Erano
trascorse quasi due settimane da quando Galahad si
era unito ad Artù, Galvano, Mordred ed Estor ed erano trascorsi un paio di giorni dalla brutta
disavventura con l’uomo e la scacchiera dissanguatrice. Il legame tra i cinque
si era notevolmente rinforzato dopo quell’ultimo episodio.
Galahad era tuttavia
piuttosto pensieroso era certo di avere delle domande per cui non avrebbe
ottenuto risposta, una volta che si fossero ricongiunti con Lancillotto. Non gli
pareva giusto indagare ciò che suo padre non voleva che ancora sapesse, ma
d’altra parte non voleva neppure restare ancora con mille dubbi. Si decise
quindi a vincere le sue incertezze.
Una
sera, attorno al fuoco, Galahad si fece coraggio e
disse: “Pur lontano da Camelot e da qualsiasi altra
corte frequentata dai vostri cavalieri, ho sentito raccontare moltissime storie
e oserei dire che mi pare quasi di conoscere le personalità più di spicco di Logres. Vi è però un uomo di cui ho sentito il nome alcune
volte, che sembra essere importante, ma che nessuno è mai riuscito a spiegarmi
chi sia esattamente e che cosa faccia.”
Mordred commentò,
ridacchiando: “Se intendi Keu, ce lo chiediamo tutti
quanti.”
“Chi,
dunque?” domandò Galvano.
“Pelleas è il suo nome.”
L’aver
rivisto o ripensato a quell’uomo dopo tanto tempo, aveva fatto riaffiorare in Galahad i quesiti su di lui; si era ricordato che il padre
gli aveva fatto cenno al fatto che Pelleas centrasse
con la Tavola Rotonda, per cui sperò che i suoi compagni di viaggio gli
fornissero spiegazioni.
I
cavalieri e il Re si scambiarono qualche occhiata perplessi, poi Artù disse:
“Sei già molto fortunato ad aver sentito il suo nome e mi piacerebbe sapere
come sia possibile. Solitamente lui raccomanda sempre il silenzio su di sé e
quasi mai si è rivelato a qualcuno che non fosse Merlino o membro della Tavola
Rotonda. In realtà, solamente io e Merlino lo conosciamo piuttosto bene e
sappiamo … beh, per te sarà già un onore sapere quello che sanno i cavalieri
della Tavola Rotonda: è lui che, diverse volte, ci indica dove intervenire ed è
a lui che consegniamo gli oggetti più pericolosi in cui ci imbattiamo. Questo è
quanto.”
Galahad era forse ancor
più dubbioso che non soddisfatto da quella mezza risposta.
Mordred chiese: “Tu da
chi hai sentito il suo nome?”
Estor intervenne
rapidamente: “Sicuramente da sua madre Elaine, non ti sembra?”
“Ah,
già” borbottò l’altro “Mi sembra ancora strano pensare che Lancillotto abbia
avuto un figlio da quella donna. Quando mai li si è visti assieme?!”
“Fratello,
non è gentile parlare in questo modo.” lo ammonì Galvano.
Mordred sbuffò e non
disse null’altro. La conversazione deviò su altri argomenti e Galahad accantonò le proprie curiosità per qualche ora,
finché non rimase sveglio da solo con lo zio per il turno di guardia.
“Zio,
che cosa sai di mio padre e mia madre? Lei mi ha sempre detto che lui non le
aveva mai perdonato il fatto che lei non fosse la donna che lui amava; che cosa
intendeva dire? Non capisco … e poi che cos’è cambiato, anni fa, che li ha
convinti a formare una famiglia?”
