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Autore: Adeia Di Elferas    28/12/2015    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ Il 25 agosto, quando furono del tutto certi che Caterina Sforza stava per lasciare Castel Sant'Angelo e che i cannoni erano ormai stati puntati altrove, i porporati di Roma si riunirono per la messa dello Spirito Santo, presieduta da Marco Barbo, per dare inizio ai lavori del conclave.
 Gli stessi vescovi e cardinali che avevano preferito disertare i funerali di Sisto IV per paura di un attacco a sorpresa della Contessa Riario, ora si intrattenevano sollevati e tranquilli davanti all'altare, certi che nulla al mondo li avrebbe potuti sfiorare.
 Marco Barbo celebrava con ostentata solennità, quasi a dimostrare a tutti i presenti che nessuno era più adatto di lui a fare il papa.
 E intanto, ben lontana ormai la minaccia dei Riario, molti prelati cominciavano a parlare concitatamente del prossimo problema: continuare o meno una guerra contro gli Ottomanni?
 Quando Caterina Sforza venne a sapere della messa preparatoria, non poté fare a meno di lasciarsi andare a una risata amara. Se solo non avesse avuto nulla da perdere, avrebbe potuto ripuntare i cannoni e fare fuoco. Li avrebbe uccisi tutti in un colpo.
 Però aveva ancora i suoi figli, e due città, che, lasciate in balia di Girolamo Riario, di certo sarebbero fallite e sarebbero state travolte dalle sommosse prima del previsto. Dunque non poteva prendersi una simile soddisfazione.

 Il 26 agosto, dopo dodici giorni di occupazione, Caterina si stava preparando a lasciare per sempre Castel Sant'Angelo.
 Aveva imposto a tutti i soldati di lucidare le armi e le armature e di preparare i loro migliori ornamenti. Ella stessa aveva richiesto abiti ricercati e aveva deciso di utilizzare le insegne degli Sforza, non quelle dei Riario.
 Quando ormai erano pressoché pronti per uscire dal castello, Attilio Fossati raggiunse Caterina nei suoi alloggi.
 La giovane stava finendo di vestirsi, ma non scacciò il comandante. Anzi, si fece aiutare con i lacci. Aveva un gran mal di schiena, quel giorno, e piegarsi per sistemarsi le allacciature era una vera tortura.
 “Cosa volevate dirmi?” chiese Caterina, mentre il comandante litigava con i lacci che chiudevano il vestito sul fianco.
 “Volevo avvisarvi che fuori dal castello c'è molta gente, mia signora. Molta più gente di quel che pensavamo.” disse Fossati, a voce bassa.
 Caterina inarcò un sopracciglio. Strano che i romani sapessero che proprio quel giorno lei avrebbe lasciato Castel Sant'Angelo... Però, pensandoci, era probabile che qualcuno avesse messo in giro la voce, nella speranza che il popolino facesse il lavoro sporco e la ammazzasse, togliendola di mezzo una volta per tutte.
 Se Caterina avesse dovuto scommettere su qualcuno, avrebbe puntato su Giovanni Colonna. O su Giuliano Della Rovere. Difficile dire chi dei due l'avrebbe voluta mortan in quel momento... Forse entrambi.
 “Capisco.” disse la giovane, mentre Attilio Fossati annodava anche l'ultima stringa.
 “Quindi, mia signora? Volete aspettare, cambiare programma o procediamo?” chiese il comandante, stringendo il nodo.
 Caterina capiva le perplessità di Fossati. Loro non erano pochi, ed erano armati, ma sapeva bene quanto la folla popolare potesse essere difficile da contenere. Ricordava ancora la confusione che aveva colto Milano alla morte di suo padre...
 “Io non mi tirerò indietro, ma la mia decisione non è un ordine. Chiedete ai soldati cosa vogliono fare – disse alla fine – chi vorrà, potrà uscire più tardi, alla chetichella, conservando la mia stima e la mia riconoscenza.”
 Attilio Fossati fece un breve inchino e uscì subito dalla stanza, per andare a riferire al resto degli uomini.
 Tornò dopo nemmeno mezz'ora: “Mia signora, tutti i soldati vogliono sfilare accanto a voi e vi proteggeranno, se le cose dovessero andare storte.”
 Caterina sorrise: “Non avevo dubbi. E ora andiamo.”

