Galahad si mise in
viaggio, non aveva una meta, sapeva solo di dover cavalcare finché non si
sarebbe imbattuto in una qualche impresa, il che non era cosa rara in quelle
terre.
Dopo
un paio di giorni, si trovò all’incrocio di più sentieri e non sapeva quale
imboccare: uno portava verso un villaggio, dunque poteva sperare che là vi
fosse qualche problema da risolvere; il secondo si inoltrava in una foresta,
quindi avrebbe potuto imbattersi in qualche creatura fatata; l’ultimo conduceva
sopra un’altura ove sorgeva un eremo.
Mentre
rifletteva, vide un monaco che dal paese tornava verso il convento, il giovane
allora gli domandò dove convenisse andare per chi era in cerca di avventura.
L’uomo
gli rispose: “D’avventure io non so nulla, ma se raggiungerete una fontana qui
vicina, non tornereste indietro senza pena. Se volete impiegare bene i vostri
passi, andate verso il villaggio e non inoltratevi nella foresta, ove avresti
presto da smarrirti.”
“Se
la fontana è nella foresta, è lì che andrò. Ditemi, buon frate, com’è questa
fontana e perché la ritenete pericolosa?”
“Si
trova vicino ad una cappella e la sentirete gorgogliare, benché sia più gelida
del marmo; le fa ombra l’albero più bello di quelli creati dalla natura, il suo
fogliame resiste ad ogni stagione; a uno dei suoi rami è appeso un bacile con
una catena di ferro, se con esso raccoglierete l’acqua e poi la rovescerete
sulla grande pietra lì vicino, allora vedrete scatenarsi una grande bufera.
Nella foresta non rimarrà un solo animale e il vento spezzerà i rami e
sradicherà gli alberi, mentre la grandine e i fulmini si abbatteranno al
suolo.”
“Che
altro?!”
“Oh,
nessuno lo sa. Nessuno di coloro che ha tentato è ritornato indietro, io racconto
solo ciò che è possibile vedere da lontano. Questa fontana è spesso fonte di
sciagura per i forestieri, poiché molti o non hanno la fortuna di essere
avvertiti o sono stolti e non credono a ciò che viene loro detto. Date retta a
me: voi siete giovane, non pensate a questa fontana e andate oltre.”
Detto
ciò, il monaco riprese la sua strada verso l’eremo.
Galahad decise di voler
indagare sulla faccenda e dunque prese il sentiero che si inoltrava nella
foresta; effettivamente risultava difficoltoso orientarsi tra gli alberi e gli
arbusti, ma il giovane riuscì a procedere senza problemi. Dopo un paio d’ore,
raggiunse una radura e lì vide la cappella, la fontana, l’albero che era un
maestoso pino millenario col tronco talmente largo che cinque uomini non avrebbero
potuto abbracciarlo; il bacile che era in oro e non in ferro come gli era stato
descritto, infine la pietra era un otre scavato in un solo smeraldo e sorretto
da tre grossi rubini.
Il
giovane provò una grande meraviglia nel veder ciò e si avvicinò con
circospezione. Avvicinandosi e vedendo meglio, la prima cosa che notò fu che il
piccolo edificio non era una cappella, benché ne avesse le sembianze.
“Strano
che il monaco si sia confuso” pensò Galahad scendendo
da cavallo, volendo ispezionare l’interno della struttura “Forse non ha mai
visto da vicino questo posto e si è accontentato del sentito dire di altri,
oppure ha visto da lontano la croce celtica e l’ha scambiata per quella
cristiana.”
Entrò
nella falsa cappella, essa aveva un solo ambiente e gli unici oggetti che vi si
trovava vano erano un catino e un braciere, entrambi posti su un treppiede. Il
giovane notò che vi era anche un cumulo di terra e un buco nel soffitto.
Tutt’attorno, sulle pareti e al suolo, si potevano distinguere simboli più volte
tracciati e cancellati, resi di cera, cenere d’incenso, ossa bruciate, anche
qualche traccia di sangue. Evidentemente si trattava di un luogo di culto e di
ritualismi connessi alla tradizione celtica. Il giovane lo capì bene e fu certo
che da poco era stato celebrato un qualche rito, poiché il braciere era ancora
caldo. Impossibile da capire era quale tipo di rito si trattasse, poiché la
confusione lì attorno era eccessiva.
Galahad uscì
dall’edificio e decise di rovesciare l’acqua nello smeraldo per vedere che cosa
sarebbe accaduto e indagare su ciò che succedeva in quel luogo.