Estor non rispose
subito, rimase pensoso e mosse la mani nervosamente, ma infine disse: “Sei
grande, dopo tutto, non credo che conoscere la verità, almeno quella che è
stata detta a me, possa turbarti. Lo so che molti immaginano i genitori
innamorati, uniti e così via, ma la vita spesso va contro agli ideali. Tuo
padre ama una donna, di cui non farò il nome poiché è sposata e non voglio
creare imbarazzi. Durante uno dei suoi viaggi Lancillotto ha incontrato Elaine,
non so che cosa sia accaduto esattamente; lui dice di essere stato ingannato,
non saprei. So per certo che non volle più sentir nominare né lei, né Pelleas finché non ti ha conosciuto, dopo aver visto te si
è addolcito. Sei anni fa, mi pare, a causa di un malinteso, la donna amata da
tuo padre cadde preda della gelosia e lo ferì, emotivamente, in maniera molto
profonda. Lui andò in depressione, si isolò finché ad un tratto lo raggiunse
Elaine che si prese cura di lui, gli stette vicino e lo aiutò a riprendersi.
Lancillotto le fu molto grato per questo e decise di darle una possibilità e
vivere assieme a lei, in Francia, dove non si sapesse che non sono sposati,
lontano dal suo vero amore che lo ha fatto soffrire … ma credo che l’unico
motivo per cui sia riuscito a stare lontano da Logres
così a lungo sia stato perché tu eri con lui. La sola presenza di Elaine non
sarebbe bastata a trattenerlo.”
“Che
cosa c’entra mia madre con Pelleas? È già la seconda
volta che li colleghi.”
“Non
lo sai?!” si meravigliò Estor “Non è stata lei a
parlarti di lui?”
“No.”
“Chi
allora?” il cavaliere era stato piuttosto incalzante.
Il
giovane, vedendo lo zio innervosito ma non per rabbia, decise di dire la
verità: “L’ho conosciuto di persona. Mi è venuto a far visita, tal volta,
mentre ero solo. Non capita più da quando vivo con mio padre. Non mi ha mai
raccontato nulla di sé, ma abbiamo sempre e solo parlato di nozioni e studi.”
“Quindi
tu l’hai visto fuori dal suo castello? Com’è possibile? Come fa a muoversi con
la ferita che si ritrova? Va beh, non ha importanza. Galahad
… io non so se posso dirtelo, cioè, se avesse voluto che tu lo sapessi, te lo
avrebbe detto lui stesso. Pazienza, tanto vale che te lo dica, lasciarti col
dubbio mi pare crudele. Pelleas è il padre di Elaine,
o almeno così si dice.”
Il
giovane strabuzzò gli occhi e rifletté ad alta voce, quasi per convincersi,
tanto gli pareva sorprendente il fatto: “Quindi lui è mio nonno?!”
Rimase
con quel pensiero per tutta notte e si coccolò ricordando le conversazioni avute
con lui. Si chiedeva il perché del tenere segreta la loro parentela, ma
preferiva godersi la sensazione di avere un altro tassello sulla propria
famiglia, le proprie origini e dunque la propria identità.
Vi
avrebbe pensato volentieri anche il giorno seguente, ma venne coinvolto nelle
conversazioni di Artù e dei cavalieri.
Giunsero
finalmente alla piana nebbiosa. Usciti dalla foresta, videro un muro di nebbia
alzarsi a un chilometro circa da loro; saliva fino in cielo ed era così largo
che lo sguardo non poteva abbracciarlo completamente. Si avvicinarono e si
resero conto di quanto la nebbia fosse fitta e che sarebbe stato praticamente
impossibile vedere alcunché, una volta entrati in quell’area.
Estor domandò:
“Galvano, Mordred, come andate a trovare vostra zia,
di solito? Avete idea di come raggiungere il castello?”
“No,
di solito ci incontriamo in altre residenze, oppure viene lei nelle Orcadi.”
“Come
procediamo?” continuò a chiedersi Estor, preoccupato
per il fratello.
“Intanto
quante corde abbiamo?” chiese Galahad.
“Corde?”
domandò Galvano, poi capì “Certo, ci leghiamo assieme per non perderci una
volta dentro, ottima idea.”
