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Autore: Northern Downpour    02/01/2016    0 recensioni
1920, Londra, un giovane avvenente avvocato, un cameriere eccentrico e tanto, tanto imbarazzo
Genere: Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 5
Colazione di french toast, tè ed imbarazzo


Mi incamminai presto quella mattina, per andare al bar. Più presto del solito, quantomeno.
Non era però nei piani questa uscita così mattiniera: mi ero svegliato tanto presto, infatti, perché temevo che sarebbe stata una dura impresa trovare la sorpresa silenziosamente promessa. 
Quel libro che mi era piaciuto tanto - tanto da meritare il titolo de “il mio libro preferito" - era perfetto per chiunque: lo stile semplice, ma senza scarsità di bellissimi dettagli che ti trascinano dentro la storia. 
La trama apparentemente così comune ma che diventava quasi magica, oltreché unica…
Sì. A chiunque sarebbe piaciuto, anche perché chiunque l'avrebbe compreso.

Sapevo che si trovava in soffitta, perché erano ormai anni che non lo leggevo, e dovevo solo scoprire se fosse stato mangiato dalle incrinate e umide assi di legno del pavimento, dalla polvere e dai topi o meno.
Era spettrale quel luogo. 
L’aria era satura di umidità, sporcizia e ricordi dolorosi a cui non dovevo pensare.
O meglio, non volevo pensare.
Sì, dovevo sorridere. 
Perché era un nuovo giorno, e poco importava di quello che era successo nel passato.
Beh, non fu complessa la mia ricerca: il libro infatti giaceva sopra ad una pila di altri tomi.
Vecchi libri di studio, impolverati ed ingialliti dalla luce flebile e dalla grande umidità che vigeva in quel luogo.
Si trovava lì da tempo, pareva: non solo la mia memoria collocava i ricordi a questo relativi ad un punto distante nel tempo, ma anche il tagliabile strato di polvere che lo copriva come una coperta di calda lana ne era prova.

Ma tornando al punto del discorso: era presto quando uscii, e fuori la città era desertica.
Il freddo era minore rispetto alla mattina precedente, ma pur sempre fastidioso.
Le mani, seppur protette dai guanti di pelle nera, gelavano nelle tasche della giacca, e la sensibilità alle punte delle orecchie l'avevo già persa da un po’.
Decisi, nonostante tutto, di girovagare per la città un po’, prima di raggiungere il locale: avrei utilizzato il tragitto lungo. 
Mi incamminai quindi lungo il Battersea. 

Amavo quel parco.    

La luce flebile del Sole ancora distante era filtrata dalle foglie di un piccolo albero, e si rifletteva gialla sul rovinato terriccio.
Quelle rare foglie, sopravvissute stranamente alle intemperie della stagione passata e di quella in corso, rimanevano ancorate ai rami, ancora troppo giovani per finire la loro breve vita e decise a vedere il mondo ancora per un po’.
Una panchina solitaria si scaldava al sole mattutino, godendosi quei raggi che a breve non l’avrebbero più colpita, e ascoltava il silenzio di quel luogo che presto sarebbe stato distrutto dalle risate giocose dei bambini.
La rugiada poi, padrona della scena, illuminava ogni pianta con il suo fascino magico.
Ogni ciuffo d’erba risplendeva per piccole gocce ghiacciate che coloravano d’arcobaleno il prato.
Camminai così, perdendomi nelle bellezze della natura, come i canti dolci e sofisticati degli uccelli o il suono del fiume che chiassoso scorreva vicino a me.
Rispolverai il mio amore per i suoni dei luoghi come quello, nelle ore dove tutti erano via.

Ma il mio tempo di passeggiata era terminato: bighellonavo in giro già da oltre mezz’ora, ed il locale si trovava relativamente distante da lì; quindi senza indugio mi diressi al bar stringendo sotto il braccio quel mio caro libro profumato di carta vecchia e memorie.
Quando mi fermai sulla soglia dell’entrata, mi resi conto che un disturbante pensiero non voleva lasciarmi solo. Ma cosa?
Non riuscivo a delinearne confini, e poteva riguardare le cose più varie... Che fastidio! 