Appena
l’otre fu colmo d’acqua il cielo si lacerò: lampi accecanti provenienti da
sedici direzioni, le nubi si ammassarono e vomitarono pioggia e grandine. I
fulmini piombavano al suolo, incenerendolo e il giovane doveva balzare da un
lato e dall’altro per evitare essi e i rami che si spezzavano, mentre dal suolo
parevano emergere le ossa di chi lì era morto. Si sentirono ululati, ringhi e
versi terrificanti, ma chi poteva dire se erano di bestia feroce o
semplicemente causati dal vento?
Galahad provò a
rifugiarsi dentro al piccole edificio, per ripararsi, ma trovò la porta
bloccata e quando provò a sfondarla, un’onda d’urto lo scaraventò a diversi
metri di distanza; così si limitò a togliersi di dosso e gettare via tutti gli
oggetti metallici che aveva, nel tentativo di non attirare fulmini.
La
tempesta, piano, piano, si acquietò, lasciando distruzione nella radura. Il
giovane pensò di essere al sicuro, ma tale illusione durò pochi secondi: dal
bosco emersero lupi alti due metri, tori furiosi e orsi con zanne.
“Allora
non tutti gli animali della foresta scappano” commentò, ironico, tra sé e sé
“Solo quelli che hanno paura di incontrare questi.”
Le
bestie si slanciarono in carica contro di lui che si trovava disarmato e senza
protezioni. Si gettò a terra per evitare un assalto, poi rotolò rapidamente per
qualche metro per poter afferrare la spada e lo scudo. Pensando principalmente
a difendersi, corse verso il pino in modo tale che il tronco gli coprisse la
schiena e dunque gli evitasse di essere accerchiato, mentre i rami bassi
avrebbero impedito alle bestie di balzargli addosso.
Non
volle chiamare in aiuto il suo cavallo, poiché temeva che potesse essere
sopraffatto dal gran numero di avversari e non lo voleva mettere in pericolo,
tuttavia Brannon corse in soccorso del suo padrone,
soffiando fiamme dalle narici e colpendo coi possenti zoccoli.
Galahad si riparava con
lo scudo dalle artigliate, mentre affondava la spada ora in lupo, ora in un
orso e il sangue schizzava da tutte le parti. Quando, però, il suo scudo finì
tra le fauci di un lupo e lui lo dovette abbandonare per non rischiare di
perdere un braccio, decise di balzare su uno dei grossi rami e combattere da
lì, benché gli fosse più difficile colpire, era anche più al sicuro.
Mentre
era lì che resisteva e combatteva, si ricordò della benda con cui si era
fasciato il braccio sinistro per tenere più comodamente lo scudo; la slegò
rapidamente, poi ne strinse un’estremità attorno all’elsa della spada, l’altra
al proprio polso: in questo modo poteva scagliare la spada per colpire più
facilmente e poi ritirarla subito su.
Il
piano funzionò talmente bene che si ripromise di usare un bracciale e una
catenella in metallo, in futuro, per replicare tale strategia. La fascia,
infatti, era troppo fragile e dopo che la lama aveva già ucciso alcune delle
creature, la benda si spezzò e l’arma rimase a terra.
Galahad allora corse
lungo il ramo per allontanarsi dalle tre bestie rimaste e saltò a terra.
Immediatamente, però, il toro cercò di incornarlo. Il giovane lo afferrò per le
corna e lo trattenne, ma la spinta dell’animale era molto vigorosa; allora
ruotò lentamente in modo da avere le altre fiere alle proprie spalle, ossia di
fronte al toro, poi lasciò la presa e si gettò a terra; si lasciò travolgere e
si ruppe un paio di costole, ma il toro nel suo impeto lo sorpassò e finì con
l’incornare i due lupi poco più in là sulla sua traiettoria.
Il
giovane si rimise in piedi e cercò di capire se la sua spada fosse abbastanza
vicina per essere recuperata prima di un altro assalto; purtroppo non lo era.
I
due lupi erano morti, ma il toro era ancora inferocito e presto puntò
nuovamente contro l’uomo. Brannon si frappose tra
loro col suo fiato di fiamme. Galahad allora corse a
prendere la propria spada e poi si slanciò contro il bovino, trapassandogli il
collo.
Era
fatta: era riuscito a sopravvivere. Il giovane staccò le corna dei due tori che
aveva abbattuto in quel combattimento per rivenderle alla prima occasione, poi
andò alla fontana per rinfrescarsi e pulirsi dal sangue e permettere al suo
cavallo di bere.
La
sfida, però, non era ancora conclusa.