Artù
era piuttosto tranquillo, si sfilò il fodero con Excalibur e disse: “Galvano,
prendila tu al momento, io userò Marmiadoise, la sua
luce dovrebbe aiutarci ad avanzare. Sono convinto che Morgana, quando si
accorgerà che siamo noi, ci aprirà un passaggio per il suo castello senza
difficoltà. Dobbiamo solo farci notare.”
“E
respingere i suoi guardiani, finché non vi avrà riconosciuti.” aggiunse Estor.
Il
Re diede la propria spada al nipote e per sé ne prese una che aveva legata al
cavallo, assieme a bisacce e altri bagagli; appena la lama fu sfoderata, brillò
di una tale luce da abbagliare gli altri e costringerli ad abbassare lo
sguardo.
Galahad provò un
brivido d’emozione: quella spada era appartenuta, un tempo, ad Ercole e Artù
l’aveva conquistata in battaglia, sconfiggendo il gigante Frollo.
Il
giovane era estasiato: era la prima volta che vedeva dal vivo qualcosa di
considerato leggendario e il trovarsi in presenza di un oggetto che era stato
protagonista di alcune delle grandi imprese dell’umanità, gli provocava una
sensazione di ammirazione ed entusiasmo e ne era elettrizzato.
I
cinque uomini legarono se stessi e i cavalli in una cordata, ma non in fila
indiana. Artù era davanti e accanto a lui c’era Galvano, dietro erano stati
messi i destrieri divisi in due fila, alla loro sinistra c’era Estor, a destra Mordred, mentre Galahad era dietro a tutti a far da retroguardia.
Dopo
alcuni minuti si udì un frullio d’ali. Il gruppo si arrestò. Artù agitò Marmiadoise per aria, cercando di illuminare un poco ciò
che li circondava; infatti la nebbia era talmente fitta che anche la potente
spada non riusciva a schiarire se non per tre metri di diametro. Videro delle
ombre volteggiare sopra di loro, ma non poterono distinguerle con precisione,
ma sembravano rapaci molto grossi. Pochi istanti dopo, alcuni di essi
piombarono in rapidissima picchiata contro di loro. Gli uomini sollevarono gli
scudi per ripararsi, ma gli uccelli erano numerosi e parevano giungere da tutte
le parti, dunque era difficile proteggersi, anche perché l’attacco fu molto
rapido.
I
rapaci avevano becchi e artigli molto robusti e affilati e riuscirono a ferire
i cavalieri e anche a strappare loro qualche brano di carne. La cosa più
agghiacciante era stata che, cozzando contro gli scudi o le spade, con cui gli
uomini avevano tentato di respingerli, per l’aria erano vibrati suoni
metallici.
Un
attimo dopo una pioggia di frecce si abbatté sul gruppo.
Galvano,
che era vicino al re e dunque aveva una visuale migliore, si rese conto che ciò
che li stava colpendo non erano dardi normali, bensì piume di bronzo. Il
cavaliere sbuffò e comunicò agli altri: “Uccelli Stinfalidi!”
“Idee
utili per affrontarli?” domandò Mordred “Non credo
che potremo seguire l’esempio di Ercole e abbatterli con le frecce.”
“Bah,
io posso anche accontentarmi di abbatterli a spadate
quando si avvicinano” disse Estor “Il tempo lo
abbiamo.”
Galahad rapidamente
pensò a ciò che sapesse su quelle bestie e disse: “Hanno un udito molto
sensibile, potremmo trovare la maniera di sfruttare questo fattore per
confonderli o disturbarli.”
“Ci
vorrebbe un suono molto acuto” disse Galvano “Non saprei però come produrlo.”
“Ci
penso io.” li tranquillizzò Artù.
La
gemma azzurra della corona si illuminò e si sentì una nota lunga e acuta, che
costrinse gli uomini a tapparsi le orecchie. Gli uccelli parvero disorientati e
infastiditi, ma appena il suono cessò, ripresero l’attacco. Questa volta, i
cavalieri furono più abili a difendersi e ne riuscirono ad abbattere qualcuno
con le loro spade.
