza Isaac, considerato tra l’altro che Puck ed Oberon hanno un sacco di scene a due che potremmo provare…
-Non credo che tu stia davvero pensando di provare le scene della commedia con me.- ribattei scuotendo il capo e lasciandomi scappare un sorriso ammiccante mentre mi voltavo a guardarlo.
-Vero.- ammise lui senza difficoltà- Quindi farai il provino?

Avrei dovuto dirgli di no.
Avrei dovuto in quel momento esatto recidere il filo invisibile che ci teneva legati e dirgli che “no, non lo avrei fatto, perché a me non interessava”.

Chissà? se avessi saputo prima come le cose sarebbero andate, magari lo avrei fatto. Ma penso di no.

Soffio piano il fiato ed il fumo. La sigaretta si è consumata, la pazienza della donna seduta davanti a me anche. La osservo mentre fingo di studiare il mucchietto di cenere che ristagna sopra il filtro, poi mi volto guardandomi attorno e qualcuno degli assistenti che la nostra etichetta ci paga accorre rapidamente con un posacenere pulito. Ci schiaccio il mozzicone, realizzando che questa è la prima sigaretta che fumo oggi…
-Avevo diciassette anni.- inizio piano, lentamente. Lei si scuote come se si fosse appena svegliata, spalanca gli occhi e solleva automaticamente il taccuino mentre si rimette dritta sulla sedia – Mi ero appena trasferito a Londra e m’innamorai di uno studente del terzo anno di recitazione.- La penna fa un rumore infernale mentre appunta la mia vita – Penso che lui, invece, fosse più innamorato dell’idea di…fottermi – decido alla fine ridacchiando; lei alza la testa di scatto e quella dannata penna smette di stridere sul foglio ancora vuoto- di quanto non fosse realmente innamorato di me.

Era stato un finale alquanto banale in realtà.
Un grazioso “Lisandro”, in odore di immatricolazione proprio come me qualche mese prima, arrivò a rovinare l’idillio mai nato. Lo vidi sorridere estasiato ad un Tristan dallo sguardo rapace. Lo vidi accettare divertito le avances boriose e disinibite del mio vecchio amante ed osservai tutto da lontano, con lo sguardo disilluso e distante di chi sa di aver perso in partenza.
Oh, imparai davvero tanto da quell’occasione.

Imparai che l’amore si prova in tutto una o due volte nella vita.
Imparai che questo è un bene, perché tanto finisce e quando finisce lascia talmente tanti disastri che preferiresti non fosse mai accaduto.
Imparai che comunque si sopravvive e si rimettono assieme i pezzi e che, quando si è finito, si è più forti di prima o si è morti.
Io non ero morto.

Guardai Tristan e pensai che era un nome coglione e che avrei dovuto pensarci da subito che sarebbe stata una tragedia.

Il resto l’ho imparato con calma.

A cominciare dal fatto che gli addii nella vita reale non esistono mai. Tristan non venne mai a dirmi che era finita, né io né lui avevamo bisogno di quel chiarimento in ogni caso.
E poi che mentire è immensamente più facile di quello che pensavo all’inizio. Io sono diventato un maestro in questo.
E mentre la penna scrive rapida parole vuote e stupide sulla bisessualità che è il futuro del mondo, a me in realtà viene da ridere e penso che quando questa intervista finirà uscirò da qui, andrò a fumarmi una sigaretta decentemente e chiamerò Helena.
Perché sono curioso di sapere cosa sta facendo…
“Centrefolds”
MEM 2008



***

Nota di fine capitolo della Nai:

Anzitutto una nota doverosa: il concetto espresso da Brian quando dice che l’amore si prova una o due volte nella vita ed inevitabilmente finisce e che quando succede è un disastro è un’idea ispiratami da un concetto analogo, esposto in una storia di Lisachan, che potete trovare sul suo archivio personale.

Ciò detto.
E’ ridicolo. Ho cercato il titolo di questa storia per settimane ed è stato così traumaticamente evidente: mi è bastato dirmi che avevo voglia di risentire i Placebo – più correttamente, dirmi che avevo voglia di risentire la voce di Brian – per ascoltare distrattamente questa canzone ed avere un’illuminazione.

Di fatto, questa storia ha cominciato a girarmi in testa quando Liz mi ha parlato di un’intervista in cui Brian avrebbe parlato della sua prima relazione con un uomo. Dell’intervista suddetta, ho scoperto poi, conoscevo una parte – quella in cui Brian confessa di aver avuto pochissime relazioni omosessuali – ma mi mancava il pezzettino microscopico che sta all’inizio e che ha fatto nascere Tristan e questo racconto.
Povera Liz, l’ho fatta impazzire per cercarmi quell’intervista. Non volevo buttare giù un rigo senza averla letta e non facevo comunque altro che fremere nell’attesa di scrivere quella che sarebbe diventata “Centrefolds”.
Per questi stessi motivi e per la pazienza infinita di Lizzie, dedico la storia a lei ^_^ un piccolissimo ringraziamento per tutto l’aiuto che mi da e per tutti gli sbattimenti che le do io.

Da un’altra parte la dedico a Brian. Perché con questa storia ho riscoperto quello che “di lui” amo, quello che mi porta ad averne il rispetto che ho e quello che mi fa tristemente pensare che sia la più bella invenzione che la mia mente abbia mai partorito.
Vorrei illudermi che sia così anche il vero Brian, ma non lo so e non lo saprò mai. E, credetemi, siccome i sogni da svegli sono decisamente più deludenti, mi sta bene così in fondo in fondo.
  
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