Dalla
foresta si levò un fruscio per nulla rassicurante e presto uscirono strane
creature di varie altezze che avevano solo vagamente la forma umana, ma assai
contaminata da aspetti animaleschi: c’era chi aveva zampe di capra o di cervo,
alcuni erano coperti di pelliccia o lunghi aculei come istrici, altri avevano
minacciose corna o artigli o grosse zanne, alcuni erano dotati di ali.
Oltre
a ciò alcuni avevano armi, sia rudimentali, sia opera di eccellenti artigiani.
Dopo
che si erano mostrati alcuni di quegli esseri, si sentì il terreno vibrare leggermente
e si udirono dei tonfi e dal fitto del bosco emerse un’altra di queste
creature: alto quasi quattro metri, aveva zampe possenti e scattanti ma, al
posto di piedi o zoccoli, aveva grosse mani, il busto era squamato come quello
di un rettile e resistente come un carapace, aculei sulla schiena, mani con
artigli; il volto era incorniciato da una lunga capigliatura e una folta barba
ispide e crespe, in cui erano aggrovigliate foglie, piume, ragnatele e chissà
cos’altro.
Attorno
al collo aveva un medaglione d’oro, in testa aveva una corona e appesa al
fianco aveva uno spadone pregiatissimo. Evidentemente quello era il capo.
Costui
lanciò un verso che sembrava a metà tra un ruggito e un ululato, poi sfregò i
denti e parve di sentire il rumore di lame che cozzano. Puntò l’indice contro
il giovane e gli disse: “Tu! Sei stato tu a ridurre così la mia foresta, il mio
regno!”
“Veramente
è stata la tempesta.” precisò Galahad, poco convinto
di far cambiare idea all’essere, ma preferendo tentare di evitare uno scontro,
date le condizioni in cui si trovava e il soverchiante numero delle creature
che lo guardavano minacciosamente.
“Tu
per curiosità o arroganza, come tutti quelli che ti hanno preceduto, hai
versato l’acqua sullo smeraldo e hai devastato la foresta. Le nostre case sono
distrutte a causa della tua superbia e ora verrai distrutto come tutti i folli
che ti hanno preceduto.”
Galahad si rese conto
che non sarebbe stato con la dialettica che si sarebbe salvato da quella
situazione, per cui accettò l’idea di dover combattere. Provò tuttavia a dire:
“Ignoravo che questo luogo fosse abitato da voi e se vi ho recato danno od
offesa sono pronto a pagare l’ammenda. Vi esorto a un comportamento giusto e
far sì che questo dissidio si risolva con duello tra me e voi o chi riterrete
più idoneo a difendere i vostri interessi.”
La
creatura scoppiò in una risata agghiacciante che fece tremare tutti gli alberi
nei paraggi, poi esclamò: “Giustizia?! Che cosa ne sapete voi, umani, di
giustizia? Vi comportate come invasori, distruggete e disprezzate e invocate la
parola giustizia solo per difendere voi stessi e i vostri interessi: voi la
potete infrangere quanto vi pare, ma siete pronti a fare le vittime non appena
qualcuno vuole rendervi pan per focaccia.” poi si rivolse ai suoi sudditi e
gridò: “Andiamo, annientiamolo! Che le sue ossa intarsino i manici dei nostri
coltelli!”
Galahad fece appena in
tempo a recuperare il proprio elmo e giavellotto e a salire in groppa a Brannon. Il giovane ormai si fidava del proprio destriero e
quindi si sorreggeva solo in sella e con le staffe, senza tenere le briglia; in
questo modo poteva brandire in una mano la spada, nell’altra il giavellotto,
con la prima falciava, col secondo perforava; il difficile era riuscire a
tenere sotto controllo ciò che accadeva attorno a lui e prevenire gli attacchi
sia da destra che da sinistra.
Il
fiato ardente del cavallo aiutava a tenere a distanza gli assalitori e i suoi
zoccoli calpestavano in una frenetica cavalcata chiunque fosse sul suo cammino.
Il
sovrano di quelle creature, tuttavia, non se ne stette in disparte e si unì
allo scontro: con forza speronò Brannon e il giovane
fu sbalzato via, cadendo in mezzo a un manipolo di nemici che subito gli saltò
addosso, ma lui resisteva e quando fu privato del giavellotto, usò una delle
corna di toro per difendersi ed attaccare, mentre gli esseri aumentavano le
proprie dimensioni per colpirlo con maggior potenza.
Galahad sanguinava
copiosamente e le costole rotte non erano l’unica cosa a fargli male, tuttavia
resisteva e continuava a combattere senza incertezze.