“Non
è stato sufficiente, dannazione!” disse Morded,
furente.
“Ci
vorrebbe qualcosa di più acuto ancora, ma forse ci rimetteremmo anche noi.”
“Pitagora!”
esclamò Galahad “Pitagora ha studiato anche la musica
e il suono, ha osservato che le note hanno diverse e specifiche lunghezze e
vibrazioni e per questo corde differenti producono suoni diversi su una cetra.
Ipotizzò che potessero esserci tonalità con vibrazioni tali da non poter essere
sentite dalle orecchie delle persone ma solo da alcuni animali.”
“Sono
solo ipotesi!” ribatté Mordred “Come potremmo, poi,
ottenere un suono che non sappiamo se esiste?”
Artù
invece, annuì: “Ho capito che cosa intende il ragazzo. Con la corona posso
farcela … basta ch’io abbia ben chiaro in mente come sia scientificamente
possibile quel suono e la corona dovrebbe riuscire ad emetterlo. Io provo.”
Poco
dopo gli uccelli parvero cadere preda della follia, si agitarono, alcuni
riuscirono a fuggire lontano, ma la maggior parte cadde a terra, morta.
I
cinque uomini si rimisero in ordine, cercarono di capire se i cavalli stessero
bene e poi si rimisero in cammino. Passarono pochi minuti e improvvisamente si
aprì uno squarcio nella nebbia, come un varco, che rivelava un sentiero in un
prato fiorito che conduceva a un solido castello poco distante.
Artù
sorrise e disse: “Ecco, Morgana si è accorta di noi e ci mostra il passaggio,
andiamo.”
Attraversarono
quel varco che subito si richiuse alle loro spalle. Non vi era più nebbia, ma
un’atmosfera primaverile in un ambiente che aveva del selvatico e
dell’addomesticato al medesimo tempo, come se qualcuno avesse voluto ricreare
un luogo silvestre.
Salirono
a cavallo e galopparono fino al castello. Vennero ben accolti da servitori, non
tutti umani, che li aiutarono a scendere da cavallo e procedettero alle solite
procedure quando giungevano ospiti di riguardo. Estor,
allora, fu rapido: prese un biglietto che aveva preparato nei giorni
precedenti, senza farsi notare dai suoi compagni di viaggio, lo mise in mano a
uno dei servi, ordinandogli di consegnarlo
immediatamente a Morgana.
Il
messaggio era semplice: avvertiva la Fata che Artù era convinto di trovare lì Lancillotto
come ospite, dunque le conveniva avvalorare tale teoria per evitare che il Re
scoprisse che cosa avesse davvero fatto.
I
cinque uomini vennero fatti accomodare in un salone dove poterono sedersi,
rifocillarsi ed essere medicati alle ferite che avevano subito dagli uccelli Stinfalidi.
Presto
li raggiunse Morgana: era bellissima, alta e magra, di carnagione lattea ma
luminosa, occhi di smeraldo e lunghissimi capelli lisci color rame. Andò subito
ad abbracciare il fratello e i nipoti e
si profuse in mille saluti. Rivolse poi un saluto anche ad Estor e, infine, notando la presenza di Galahad
domandò chi fosse.
Artù
rispose: “È colui che stavi aspettando, è il figlio del tuo ospite che doveva
raggiungervi, noi lo abbiamo incontrato e abbiamo deciso di accompagnarlo. A
proposito, dov’è il mio buon Lancillotto? Desidero riabbracciarlo, ormai manca
da vari anni.”
Morgana
si sorprese nello scoprire che Lancillotto aveva un figlio e subito un’idea le
balenò nella testa e illuminò il suo sguardo, però nascose tutto ciò ai suoi
ospiti; simulò un sorriso e disse: “Il vostro cavaliere è stato a caccia, è
rientrato poco prima del vostro arrivo, ora si sta lavando e cambiando, presto
ci raggiungerà.”
