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Autore: skippingstone    30/12/2015    1 recensioni
La ragazza si alzò e ritornò a mettere in ordine le varie cose che le sembravano avere un posto sbagliato. Avrebbe voluto ordinare anche la mente di quel ragazzo che le sembrava così spaesato, indifeso ma, al tempo stesso, forte e coraggioso. Infatti, se la sua debolezza era il lasciare fuori tutti, la sua forza era il riuscire a rialzarsi da solo.
«E non ti preoccupare, io già mi sono guadagnata un posto nel tuo mondo.»
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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6. Un posto per me – realtà

Il rumore dei passi compiuti da quei tacchi neri echeggiava in tutto il corridoio. Erano le nove di sera e, con sorpresa, il corridoio era già vuoto. Non c'erano visitatori, non c'erano infermieri o dottori, non c'erano loro che passavano inosservati tra gli altri. La dottoressa, con passo fiero, continuava a spingere il carrello delle medicine lungo il suo tragitto e, per rompere quel silenzio, aveva iniziato ad intonare la melodia di una delle sue canzoni preferite. Aveva fatto tutto quello che doveva fare e, finalmente, la sua giornata era finita. Era stanca. Da tanto tempo faceva quel mestiere ma, nonostante lo amasse con tutta sé stessa, sperava sempre che la fine della giornata fosse più vicina. Di notte, nel letto, a volte pensava che stava iniziando a stufarsi di quella sua vita. La routine uccideva e aveva bisogno di una nuova sfida per sé.
Estrasse dalla tasca le chiavi del laboratorio e depositò il carrello vuoto. Uscì da lì, richiuse la porta a chiave e tornò a percorrere il corridoio. Smise di cantare e sospirò perché stava ritornando a pensare a lei, alla sua vita, al suo lavoro. Era sfinita, davvero tanto. Anche se avesse progettato qualcosa, era consapevole del fatto che si sarebbe addormentata una volta arrivata a casa. I segni del sonno si facevano già sentire… ma scomparvero quando un improvviso tonfo la spaventò. La sua camminata regolare e lineare si bloccò. Passarono pochi secondi quando sentì un altro rumore.
«Tutto bene lì dentro?»
La dottoressa, con passo lento, si avvicinò alla porta della camera 428, camera da dove provenivano i rumori. Il cuore le batteva a mille, il respiro sembrava non avere più un ritmo. Un altro rumore, questo più lieve, lei fece due passi indietro. Deglutì. Cosa stava succedendo in quella benedetta camera? Cosa stava combinando il paziente?
«Sta bene?»
Anche se stufa di stare in quel posto, la dottoressa rimaneva sempre scossa dagli eventi che caratterizzavano quel centro. Inserì la chiave universale nella serratura della porta di ferro. Contò fino a tre prima di aprire la porta ma, mentre girava la chiave, sentì intonare la canzone che prima stava canticchiando lei: la vie en rose.
Riconoscere il motivo a lei caro iniziò ad agitarla ancora di più. Decise, allora, di correre, cercare un aiuto. Percorse velocemente il corridoio e, senza nemmeno bussare, aprì la porta dell'ufficio del capo reparto.
«Il paziente della 428 credo stia male. Non so cosa succede là dentro, sento rumori.»
«Dottoressa si calmi!»
«Non ci riesco.»
Accanto alla dottoressa, c'era anche il superiore adesso. Era spaventata e non aveva avuto il coraggio di aprire quella maledetta porta in cui succedeva chissà cosa. Più si avvicinavano alla stanza 428 e più si faceva nitida la voce che intonava quella canzone.
«Inizio ad odiarlo ancora di più!»
Il superiore digrignò i denti sentendo crescere dentro di sé odio per quel paziente che non aveva mai sopportato. Uno dei peggiori, così lo definiva. La dottoressa Grandi, invece, continuava ad essere terrorizzata. Dentro di lei c'erano mille sentimenti contrastanti: inquietudine, ansia, paura. Non riusciva a trovare un'armonia tra queste preoccupazioni.
Arrivati, l'uomo aprì la porta che era rimasta chiusa a chiave, uno spiraglio di luce illuminò la figura accovacciata di un uomo.
Seduto a terra, l’ uomo, con la schiena poggiata al letto e con la testa chinata verso il basso, si cullava con un movimento ritmato, avanti e indietro, come se stesse su una sedia a dondolo. Stringeva le ginocchia tra le braccia e, lungo le dita, scendeva sangue. Mentre continuava a cantare, l'uomo accovacciato alzò, di scatto, il capo e le sue narici si allargarono per prendere un lungo respiro. Muovendo a malapena le labbra, emetteva degli strani mugolii.
«More!» - urlò alzandosi da terra velocemente.
La dottoressa indietreggiò, ancora più spaventata di prima, sapeva che quella persona voleva lei, voleva il suo profumo di more.
«More, more, more!»
L’uomo si gettò sulla donna che cadde a terra atterrita e, quando lo vide bene in faccia, si accorse di quel grigio chiaro delle sue pupille dilatate.
«Sara! Sara! Sara!»
Un sorriso gli si stampò sul viso mentre le sue mani stringevano il vestito della dottoressa che iniziava a macchiarsi di rosso. Lui si stava semplicemente inebriando di quel profumo così dolce.
«Sara, sei tornata da me! Scusa, Sara, scusa.»
La dottoressa era immobile, i suoi pensieri si bloccarono, era paralizzata. Dopo qualche attimo, il paziente fu sedato e portato via con forza.
 