Ad
un tratto, le bestie che lo stavano assalendo vennero sbalzate all’indietro di
alcuni metri da una forza invisibile. Il
giovane se ne sorprese, ma ne approfittò per riprendere fiato e armi, prima di
interrogarsi su cosa fosse successo; un attimo dopo, però, si sentì trascinare
all’indietro di qualche metro e si ritrovò di fianco Melissa. A quel punto lo
stupore era tale che non poté trattenersi dal domandare: “Che cosa ci fai qui?”
“Dopo.
Restate nel cerchio e non potranno avvicinarsi.”
Galahad guardò a terra
e riconobbe quello che era un sigillo di protezione, evidentemente appena
tracciato dalla giovane. Ribatté: “Io li devo combattere.”
“Vi
ammazzeranno! Sono troppi e voi non avete l’equipaggiamento adatto.”
“Il
vostro piano sarebbe rimanere nel sigillo per il resto dei vostri giorni?”
“Prima
o poi si stuferanno di aspettare e se ne andranno.”
“No.
Faranno turni di guardia e appena metterò un piede fuori riprenderemo a
combattere.”
“Allora
approfittatene per riprendere energie.”
“No,
a riposarmi rischio di sentire di più gli effetti delle ferite, a meno che voi
non abbiate qualcosa per un’immediata guarigione.”
“Temo
di no; potrei fare qualcosa in quanto mezza Pegea, ma
mi occorre del tempo e …”
“Codardo!
Vigliacco!” tuonò la voce del capo delle creature “Prima dici di voler pagare
pegno per i tuoi errori e poi ti sottrai alla lotta!”
“Calmatevi!”
replicò Galahad “Torno subito a combattere!” poi si
voltò verso la ragazza e le disse sottovoce: “Credo che questi siano Spriggan, il che significa che possono aumentare le loro
dimensioni gonfiandosi.”
“Quindi?”
“La rana e il bue, avete presente?”
“Certo!”
esclamò lei, capendo.
“Bene,
puoi farlo? Basterà sul loro capo: faccio i conti che, sconfitto lui, gli altri
si ritirino.”
“O
lo vendicheranno?”
“Tentiamo.
Voi, comunque, restate nel vostro sigillo.”
Il
giovane uscì dal cerchio e riprese il suo combattimento, senza esitazione
alcuna.
Melissa
aveva capito che cosa doveva fare: nella favola, la rana che voleva eguagliare
in grandezza il bue si gonfiava e gonfiava fino ad esplodere; Glahad si aspettava che lei riuscisse a far gonfiare il
capo dei mostri contro la sua volontà fino a farlo scoppiare.
La
ragazza sapeva bene di non poter costringere la creatura a fare ciò che lei
voleva e neppure era in grado di creare un’illusione che mostrasse un essere
così grande da indurre la creatura ad aumentare le proprie dimensioni. Tutto
ciò che poteva fare era di introdurre a forza lei stessa dell’aria dentro al
mostro. Per fortuna si trattava solo di spostare dell’aria e, dunque, vi riuscì
senza troppe difficoltà.
La
bestia si sorprese di vedere il proprio corpo ingrandirsi, senza che lei lo
volesse; cercò di buttare fuori aria ma
non vi riuscì. Cresceva sempre di più: sei metri, nove metri, tredici metri …
un gran boato e brandelli della bestia piovvero su tutta la foresta. I suoi
sudditi, spaventati e confusi, scapparono in ogni direzione.
Rimasti
soli nella valle, Galahad si voltò verso la ragazza e
le disse: “Non hanno optato per la vendetta.”
“Potrebbero
tornare o potrebbe arrivare di peggio, è meglio andarcene alla svelta.”
“Non
ancora: devo prima capire come impedire che tutto ciò si ripeta.”
“Dubito
che riaccada: questa era una trappola per voi.”
“Per
me, dite? Impossibile. Un monaco mi ha detto che da vario tempo accade tutto
ciò.”
“Vi
ha mentito, allora. Andiamo in paese e domandate agli abitanti se hanno mai
sentito parlare di tutto ciò.”
“Voi
dite una trappola, ma chi potrebbe avercela con me? Non ho fatto torto a
nessuno.”
“Per
qualcuno la vostra stessa esistenza è un torto.”
Galahad si accigliò,
era turbato da quelle parole, ma anche infastidito: non le poteva credere vere.
Domandò: “A chi, dunque?”
“La
Regina Ginevra vi ha in odio perché siete la prova che Lancillotto non le è
stato fedele.”
Il
giovane fu scosso da un fremito di rabbia e affermò: “Questa è una menzogna e
un’accusa imperdonabile che voi muovete sia contro la Regina, sia contro mio
padre! un tradimento talmente grave non può essere!”