La
verità era che Morgana, letto il biglietto, dopo essere andata su tutte le
furie ed essersi calmata, era andata nella stanza in cui teneva prigioniero
Lancillotto e gli rivelò le circostanze che la
costringevano a rendergli la libertà, dicendogli poi di rendersi
presentabile e raggiungere il salone il prima possibile.
Così
avvenne e Lancillotto si riunì col suo Re, coi suoi amici e con suo figlio.
Artù
era molto contento di poter stare in compagnia della sorella che praticamente
non aveva più visto da quando era stato costretto ad esiliarla e parlavano con
una tale amicizia e intesa che pareva non si fossero mai separati.
Il
Re erra così lieto che si fermò in quel castello per una settimana e poi decise
di partire, solo perché i suoi cavalieri gli ricordarono che, se non fosse
giunto a Camelot per la Pentecoste, la Regina e tutta
la corte si sarebbero molto preoccupati.
Durante
quel soggiorno, tuttavia, Morgana mise in atto un piano che le era nato nella
testa non appena scoperta l’identità di Galahad. Il
secondo giorno, la Fata mostrò al fratello e ai suoi compagni il proprio
castello con anche i cortili, i campi coltivati e gli allevamenti, tenendo per
ultime le scuderie, poiché ben sapeva come i cavalli attirassero grandemente
l’attenzione di quegli uomini.
Mentre
il Re e i cavalieri ammiravano i destrieri, notarono uno stallone nero non
ancora domato, tenuto in un recinto. Ne rimasero tutti affascinati, poiché
appariva robusto e adatto sia alle battaglie che a lunghi viaggi. Morgana
spiegò che quel corsiero era comparso nelle sue terre qualche mese addietro e
che con grande fatica erano riusciti a spingerlo in quel recinto, ma che
nessuno era riuscito ancora domarlo e dunque era intenzionata a donarlo a chi
ne fosse stato capace.
Artù
allora disse: “Mi piace molto quest’animale e son certo che mi servirebbe bene,
tuttavia la tradizione impone che a tentare sia prima il più giovane e poi si
vada in crescendo, dunque spetta a Galahad di tentare
per primo.”
Il
giovane non si tirò indietro e Morgana fu soddisfatta poiché gli eventi stavano
prendendo la piega che lei aveva
previsto. La Fata aveva mentito a proposito del cavallo, esso infatti era un
animale sovrannaturale, nato dal sangue di Medusa, che lei aveva evocato
tramite la propria magia; aveva gli zoccoli in acciaio e il suo fiato era
incandescente, tanto da poter arrivare anche a sputare fiamme, mentre il suo
nitrito atterriva chi lo udisse. Morgana aveva richiamato una tale creatura
poiché desiderava che il giovane morisse nel tentativo di domarla, proprio
davanti agli occhi di suo padre. Non aveva potuto tenere imprigionato
Lancillotto, ma non aveva rinunciato alla possibilità di farlo soffrire.
Le
cose, tuttavia, presero una differente piega da quella desiderata dalla Fata.
Galahad prese un paio
di briglie di quelle offerte da Morgana ed entrò nel recinto. Si pose davanti
al cavallo che, dopo averlo guardato per qualche istante, si precipitò in
carica contro di lui, nitrendo tremendamente, come urla infernali. Il giovane
si scostò in tempo per evitarlo, ma dopo poco lo stallone lo stava puntando
nuovamente. Galahad fu rapido e agilissimo: mentre la
bestia gli passava accanto, appoggiò le proprie mani sul suo dorso e si diede
la spinta per balzare in groppa; fu l’affare di pochi secondi e tutti rimasero
stupiti. Era riuscito, tuttavia, solo a salire sul destriero, domarlo sarebbe
stato ben più complicato.
Tenendosi
stretto soltanto con la forza delle proprie gambe, il giovane aveva le mani
impegnate nel tentativo di mettere le briglie; il cavallo si ribellava
fieramente a tale tentativo, agitando il collo e, ogni tanto, soffiando col suo
fiato incandescente contro le mani del giovane, che ignorò il dolore e, dopo un
paio di tentativi falliti, riuscì a infilare le briglie.