«Cosa è successo in quella sala?»
Beveva sorsate d'acqua ma continuava a non capire, a non comprendere a pieno quello che era successo. L'idea di quell'uomo che l'aveva toccata, che le aveva chiesto scusa, che l'aveva chiamata per nome, che l'aveva chiamata Sara non andava via dalla mente.
«Dottoressa Grandi, dovrebbe sapere meglio di me cosa succede qua dentro!»
Le mani le tremavano più del solito. Aveva 60 anni ma non aveva mai tremato così tanto.
«Solo Dio sa cosa, ormai, so. Non ce la faccio più, ora mancava solo un paziente che volesse violentarmi.»
Con fare scettico, il superiore, guardandola, affermò: «Non so cosa dirle. Ormai, a furia di stare con i pazzi, sto impazzendo anch'io. Un manicomio non è il posto adatto per persone sane di mente come noi. Se questo la può tranquillizzare, sappia che abbiamo chiuso il pazzo in una stanza più sicura.» - fece un tiro dal suo sigaro cubano. - «Strana la vita.»
«Cosa intende?»
«Vede? Un ragazzo diventa cieco e, dopo dieci anni, deve essere chiuso in un manicomio perché inizia a perdere il senno a causa della cecità. Confonde la mamma con una donna che vuole ucciderlo, confonde il padre con un uomo che deve consegnare la posta, dice di vedere il silenzio visivo. Silenzio visivo. Che diamine vorrà dire silenzio visivo?»
«Io mi chiedo cosa avrà fatto di così male una persona per meritare una punizione del genere.»
«Oh, per favore. Sarà stato uno scherzo della natura o si sarà cacciato in qualche guaio, ma questa non è una punizione divina. Io, comunque, risolverò il problema: sarò ricordato per aver trovato la cura per tutti questi essere chiusi qua dentro.»
«Lei vorrebbe trovare una cura a tutto, ma temo non ci sia cura per questo malessere: la cecità mentale, la pazzia.»
«Perché no?»
«D'altronde siamo tutti un po' pazzi per continuare a vivere in un mondo che, forse, non ha posto per me, per noi, per loro.»
«Per noi c'è posto, per quell'uomo, Flavio Bianchi, non c'è. C'è solo una camicia di forza ad aspettarlo. Lo ha detto lei stessa : cieco e pazzo, avrà fatto pur qualcosa per meritarsi un castigo del genere. Lei cosa avrà fatto per essere la fantasia di questo malato rincoglionito?»
La dottoressa osservò in maniera curiosa l'uomo che le stava di fronte. Continuava a fumare in maniera ossessiva quel suo sigaro e giocava con le parole a proprio godimento. Subdolo e contorto, questo pensò di lui.
«Io non ho fatto proprio niente a nessuno, né tantomeno a quelli che lei definisce malati rincoglioniti. Non dimentichi che anche loro sono persone!» - Dentro di sé una scintilla, odiava quando qualcuno usava termini di disprezzo verso le persone che, senza neanche desiderarlo, erano diventati gli abitanti di quel luogo malsano. - «Comunque non so perché quel paziente voleva me. Io non l'ho mai visto, non era un paziente sotto la mia supervisione.»
 