Galahad, però, si
ricordò che lo zio Estor gli aveva raccontato che
Lancillotto era innamorato di una donna sposata, poi gli vennero in mente tutte
le volte in cui suo padre, a Camelot, fosse sparito
senza che nessuno sapesse dove si trovasse e che, puntualmente, neppure la
Regina si mostrava in quelle occasioni. Infine vide in un’ottica diversa la
freddezza che Ginevra aveva manifestato nei suoi confronti.
Il
giovane, tuttavia, non voleva ancora credere a ciò e chiese: “Voi come lo
avreste saputo?”
“Me
lo ha detto la mia prozia, Morgana.”
“Lei
è in esilio e piuttosto distante da qui.”
La
ragazza rise e poi fece notare: “Credete davvero che la Fata non abbia modo di
comunicare a dispetto della lontananza?”
“Ammesso
e non concesso che sia vero che la Regina mi odi, come può essere responsabile
di tutto ciò?”
“È
cugina del Signore di Avalon, credete davvero che non
conosca anche lei piuttosto bene le creature non umane e che non abbia dei
fedeli incantatori pronti a servirla? Quel piccolo edificio è il loro
tempietto, percepisco la traccia dei rituali che vi sono stati svolti e
l’ultimo dev’essere stato quello che ha creato questa
trappola con la tempesta, le belve e gli Spriggan.”
“Tutto
questo ve lo ha detto Morgana?”
“No,
lei mi ha detto solo che Ginevra vi voleva morto e che avrebbe ordito qualcosa,
ma non sapeva di cosa si trattasse.”
“Vi
ha detto di seguirmi?”
“No,
non credo le importi di voi. Ho scelto io. Giacché Merlino mi ha detto di fare
esperienze di vita, girovagando per il regno, ho pensato che seguire voi fosse
un buon modo per cominciare.”
Galahad alzò un
sopracciglio, piuttosto confuso circa come quella frase dovesse farlo sentire,
poi scrollò le spalle e chiese: “Voglio essere certo che qui non vi siano altri
incidenti: avete qualche idea su come impedirlo?”
“Mi
pare che l’epicentro di questo sortilegio sia lo smeraldo. Distrutto quello,
non dovrebbe più accadere nulla di male.”
Il
giovane si avvicinò ad esso, lo osservò e poi disse: “Distruggerlo mi pare un
peccato. Non sappiamo esattamente a cosa serva e come funzioni, magari potrebbe
rivelarsi utile. È piccolo e non dovrebbe essere pesante, lo porterò con me,
finché non mi sarà più chiaro che cosa sia. Comunque, grazie per quello che hai
fatto e per avermi avvisato.”
“Aspettate;
quanta fretta!” esclamò Melissa, avvicinandosi “Innanzitutto, lasciate che vi
curi; non tornerete in splendida forma, ma almeno vi toglierà il grosso delle
ferite e in pochi giorni dovreste rimettervi del tutto.”
“Siete
molto gentile, grazie; purtroppo non so come ricompensarvi.”
“Vedrete
che ce ne sarà l’occasione, durante il viaggio.”
“Non
capisco a cosa vi riferiate.”
“Voglio
viaggiare con voi.”
“Non
credo sia il caso e posso cavarmela benissimo da solo.”
“Come
cavaliere avete il dovere di aiutare chi si rivolge a voi. Sono una damigella
sola che chiede la vostra protezione durante un viaggio attraverso terre
sconosciute e voi osereste negarmelo?”
Era
evidente che Melissa si appellasse a quella legge per voglia di seguire il
giovane e non per paura del mondo.
Galahad lo capì e le
chiese, ironico: “Siete la stessa damigella che fino a poco tempo fa usciva
dalla città, di notte, sprezzante di tutto e di tutti?”
“Questa
non è la campagna di Camelot.”
Alla
fine il giovane cedette: “D’accordo, viaggeremo insieme, almeno per un po’.”
La
ragazza ne fu molto felice e fece qualche saltello, gioiosa.
Finita
di sistemare la situazione attorno alla fontana e messo lo smeraldo e il
piedistallo di rubini in una bisaccia, i due giovani si misero in viaggio,
prefiggendosi come prima meta il paese lì vicino per cercare un posto dove
rifocillarsi e riprendere energie, dopo quell’avventura.
Trascorsero
alcuni mesi viaggiando dentro e fuori i confini di Logres,
talvolta ospiti in castelli, altre accontentandosi di modesti ripari. Galahad era sempre pronto a mettersi al servizio di chi
avesse bisogno: ora scacciava briganti, ora affrontava creature o sortilegi che
rendevano pericolosi sentieri o luoghi.