Ora
teneva saldamente le briglia e cercava di calmare il cavallo che si agitava
furiosamente e cercava di disarcionarlo in ogni modo: si scuoteva vigorosamente,
galoppava a zig-zag e si impennava.
Galahad resisteva,
senza spaventarsi, ma d’improvviso le briglia di cuoio si spezzarono e lui,
perso il suo sostegno, cadde a terra. Il corsiero si precipitò nuovamente
contro di lui, sollevò le zampe anteriori e cercò di schiacciarlo sotto i suoi
zoccoli d’acciaio. Il giovane si rotolò da una parte e dall’altra per evitare
di essere pestato. Vedeva le zampe imperversare sopra di lui, mentre tutt’attorno
la polvere si alzava, disturbando la vista e irritando il respiro. Non riusciva
ad allontanarsi il tanto necessario per rimettersi in piedi. Raccolta grinta ed
energia, Galahad alzò le braccia e afferrò gli
zoccoli e si oppose alla loro spinta. Rimasero in quella posizione per lunghi
momenti: sopra lo stallone che cercava di abbattere le sue zampe, sotto il
giovane che resisteva per respingerlo; due forze contrapposte che lottavano in
un’immobile tensione per sopraffarsi.
Il
cavallo nitrì per incutere timore nell’uomo, ma non ebbe successo; allora
soffiò fuoco dalle sue narici. Galahad prima voltò il
capo per ripararsi in parte e poi si sforzò di accostare le mani e tenerle in
corrispondenza del viso, in modo che le zampe stesse dall’animale lo
riparassero dalle sue fiamme.
Ad
un tratto un tremore scosse i due avversari. Le braccia del giovane si
piegarono per un istante, per poi raddrizzarsi di nuovo dando una vigorosa
spinta all’equino che venne sbalzato prima verso l’alto e poi di lato e cadde
per terra, ma subito si rialzò, furioso. Il tempo era però stato sufficiente
affinché Galahad si rimettesse in piedi.
Uomo
e cavallo si diedero ancora battaglia. Il giovane replicò la stessa agile mossa
con cui era salito in groppa la prima volta ed ebbe di nuovo successo, ora però
non aveva briglie che lo potessero aiutare. Serrò le gambe in modo che
bastassero a tenerlo in equilibrio, poi passò un braccio attorno al collo dell’animale
e serrò la presa, mentre con l’altra mano gli afferrò la criniera.
Lo
stallone era ancora imbizzarrito, ma le salde prese di Galahad
si facevano sentire e iniziavano a sortire qualche effetto. Dapprima il giovane
strattonava la criniera e bloccava il collo; la furia del destriero andò pian,
piano scemando e l’uomo gradualmente abbandonò le maniere brusche e lasciò
andare il collo e con la mano prese ad accarezzare la criniera e il dorso.
Il
cavallo era diventato docile e obbediva ai comandi di Galahad.
Il ragazzo, soddisfatto, fece un giro del recinto al passo, poi al trotto e
infine al galoppo, per poi tornare placido. L’uomo smontò e carezzò
affettuosamente il muso del corsiero che lo ricambio con un nitrito amichevole.
Gli
spettatori erano rimasti sbalorditi da tale impresa e non poterono che ammirare
la bravura del giovane e lo applaudirono abbondantemente.
Galahad condusse il
cavallo davanti ad Artù e gli disse: “Sire, vi faccio dono di questo cavallo.”
Il
Re sorrise e rispose: “E io lo rendo a te, valoroso amico, hai ben dimostrato
che siete degni l’uno dell’altro.”
“Vi
ringrazio infinitamente, mio signore.”
Lancillotto
gli disse: “Dagli un nome, figliolo, questo cavallo ti sarà ottimo compagno.”
Il
giovane ci pensò un poco, poi disse: “Penso che un nome adatto sia Brannon.”
Galvano
commentò: “Se ricordo bene, è il nome di un demone, secondo la tradizione
normanna … direi che calza a pennello.”