La prima volta che si scontrò con Flavio Bianchi, lei stava parlando con una segretaria. Stava consultando degli esami, esami a cui erano sottoposti tutti i pazzi.
«Scusi, posso chiedere un favore?»
La dottoressa Grandi alzò lo sguardo dalle carte per poter guardare la persona che la cercava. Non aveva mai visto quell'individuo ma, da subito, aveva capito che era un paziente del manicomio. Ci aveva passato più di 40 anni in quel posto e sapeva riconoscere subito qualcuno che non stava bene con il proprio essere.
«Mi chieda qualsiasi cosa.»
«La sente questa musica?»
Lo guardò attentamente perché voleva provare ad analizzarlo, a capire di cosa soffrisse.
«No...»
«La provi ad immaginare, allora.»
«Aspetti un attimo...»
Lei si allontanò dalla scrivania e si avviò verso il giradischi. In uno scaffale era possibile trovare tanti vinili e la dottoressa Grandi, riscoprendo il suo passato in quelle canzoni che conosceva bene, ne scelse uno.
«Che canzone è questa?» - chiese il ragazzo appena sentì la musica.
«La Vie En Rose, la mia preferita. Per essere stata una ragazza che si importava poco e niente del romanticismo, ho sempre amato questa canzone. In effetti è vero: da giovane ero un po' pazza ed egocentrica.»
Lei rise e lui accennò un sorriso mentre ascoltava la canzone.
«La dottoressa Sara Grandi?»
«Si...»
«Può venire un attimo?»
La dottoressa Grandi, lasciando le vesti della giovane Sara che la canzone le avevano ridato, ritornò al suo lavoro perché chiamata da una collega.
«Si godi la canzone.»
Così salutò il ragazzo che, senza farlo apposta, si sarebbe innamorato di lei. Anzi, non di lei, ma dell'idea di lei. Flavio, in un mondo tutto suo, in un mondo strano e contorto dove la visione della realtà era distorta, aveva davvero amato una Sara. Con lei, una ragazza di quasi 30 anni, aveva parlato per la prima volta nella stanza 428 di un centro sperimentale di cura per la cecità. Sempre in quel mondo, lui iniziava ad affezionarsi a quella donna per la sua caparbietà, la sua forza, la sua intelligenza, la sua voglia di vivere, poi la sua Sara l'aveva lasciato perché l'amore aveva fatto brutti scherzi.
In realtà non era stato l'amore, era stata la mente di Flavio che aveva fatto brutti scherzi, scherzi che avevano giocato con il suo cuore: non esisteva nessuna Sara di quasi trent'anni, non esisteva nessuna serata nel parco, non esisteva nessun centro di cura sperimentale per la cecità. Esisteva solo una Sara che aveva quel carattere buono, dolce, caparbio ma che non era innamorata di lui. Esisteva un uomo arrogante ed egocentrico convinto di cercare una cura per la pazzia e non per la cecità. Esisteva un manicomio. Esisteva una stanza 428 in cui non c’erano finestre, telefoni e una porta sempre aperta. Esisteva un pazzo che, per sua sfortuna, era anche cieco.

«Sara, davvero, ti chiedo scusa. Io... Forse è vero: non mi vuoi perché sono cieco.»
Buio, sapeva che era buio. Era buio anche nel suo cuore. Nessuno si “ accendeva” in sua presenza, nessuno era presente per lui. Sara sì. Sara era stata presente, davvero, ma aveva rovinato tutto. La sua oasi si era prosciugata. Lui non l'aveva trattata da fango, si era solo sentito rifiutato ma, adesso, sapeva che non era così. Perché, però, Sara continuava a scappare? Perché non lo riconosceva? Perché non voleva restare? Perché non aveva accettato le sue scuse?
«Sara...»
Il tono di voce, improvvisamente, divenne più forte e stridulo. Iniziò a dimenarsi sul pavimento e a mordersi le labbra, la lingua. Urlava e sudava. Non poteva dare pugni a qualcosa o correre perché la camicia di forza gli impediva ogni minimo movimento libero. Poteva solo rotolare, saltare e cercare di restare in equilibrio. L'equilibrio che era già da tempo scomparso. Nella sua mente continuavano a ripetersi i momenti con lei, le sue caratteristiche, il discorso sul continuare a giocare, il suo chiamarlo stronzo. Bramava quel profumo di more, voleva quel tocco che, con fare dolce e distruttivo, gli aveva fatto aprire gli occhi, cercava di capire che gusto c'era ad evitarsi quando loro erano musica.
Per far zittire la sua testa, per dimenticare quelle magie, per poter tornare a preoccuparsi solo ed esclusivamente del suo silenzio visivo, iniziò a battere la testa contro il muro.
«Forse non c'è posto, per me, nel tuo mondo.»
  
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