Non dovevo però attender oltre, ché volevo davvero poter dialogare con il cameriere e non avrei potuto se fosse stato impegnato a servire un altro cliente.
Così ormai ad occhi chiusi mi diressi verso il solito bancone di marmo verde, conoscendo già quella traiettoria come le mie tasche.
E ancora una volta trovai lì il cameriere, e ancora una volta lui, non impegnato a servire nessuno, attendeva un cliente, reggendo il mento sulle mani intersecate come fili d’una ragnatela. 
Una bellissima ragnatela.
E quando mi riconobbe si disincantò, mentre tirandosi su, con un informale gesto della mano mi salutava.
«Ehilà Capo! Vedo che non mi ha dato buca!» sorrise ironico, mentre lucidava un bicchiere prima di metterlo via.
«Certo che no! Come vedi sono qua, ed ho anche un piccolo pensiero…» 
Stavo facendo il giusto, prestandogli quel libro? Non era forse avventato come gesto, dal momento che avevamo parlato solo una volta in tutte le nostre vite? 
Ma ancora una volta fui costretto a non badare alla coscienza guastafeste, perché, anche se quello fosse stato un danno, sarebbe stato già compiuto. 
«Prima però ci terrei a chiederti una cosa-» continuai.
No, non avevo realmente idea di cosa domandargli: quello era solo un misero modo per perdere tempo e sperare che dimenticasse la sciocchezza che lo precedeva.
«Certo Capo, mica serve un permesso!»
Inspirai quindi profondamente, tenendo gli occhi chiusi e mi dipinsi un sincero sorriso in volto.
Dopo aver aperto gli occhi espirando, ormai calmo, sentenziai: «Posso chiederti quale sia, dal momento che il nostro dialogo è destinato a continuare ancora per un po’, il tuo nome?» 
Accompagnai il tutto con un’espressione disinvolta: nulla di ciò che dicevo doveva essere preso troppo seriamente, e volevo che fosse prettamente inteso.
Lui quindi ridacchiò, divertito da qualcosa nel mio parlato. 
Era forse la mia voce? Avevo forse una voce comica? O era il mio modo di parlare? 
Poco mi importò però, quando poco dopo rispose.
«Io? Beh, capo, può chiamarmi Jackson, se le serve qualcosa.»
Non aveva risposto alla mia domanda: io volevo sapere il suo nome, non un appellativo qualunque!
Ma come fare a farglielo notare senza sembrare maleducato?
Avrei usato lo stesso registro che utilizzavo con i clienti, sarebbe stato colloquiale, e così non di certo volgare. 
«Mi scusi per la villania, ma gradirei sapere il suo nome di battesimo» improvvisai, accompagnando le fragorose parole con un pacato sorriso.
Ero stato forse scortese? Notai un timido rossore comparirgli dapprima sulle gote, e poi estendersi piano per tutto il volto. 
Deglutì poi il calore che lo affliggeva, e ricomponendosi, finalmente, mi rese il responso dovuto. 
«Hm... George, signore, e lei?» quelle ultime due piccole parole erano chiaramente sfuggite al suo controllo, e appena se ne rese conto l’arrossamento riapparì sul viso «Scusi, capo, io non...» mozzò il discorso lì, convenendo che tacere era meglio.
Non feci a meno di sorridere: aveva questo talento di apparire adorabile ogni cosa accadesse!
Ma…perché ero così in fermento?  Per quella domanda? 
Insomma, era solo il mio nome, nulla di personale! 
Dovevo smetterla di disperdere i miei pensieri e le mie preoccupazioni a tal modo, questa cosa stava diventato a dir poco insopportabile.
«Hall, Edward Hall. Ma è possibile che tu già abbia sentito questo nome, dal momento che è piuttosto conosciuto, in città...» che vanità trasudavano, quelle parole!