Quelle
che un tempo sarebbero apparse come imprese straordinarie al giovane, ora erano
diventate normale amministrazione e le affrontava piuttosto serenamente,
imparando sempre qualcosa, ma senza essere più particolarmente impressionato.
L’impresa
che lo aveva fatto sudare maggiormente in quei mesi era forse stato
l’affrontare una sorta di orco, ma di origine demoniaca, che si era stabilito
nei pressi di una città e pretendeva un tributo di un carro di grano ogni
giorno, solo che poi divorava anche i buoi che avevano tirato il carro e la
persona che lo aveva condotto.
Quando
aveva avuto notizia di ciò, Galahad aveva
immediatamente deciso di affrontare la creatura e dopo una strenua lotta. Le
difficoltà non erano state causate dalla forza o abilità in combattimento,
bensì dalle capacità demoniache dell’orco in grado di agitare l’animo del suo
avversario: risvegliare le sue paure, provocargli allucinazioni, stuzzicare
rabbia, orgoglio od altro per farlo distrarre o cadere in errore.
In
futuro si sarebbe accorto che quell’orco aveva solo grattato la superficie del
suo animo, ma quella prima esperienza bastò per turbare alquanto il giovane che
si era reso conto di avere, assopito dentro di sé molto più di quel che
credeva.
Durante
tutte queste imprese, Melissa gli era rimasta sempre accanto, a volte
seguendolo negli scontri, altre rimanendo ad aspettare. Non si era però
limitata ad accompagnare il giovane, prestava sempre grande attenzione ai
luoghi che attraversavano e si fermava o imponeva deviazioni quando aveva
l’occasione di consultare manoscritti, oppure di cercare qualche druido o
sacerdote o mago più o meno deciso a fare l’eremita per poi porgli domande.
Tali soste non dispiacevano neppure a Galahad.
Un
giorno, mentre cavalcavano lungo un sentiero fiancheggiato da campi di grano,
incontrarono un anziano zoppo che procedeva lentamente, appoggiato ad un
bastone.
Come
lo vide, subito Galahad scese da cavallo e offrì al
vecchio di salire sul destriero: lo avrebbero accompagnato fino alla sua
destinazione. L’uomo, però, rifiutò. Il giovane allora gli domandò se avesse
bisogno di denaro o in quale altro modo poteva essergli utile, ma il viandante
negava di aver bisogno d’aiuto. Il cavaliere chiese se ne fosse proprio sicuro,
allora l’anziano gli disse: “Io sto bene, ma se proprio vuoi rendermi un
servizio, ti chiedo di accordarmi un favore.”
“Qualsiasi
sia lo accetto, purché non rechi onta o danno a qualcun altro.”
“Ve
lo garantisco. Dunque, impegnate la vostra parola?”
“Certamente,
domandate pure.”
“Bene,
il favore che mi avete accordato è quello di non rivelare ad alcuno il vostro
nome fino al nostro prossimo incontro. Se qualcuno vi domanderà chi siete, gli
risponderete con un falso nome, sempre diverso.”
Galahad fu certo
sorpreso da tale richiesta, tuttavia aveva promesso e quindi assicurò al
vecchio che si sarebbe comportato così.
Dopo
quell’incontro, non trascorse giorno in cui Galahad
non dovesse cimentarsi in una grande impresa e ne uscisse vittorioso. Sembrava che,
d’improvviso, tutti i portenti di questo mondo si fossero piazzati sulla sua
strada: combattere bande di ladroni era ormai il minimo che gli potesse
accadere, poiché suoi avversari erano diventati mostri serpentini, bestie sputafuoco, chimere e manticore, spettri, cavalieri
maledetti e così via, oppure doveva recuperare le reliquie di un qualche santo
per la tale o tal altra chiesa, o armi smarrite nei secoli addietro o scettri o
calderoni appartenuti a qualche stregone del passato.
Ogni
giorno una nuova avventura e intere città o villaggio colmi di ammirazione e
gratitudine si rivolgevano al giovane, volendogli rendere i giusti omaggi e
concedergli la gloria. Sempre gli domandavano il nome per poterlo ricordare e
scrivere storie sulle sue gesta; il giovane, memore della promessa fatta al
vecchio, mentiva sempre circa la propria identità.
Gli
dispiaceva perdere il merito di tali imprese? Inizialmente sì, certo.
Avrebbe
potuto rivelare il proprio nome, tanto il vecchio non lo avrebbe scoperto?
Probabile.
Aveva
timore di perdere la propria identità per sempre, visto che chissà quando e se
avrebbe visto l’uomo? Sicuramente.