Furono
tutti contenti e orgogliosi della buona riuscita del ragazzo. Solamente Morgana
era scontenta per il fallimento del proprio piano; stava già pensando a un
qualche nuovo tranello, ma poi le venne un’idea differente: non avrebbe più cercato
di uccidere Galahad, avrebbe lasciato che
raggiungesse Camelot e che fosse presentato a tutta
la corte di modo che Ginevra scoprisse che Lancillotto non le era stato fedele.
Era certa che la cieca superbia e gelosia della Regina si sarebbero risvegliate
tremendamente e sarebbero state sufficienti per far soffrire Ginevra; in fondo,
la Fata aveva giurato odio alla moglie del fratello, mentre considerava
Lancillotto solo come un ostacolo per i propri piani o un mezzo per ferire la
sua nemica.
Il
Re e i cavalieri conclusero il loro soggiorno presso Morgana e si rimisero in
viaggio alla volta di Camelot. Erano ancora distanti
da Logres e dunque il cammino era piuttosto lungo e
attraversava anche territori ostili.
Dopo
alcuni giorni trascorsi senza trovare ospitalità da alcuna parte, poiché erano
passati solo per zone rurali, giunsero nei pressi di un castello austero. I viaggiatori
decisero di chiedere di trascorrere la notte lì e dunque si avvicinarono al
portone serrato, cercando qualcuno a cui rivolgersi.
Dalla
torretta che sovrastava la porta, una guardia si sporse e li avvertì: “Mal
venuti, signori, al Castello della Pessima Avventura.”
Galvano
ribatté, offeso: “Villano, perché accogli in tal maniera dei viaggiatori?”
“Perché?
Lo capirete bene se farete un altro passo ed entrerete in questa fortezza. Parlo
per il vostro bene: se entrerete qui, troverete solo ingiurie ed oltraggi.”
Mordred replicò: “State
parlando a Re Artù! Apriteci e smettetela con questa
sceneggiate.”
“Al
mio Signore non spaventa il nome del vostro. Entrare qui non è un problema, è
uscirne il difficile. Se insistete, aprirò il portone, ma siate consapevoli che
non lo varcherete una seconda volta.”
I
cavalieri non si lasciarono intimidire ed entrarono ugualmente. Non trovarono
nessuno ad accoglierli. Lasciarono i cavalli nel cortile e si incamminarono per
ispezionare il palazzo e cercare qualcuno. Entrati nell’edificio, trovarono
trecento donne, vestite poveramente, intente a
tessere in un grande salone. Meravigliati di ciò, si accostarono ad una di loro
e domandarono chi fossero, per chi lavorassero e dove potessero trovare il
signore del maniero.
La
donna tristemente rispose: “Siete stati stolti ad entrare in questo castello e
presto incontrerete il nostro malvagio padrone e il suo tremendo fratello. Sono
figli del diavolo! Non dico tanto per dire, lo sono realmente: loro madre era
una strega e loro padre un demone. Essi hanno la forza di cento uomini e sono
eccellenti guerrieri, ma non possono uscire da questo castello, dunque ogni
volta che arrivano degli stranieri li sfidano a duello e, dopo averli vinti e
uccisi, li divorano. Solo il nostro precedente re è riuscito sopravvivere, ma a
caro prezzo: egli ottenne di avere salva la vita, ma a patto che ogni anno
inviasse qui trenta fanciulle come pagamento di un tributo. Quelle che vedete
in questa stanza sono le donne mandate qui nell’arco di dieci anni. Siamo costrette
a lavorare tutto il giorno e il nostro padrone vende le stoffe da noi prodotte
e si arricchisce, mentre noi restiamo in povertà e con pochissimo cibo.”
“Non
abbiate timore” la rassicurò il sovrano “Sono Artù Pendragon
e i miei compagni sono alcuni dei miei più valenti cavalieri, vi do la mia
parola d’onore che faremo qualsiasi cosa in nostro potere per porre fine alla
vostra prigionia.”