Oltretutto George (amavo il suono di quel nome, lo avrei ripetuto mille altre volte se avessi potuto) non pareva affatto una persona che s’interessava d’affari altrui, soprattutto se economico-politici (lui stesso aveva detto di non essere interessato a quest’ ultima), quindi era molto probabile che il mio per lui fosse un nome come mille altri. Sorprendentemente, fece un sorriso obliquo che lasciava intendere un “ma certo che la conosco, Capo!” (per renderla come la pronuncerebbe lui).
«Beh, Capo, il suo nome me l’ha appena detto lei, no? Quindi è ovvio che io abbia già…» tossì imbarazzato, cosciente del basso livello della sua battuta. 
Si grattò la nuca e con fare impacciato proferì: «No, comunque- si schiarì la voce ancora una volta, nel tentativo di distrarre l’attenzione dalla triste battuta -sì, ho già sentito il suo nome, Capo. Insomma, la gente ne parla, ogni tanto. Sì, dai, è un tipo popolare, no? E…» Cercava disperatamente di parlare con tono disinvolto, ma era talmente imbarazzato che strizzava gli occhi, per un qualche strano e tenero riflesso che non avevo visto addosso ad alcun altro mai. 
Alla fine capì fosse meglio cambiare discorso e, con voce forzatamente allegra (e un po’ acuta), chiese: «Cosa le porto stavolta, Capo?»
Quasi mi veniva da ridere, tanto era arrossito, ma mi trattenni ed invece, con la voce che tradiva una risata, affermai: «Un the. E un French Toast» 
Osservai nel brillare del suo sguardo, riconoscenza per la gentilezza fattagli tacendo, nonostante accanto ad una battuta tanto squallida, e stendendo le labbra in un piccolo sorriso, domandò: «Ah, come l’altra volta, Capo. Prende sempre the, la mattina?»
Non volevo sembrare troppo interessato, così mi limitai ad annuire zitto, mentre aprivo il giornale ed iniziavo a sfogliarlo.
Nel silenzio poi, si diresse a preparare l’ordine, e scorsi, osservandolo, lo stesso imbarazzo che aveva regnato padrone nei nostri primi incontri, e che credevo sparito per sempre, dopo l'amichevole intimità del giorno precedente: a quanto pare mi sbagliavo.
Al momento non mi dispiacque particolarmente questa cosa: era adorabile l'impacciataggine che George metteva nei suoi movimenti. 
Era complicato affibbiare a quel ragazzo un nome, dal momento che, nonostante ci conoscessimo da poco, già mi ero abituato ai soprannomi scherzosi.
Così pensavo, mentre si avvicinava per darmi il tè, a come desiderassi, però, di nuovo la spigliatezza nel parlato che aveva sfoggiato la sera prima, ero ormai contraddittoriamente stufo di quel tenero imbarazzo!
Gli avrei prestato il libro, ero deciso.
Avrei colto quindi la palla al balzo, lo trattenni quindi a me, esortando: «Sai prima, avevo accennato ad un presente per te, ecco...- tentai di rendere il tutto piuttosto scenico, ma con scarsi risultati, poiché non trovai subito il libro nella giacca e dovetti cercarlo un attimo prima di poterglielo porgere, facendo quindi una figura terribile -sì, dicevo, ecco: questo fu ed attualmente è il mio libro preferito. Ho pensato perciò, a seguito della discussione avuta ieri notte, di prestartelo, sono piuttosto certo che ti piacerà» sorrisi quindi, fissando il libro accanto a me, memore di dolci viaggi a me sempre cari. 
Nostalgico celebravo quel libro, come un anziano parla della sua giovinezza: con il dolce gusto do tempi belli, in cui tutto era gioco, tutto era semplice, e mi sentii orribilmente vecchio. Nella mia testa i pensieri urlavano, quasi volessero coprire il ricordo delle grandi figuracce fatte con quel ragazzo appena conosciuto, e sentii il calore diffondersi in una ventata calda che tentava d'uscita dal colletto della camicia (fortunatamente legato dalla cravatta). Cosa stava succedendo? 