Dopo
un po’ di tempo, tuttavia, si era abituato a quell’anonimato; aveva imparato a
sentirsi appagato dalla consapevolezza di avere fatto la cosa giusta, dal
pensiero di avere fatto del bene. La gloria gli iniziava ad apparire come una
gran maschera: bella ma vuota.
In
questa maniera trascorsero altri tre mesi. Una sera, mentre attraversavano un
bosco e ormai si erano rassegnati a dormire alla diaccio, i due giovani
scorsero una luce in lontananza. Galopparono in quella direzione e trovarono un
castelletto. Chiesero ospitalità e fu loro concessa.
Sembrava
esserci un solo valletto in tutto l’edificio; li accolse lui, fece lasciare
loro i cavalli nella stalla, poi li condusse in un edificio separato dal corpo
centrale della fortezza. Li lasciò soli una mezz’ora, poi tornò con della zuppa
calda che offrì loro per cena e se ne andò nuovamente. Tornato a prendere le
scodelle vuote, li informò che il signore del castello desiderava incontrare il
giovane cavaliere.
Galahad fu un poco
restio: quel luogo e quei comportamenti non gli piacevano molto e lo rendevano
sospettoso, quindi non riteneva prudente che lui e la sua amica si separassero.
Dopo aver viaggiato assieme per quasi un anno e aver vissuto esperienze di ogni
tipo, i due giovani si erano molto affiatati e legati d’affetto, avevano
imparato a conoscere i ritmi e le esigenze l’uno dell’altro e quando
affrontavano insieme un’impresa, spesso non avevano neppure bisogno di parlarsi
mettersi d’accordo su come agire o dove andare: istintivamente avevano le
medesime idee o prendevano le stesse decisioni.
Galahad, dunque, non
era certo che dividersi in quella situazione fosse la cosa migliore da fare,
Melissa tuttavia gli disse che sentiva che era importante che lui andasse ad
incontrare il loro anfitrione, così alla fine il giovane si convinse e accettò.
Il
valletto lo accompagnò fino al portone d’ingresso al cuore del maniero, lo aprì
e poi lasciò che il cavaliere entrasse da solo.
Galahad attraversò un
lungo corridoio primo di porte ai lati, il che era alquanto singolare, si trovò
poi davanti ad un uscio, lo aprì e si ritrovò in un’immensa sala con numerosi
scaffali straboccanti di papiri e rotoli e vi erano anche alcuni oggetti posti
in teche e su piedistalli. Il giovane immediatamente riconobbe l’Arca dell’Alleanza.
Notò anche che ai lati della porta c’erano due statue in oro di grandi leoni
addormentati. Non vedendo nessun altro, si avvicinò ai rotoli per vedere di che
cosa si trattasse; i primi che gli capitarono sott’occhio riportavano nelle intestazioni
nomi come Eraclito, Pitagora, Orfeo, Zoroastro,
Ermete. Non fece però in tempo a guardarli, poiché udì una voce alle sue spalle
dargli il benvenuto.
Galahad si voltò di
scatto e si meravigliò di vedere Pelleas, seduto su
una sedia, sempre con la gamba sanguinante, e sua madre Elaine.
“Son
felice di rivederti Galahad, sei cresciuto bene,
vedo. Tua madre me lo aveva raccontato.”
Il
giovane era confuso, aveva varie domande, ma poi esclamò: “Madre, che cosa ci
fate voi qui? Non siete in Benoic?”
“Figliolo,
il mio compito non è essere sposa di tuo padre.” gli rispose la donna “Gli sono
stata accanto fintanto che tu sei stato con noi e avevi bisogno di me. Il mio
posto, tuttavia, è questo ed è anche il tuo.”
“In
che senso?”
“Tu
appartieni a questa Biblioteca” spiegò Pelleas “Gli
altri cavalieri l’hanno servita egregiamente in questi anni, ma tu ne sarai il
custode.”
“Non
capisco.” ribatté il giovane “E poi avete detto Biblioteca?”