“Ah,
Dio vi benedica per la vostra buona volontà e vi protegga, anche se temo che
nemmeno voi ne uscirete vivi.”
Artù
e i suoi proseguirono l’esplorazione del castello, salirono uno scalone e
raggiunsero una sorta di sala del trono dove trovarono due uomini alti oltre
due metri, muscolosi, con pelle spessa e dura color grigiastra, occhi rossi da
felino, denti come zanne. Erano i fratelli demoniaci.
“Oh,
bene, abbiamo visitatori!” esclamò uno dei due, sogghignando “Erano alcuni mesi
che non ricevevamo ospiti … iniziavo giusto ad avere un certo languore.”
“Suvvia,
fratello” lo richiamò l’altro “Dove sono finite le buone maniere? Dobbiamo
almeno presentarci ai nostri ospiti, spiegare loro le nostre tradizioni.”
“Sappiamo
già quanto occorre sapere.” annunciò Artù, solennemente “Siamo qui per porre
fine alle vostre angherie.”
“Oh,
che carino!” commentò uno dei due mezzidemoni “Anche
lui ripete la solita frase fatta. Quante volta l’abbiamo sentita?” e scoppiò in
una risata.
“Preferiremmo
saltare le formalità e giungere subito al combattimento.” dichiarò Artù.
“D’accordo,
come volete.”
I
due fratelli si alzarono in piedi e si prepararono al duello, impugnando le
loro armi: due bastoni biforcuti di corniolo.
Lancillotto
si fece avanti e domandò: “Sire, permettete che sia io a battermi con costoro. È
da molti anni che non vi rendo un servigio.”
“Te
lo accordo, mio buon amico. Dal momento che i campioni da affrontare sono due,
vorrei fosse tuo figlio ad affiancarti in questa prova, poiché ancora non l’ho
visto battersi contro un nemico reale.”
Lancillotto
e Galahad si strinsero l’elmo e la corazza, presero
scudo e spada e si prepararono ad affrontare i due mezzidemoni.
Il
duello cominciò. I signori del maniero assestavano colpi e mazzate dai quali
elmo e scudo non era riparo: sotto quelle percosse le protezioni si ammaccavano
e spaccavano e il ferro e il bronzo fondevano come ghiaccio.
Padre
e figlio tuttavia non erano da meno e si battevano con grande abilità; presto
però capirono che non era saggio affrontare ognuno il proprio avversario,
ignorando l’altro duello, dunque si strinsero fianco a fianco e utilizzarono
una tattica che richiedeva grande sincronia e armonia tra di loro, infatti
cominciarono ad attaccare e a difendersi come fossero stati un’unica persona. Attenti
l’uno all’altro e agendo come fossero una sola mente, riuscirono più facilmente
a fare fronte ai possenti nemici, ad evitare i loro attacchi, difendersi e controferire.
Se
i demoni si affidavano soprattutto alla potenza dei loro colpi, i cavalieri
puntavano soprattutto sulla rapidità: le loro lame vorticavano da ogni lato, in
alto e in basso e quando riuscivano a colpire una zona scoperta, anziché cercare
di andare più in profondità (che avrebbe richiesto più forza e tempo), si
limitavano a scorrere rapidamente la lama per allargare la ferita.
Per
oltre un’ora combatterono senza che nessuno riuscisse a prevalere sugli altri,
ma alla fine sia Galahad che Lancillotto ebbero la
meglio, concentrandosi sui colli dei loro avversari che erano la parte più
vulnerabile. Il padre mozzò il capo del suo nemico, mentre il figlio piantò la
propria spada nella gola dell’altro, trapassandola da parte a parte.
I
due tiranni del castello furono così sconfitti Artù decise di donare la
fortezza alle donne che erano state lì prigioniere per tanto tempo.
Dopo
aver trascorso la notte lì per riposarsi e aver fatto provviste, il Re e i suoi
cavalieri ripresero il loro viaggio.