Dovevo ricompormi, era sconveniente apparire così in quel luogo, pullulano di possibili clienti!
Ed ecco che di nuovo tornava ad assillarmi il pensiero del lavoro. Quanto ci metteva a rispondere quel ragazzo?!
Alzai lo sguardo, che era perso nei meandri della mia mente prolissa e confusa, e subito incrociai il suo.
«Beh sì, ci avrà pensato Capo, non volevo mancarle di…- esitò un istante, non terminando l’affermazione- Comunque…uhm…La ringrazio. Insomma, è il suo libro…- bloccò il discorso ancora una volta, prese fiato e riprese con tono sicuro- le prometto che lo leggerò, Capo! Lo leggerò attentamente e glielo restituirò al più presto, è una promessa! E George Jackson mantiene le sue promesse, Capo, davvero!»
«Ti credo, tranquillo» ridacchiai pronto in risposta.
Ed ancora una volta stava morendo la conversazione, ma ora entrambi ci imploravamo con lo sguardo di proferire parola, anche per dire la più stupida delle cose.
La mia mente però era vuota, sfortunatamente, così smisi di tentare e feci per tornare a leggere il giornale sorseggiando il tè poco prima ricevuto. 
George invece non volle mollare, e qualche istante dopo esordì con un allegro: «Allora, Capo, di cosa parla il libro?» 
Era passato tanto tempo, ma ricordavo ogni pagina, ogni dettaglio era stampato tanto bene nella mia mente quanto lo era sulla carta.
E così non ebbi alcun problema nel raccontare passo per passo la trama, senza badare al fatto che stessi esponendo il tutto prima che il poveretto avesse avuto la possibilità di leggere una misera frase di quel libro.
Non fui però l'unico a notarlo, perché a fine del mio discorso George accennò: «Uhm...Capo, grazie! Ma ora...beh, ormai mi ha già rivelato tutto il libro!» rise imbarazzato, tenendo lo sguardo basso e continuando a lavorare «Ma non si preoccupi, non è un problema!»
Che insolente che ero stato! Un egoista: non avevo pensato a lui neppure un istante mentre raccontavo...
In realtà però, in quell'opera la trama non era tutto, e glielo avrei presto detto: «Scusa! Ma tranquillo: la parte migliore, almeno a parer mio, sono le descrizioni degli ambienti, dei luoghi, ...» e così dicendo rimembrai quanto lo stile di quello scrittore era capace di trarti dentro a quel mondo immaginario, e con un dolce sorriso in volto mi lasciai accogliere da quelle terre fantastiche di nuovo.
«Capo? Devo schioccarle di nuovo le dita davanti al viso?»
Si ricordava quindi! Beh, come dimenticare quella brutta figura…
Sentii la vergogna ribollire nelle mie vene, e m’affrettai a rispondere prima che questa m’impedisse di ragionare.
«Oh no, no! Anzi, ora ti lascio qua solo e non ti anticipo altro, così potrai leggere in pace!» raccolsi quindi il giornale ripiegandolo accuratamente e pagai.
«Arrivederci quindi, Capo» mi salutò cortesemente mentre contava le monete accanto a lui.
Finché chiudevo ii bottoni della mia adorata giacca però il silenzio fu spezzato; dapprima George alzò lo sguardo su di me, poi con un lieve arrossire delle guance mi chiese: «Ehm…le conservo del daiquiri per stasera, Capo?»
Mi dispiacque dover rispondere negativamente, ma mi giustificai dicendo di aver da lavorare alla causa del Signor Outrè.
«Oh okay, a domani, quindi…» affermò, lasciando intendere dal tono incerto che quella poteva (doveva) essere intesa come una richiesta. 
Così mi incamminai verso l’uscita, e lasciai dentro al locale la mia misera risposta.
«Certo»

   
 
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