 Alla testa di un gruppo compatto e orgoglioso di uomini con indosso lucidissime armature, Caterina Sforza si preparò ad affrontare la folla.
 Non appena furono fuori dal castello, il sole caldissimo di quel finale d'agosto luccicò su tutto quel ferro, abbagliando per un istante la gente che aspettava l'arrivo della Contessa Riario.
 Caterina, in sella a un purosangue scuro, guardava davanti a sé, tesa, ma anche decisa a non tradire il proprio nervosismo.
 Indossava un copricapo piumato di velluto, un vestito di raso marroncino con lo strascico che pendeva dalle braccia e nella mano destra stringeva l'elsa della sua spada.
 Accanto a lei, oltre ad Attilio Fossati, c'erano due araldi con le insegne degli Sforza.
 Mentre la colonna di soldati avanzava, lenta e cadenzata, la folla restava in silenzio. Era una situazione innaturale.
 Caterina si aspettava che da un momento all'altro qualcuno avrebbe cominciato a gridare e qualcun altro avrebbe rotto le fila, avventandosi contro di loro.
 Invece il silenzio era talmente perfetto che si udiva solo lo scorrere indifferente del Tevere, a pochi passi da loro.
 Attilio Fossati, militare d'esperienza, era sconcertato quanto Caterina. Gli sembrava assurda, quell'accoglienza priva di strepiti e tensione. Tutti li osservavano come farebbero gli spettatori di un'opera teatrale particolarmente spettacolare.
 Caterina, che si sforzava di stare dritta in sella, malgrado i dolori alla schiena, si decise ad abbassare gli occhi, distogliendo lo sguardo dall'orizzonte lontano e puntandolo sui volti della folla.
 Su tutti quei visi di uomini, donne e bambini altro non lesse se non rispetto. La guardavano seri e decisi, senza rancore, senza paura, senza tutto l'odio che li aveva portati, nemmeno due settimane prima, a distruggere tutto quello che possedeva in Roma.
 Colta da un'improvvisa ispirazione, Caterina alzò la spada, come a salutare tutti i presenti. Inspiegabilmente, prima uno, poi due, dieci, infine tutti quanti, cominciarono a battere le mani, riempiendo l'aria con un applauso scrosciante.
 Anche Attilio Fossati, allora, sollevò la sua spada e tutti gli altri soldati fecero altrettanto con le loro picche, alabarde e lance.
 L'applauso non accennava a smettere e, anzi, il battere delle mani si faceva sempre più intenso e assordante.
 Improvvisamente così com'era iniziato l'applauso, iniziarono anche le grida.
 “Caterina! Caterina!” cominciò a ruggire la folla: “Sforza! Sforza!”
 Nessuno fece il nome dei Riario, nemmeno per sbaglio. Tutti quanti inneggiavano solo e unicamente a Caterina Sforza, che, a ventun anni, incinta di otto mesi, abbandonata dal marito e senza più uno straccio di rifugio in Roma, aveva osato sfidare da sola l'onnipotente Santa Sede.
 
 “Ma cos'è questo fracasso?” chiese infastidito Giovanni Colonna, allungando l'orecchio verso quel suono indistinto che entrava dalla finestra spalancata.
 Rodrigo Borja e Marco Barbo, lì vicini, fecero altrattanto.
 “Oddio...” sussurro Barbo, mettendosi una mano sulle labbra, preoccupato.
 Come lui, anche Rodrigo Borja aveva distinto le parole gridate dalla folla che, probabilmente, era davanti a Castel Sant'Angelo.
 “Credo stiano urlando 'Caterina' e 'Sforza'. E mi sembrano molto entusiasti.” disse lo spagnolo, con una certa calma.
 “Che intendete dire?” chiese Giovanni Colonna, accigliandosi.
 “Che se quella donna avesse scoperto prima di poter avere dalla sua il popolo, di certo non si sarebbe piegata a una resa.” disse Barbo, anticipando Rodrigo.
 Lo spagnolo alzò una spalla e buttò lì: “Non l'avrei detta così, ma di certo abbiamo avuto fortuna a poter trattare con un Riario, piuttosto che con una Sforza.”

 La folla festante accompagnò Caterina Sforza e i suoi soldati fino al limitare ultimo della città.
 Quando fu il momento del saluto finale, Caterina ordinò ai suoi uomini di voltare un momento i cavalli, per rendere omaggio al popolo.
 Gli armati fecero un inchino di gruppo ai presenti, che ricambiarono con urla di gioia e con le ultime incitazioni.
 Quello era lasciare la città con l'onore delle armi.
 Caterina osservò con attenzione quel gruppo eterogeneo e poi lanciò uno sguardo a Roma, che stava là, sullo sfondo, immobile e immutabile come sempre. In quel mentre si trovò a pensare che probabilmente quella sarebbe stata l'ultima volta in cui poteva vedere quella meravigliosa città che tanto aveva odiato, all'inizio.
 Lì aveva dovuto imparare a convivere con suo marito e sempre lì aveva assaggiato l'amara politica del Vaticano. Eppure aveva imparato molte cose, in circa sette anni di permanenza.
 Quella città eterna aveva un modo strano di tenere in catene i suoi prigionieri. Per quanto fossero robuste le sbarre e perfidi gli aguzzini, Roma era capace di far innamorare chiunque.
 Caterina disse silenziosamente addio a quella carceriera a cui doveva così tanto, e, alzando un'ultima volta la spada, fece girare il cavallo e lo spronò, gridando: “A Forlì!”
 

   
 
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