“Sì,
ora ti spiegherò meglio, avvicinati.” lo esortò l’uomo “Come ti dissi una
volta, il mio nome è Yahuda. Nacqui in Alessandria
all’epoca dell’imperatore Augusto. Nei primi decenni della mia vita, ho
assistito a grandi prodigi e ho conosciuto il bene e il male che derivano dal
soprannaturale. Mi fu concessa l’immortalità a patto che mi impegnassi a
difendere l’equilibrio tra la magia e il resto del mondo, tra creature mistiche
e gli uomini normali. Il mio compito è custodire le conoscenze esoteriche e
raccogliere artefatti che non devono cadere nelle mani di stolti o malvagi. Decisi
così di fondare la Biblioteca, quella della mia città mi è stata d’ispirazione
ed è là che si trova l’ingresso principale, questo castello è un portale
secondario che posso spostare a piacimento. Per secoli ho portato avanti il mio
ruolo da intermediario e difensore e, come puoi vedere, mi sono fatto una bella
collezione. Cento anni fa, tuttavia, sono stato ferito alla gamba destra da un’arma
magica e, per questo, il taglio non si è mai rimarginato. S’io fossi stato un
umano normale, sarei morto dissanguato in poche ore, ma la mia immortalità non
l’ha permesso. Questa ferita, tuttavia,
mi ha impedito di proseguire il mio lavoro, dunque ho dovuto cercare un
sostituto o un’idea che mi aiutasse. Quando la fama di Merlino mi raggiunse, mi
recai presso di lui per domandargli se la sua visione perfetta del passato e
del futuro gli sapesse indicare come potevo guarire. Egli mi disse che ciò che
poteva curare la mia ferita era la Lancia di Longino
e che essa si trovava assieme al sacro Graal in un luogo talmente segreto e
protetto che nessuno sarebbe stato in grado di trovarli, se non il cavaliere
perfetto e incorruttibile. Era necessario, quindi, aspettare l’arrivo di costui.
Merlino, sapendo che cosa faccio e ritenendolo un ottimo servizio, ebbe l’idea
di istituire la Tavola Rotonda, dove avremmo ammesso i cavalieri migliori ai
quali avrei affidato i compiti che io sono impossibilitato ad eseguire. Il primo
che coinvolgemmo nel progetto fu Artù ed è a lui che rivelo quali artefatti
occorre recuperare o quali gravi minacce vanno affrontate e lui distribuisce
queste missioni ai suoi cavalieri che io e Merlino abbiamo selezionato. Ho
risposto a tutte le tue curiosità?”
“Abbastanza,
ora mi la situazione mi è un po’ più chiara, benché su alcune cose siete stato
vago.”
“Non
posso certo rivelare subito tutto quanto. Procediamo. Tu sei stato messo alla
prova, per stabilire se fossi pronto per unirti ai cavalieri della Tavola Rotonda.”
“Mi
avete osservato durante quest’ultimo anno?”
“Sì,
ma la prova non l’hai affrontata e superata con la spada o l’ingegno. Ciò che
poteva privarti di questo posto era l’orgoglio, per questo mi sono mascherato
da vecchio e ti ho imposto di non rivelare il tuo nome.”
“Eravate
voi, dunque?!” si stupì il giovane.
“Sì.
Volevo vedere se saresti stato capace a rinunciare alla gloria e, soprattutto,
a non soffrirne. Questi ultimi tre mesi hanno purgato il tuo animo dalla
superbia. Ora ci sono ancora debolezze e timori in te, ma non ti possono
corrompere. Ritengo quindi che tu possa essere annoverato tra i cavalieri della
Tavola Rotonda.”
“Davvero?!”
“Sì.
Torna pure a Camelot e, quando Artù e gli altri
siederanno attorno alla Tavola Rotonda, aspetta che tutti abbiano preso posto,
poi siediti sulla sedia che rimane. A quel punto si solleveranno
perplessità che sarà Merlino a spiegare.”
“Vi
ringrazio davvero tanto per quest’onore e questo dovere che mi affidate.”
“Io
ringrazio te di esserti dimostrato degno e volenteroso. Comunque, ti piace la
Biblioteca?”
“Certamente!
Ho appena intravisto il dorso di qualche rotolo e la mia attenzione è stata
catturata.”
“Puoi
rimanere quanto desideri e leggere tutto ciò che ti interessa.”
“Grazie,
sarà un vero piacere. Qua fuori, tuttavia, c’è una mia amica che apprezzerebbe
davvero molto questo luogo. Posso invitarla ad entrare?”
“No.”
Yahuda fu cortese, ma inesorabile “Questo è un luogo
segreto ed inviolabile. Soltanto Merlino, Artù, Galvano e Lancillotto sono
entrati qui, prima di te, a nessun altro è stato accordato tale privilegio. Ho osservato
anche la tua amica, durante gli ultimi mesi, sembra una brava persona, ma non
basta ciò a poter entrare qua.”
“Allora
non mi tratterrò oltre, non voglio lasciarla sola. Durante il mio viaggio ho
recuperato alcuni oggetti che forse dovrebbero stare qui: ve li consegnerò e
poi prenderò congedo.”
“Come
vuoi.” acconsentì Pelleas, benché non sembrasse
realmente contento “Ricordati ciò che dovrai fare a Camelot.”
“Non
lo dimenticherò.”