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Autore: Adeia Di Elferas    07/01/2016    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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~~ “Mia adoratissima nipote.” disse Ludovico, cerimonioso, quando si trovò davanti Chiara Sforza, arrivata alla corte di Milano assieme al marito Pietro Dal Verme per presenziare ai funerali dell'ambasciatore veneziano Antonio Vitturi.
 Chiara fece la riverenza e si lasciò baciare la mano dallo zio, che non vedeva ormai da qualche anno.
 Pietro Dal Verme apprezzava la corte milanese, ma non apprezzava altrettanto la compagnia che la corte offriva in quel periodo.
 Era stato un fedele guerriero al soldo di Francesco Sforza e aveva servito anche il figlio Galeazzo Maria, ma ora che Milano era nelle mani di Ludovico – per quanto quel borioso d'uno Sforza in realtà fosse solo il reggente del nipote Gian Galeazzo – Pietro era restio a mostrarsi molto favorevole alla politica cittadina.
 Certo, ora che era marito di una Sforza, forse, avrebbe dovuto mostrarsi entusiasta del nuovo signore della città, ma più scrutava il volto scuro e il naso pronunciato di Ludovico, più la sua mente tornava alle belle forme di Cecilia Del Maino e la morsa che gli stringeva il cuore gli impediva il respiro.
 Dopo il funerale, sontuoso, seppur sottotono rispetto alle aspettative dei presenti, Pietro preferì restare solo e si ritirò nelle sue stanze, così Ludovico trovò più facilmente del previsto il modo di avvicinare Chiara.
 “Dunque?” le chiese, con un sorriso affabile, mentre il salone era ancora affollato.
 Se avessero entrambi mantenuto un'espressione rilassata e apparentemente conviviale, nessuno avrebbe pensato che il soggetto del loro discorso fosse serio e tutti avrebbero creduto che i due stavano solo scambiando due chiacchiere tra zio e nipote.
 “Dunque ancora nulla, zio.” ammise Chiara, mangiando la foglia, un sorriso pacifico stampato in viso.
 Ludovico restò un momento in silenzio, annuendo come se la nipote gli avesse appena raccontato ottime novità.
 “Pietro non mi ama.” confessò Chiara, non riuscendo a mascherare la tristezza nei suoi occhi: “Ormai trovo impossibile dargli un erede.”
 Ludovico fece un profondo sospiro. Con la coda dell'occhio aveva visto un paio di notabili milanesi che si stavano avvicinando, di certo per chiedergli qualche favore. Ma Milano non aveva ancora capito che era Bianca Maria Visconti, quella facile ai favori, e che ora i tempi erano cambiati?
 “Bene, anche se speravo in un erede legittimo da poter guidare al meglio – disse Ludovico, con un tono che non ammetteva repliche – dovremo agire in un modo più definitivo.”
 E mentre Ludovico si metteva a parlare con i due dignitari milanesi, Chiara si chiuse nel silenzio e cominciò a vagare pensierosa per la sala, elargendo di quando in quando un cenno della mano a chi la salutava.
 Dunque era deciso e suo zio aveva ragione. Non aveva più senso vivere con un uomo che non faceva altro che pensare a una donna morta.
 
 “Cosa intendire dire, con 'ho impegnato i tuoi gioielli'?!” sbottò Caterina, sgranando gli occhi.
 “Tanto non li metti mai!” rispose Girolamo, a voce altrettanto alta: “E a me servivano soldi!”
 “E secondo te come mi mostrerò alla messa di Pasqua?” chiese Caterina, esasperata: “Senza nemmeno un gioiello addosso? Non ti bastava avermi tolto i vestiti?!”
 “Quante storie!” ribattè Girolamo, alzando le braccia: “E poi Pasqua è il tre di aprile! Farà già caldo per quel giorno!”
 “Ma che stai dicendo? Siamo quasi a fine marzo e ancora il ghiaccio rompe i canali!” sbraitò Caterina, additando la finestra appannata.
 I servi fingevano di non sentire e così anche tutti quelli che transitavano nel palazzo dei Conti Riario.
 Non era chiaro ai più come, ma da almeno due mesi e mezzo Girolamo e Caterina altro non facevano che litigare, continuamente, rumorosamente e senza posa. Come due cani rabbiosi, non appena si incontravano per caso nei corridoi, trovavano subito il pretesto per gridarsi contro l'un l'altro e di solito terminavano la disputa o per un'interruzione esterna, o per evitare di passare alle mani.
 I loro figli venivano tenuti lontani da questi scontri, ma non era semplice impedire alle loro orecchie di sentire le urla dei genitori, che stavano dimostrando di essere dotati di voci ben potenti.
 Francesco Oliva, l'ambasciatore milanese, aveva già accennato più volte, nelle sue lettere a Ludovico Sforza, a questo problema. I dissapori tra i due Conti, infatti, sembrava alla base di quasi tutte le scelte errate di Girolamo nella gestione di Forlì. Se Imola stava riuscendo egragiamente a sopravvivere anche senza l'aiuto del suo signore, Forlì si stava dimostrando irrequieta e insofferente ai continui cambiamenti di politica del suo Conte.
 Ad aggiungersi a quella pericolosa situazione, c'era un'altra mancanza, da parte dei Riario, che Oliva non smetteva di sottolineare nelle proprie missive. La corte di Forlì si stava impoverendo a vista d'occhio e in modo troppo rapido.
 I vestiti indossati da Conti – ora anche quelli di Girolamo e non più solo quelli della moglie – erano vecchi o poco appariscenti, i rari personaggi di spicco che chiedevano ospitalità in città nel corso di un lungo viaggio, venivano accolti, ma senza cerimonie e senza troppi lussi.
 Se Caterina Sforza voleva restar degna del nome che portava con tanta fierezza, a parer dell'Oliva, doveva trovare un modo di riportare Forlì agli onori del tempo, rendendola di nuovo una città ricca e attraente anche per i grandi signori.
 Ludovico Sforza si era inizialmente limitato a rispondere con pacate esortazioni a far ragionare i due sposi e a cercare di farli andare d'accordo il più possibile, ma per il momento le sue parole non avevano sortito alcun affetto.

 Caterina stava controllando gli ultimi resoconti stilati da Matteo Menghi. Li aveva presi di nascosto e aveva intenzione di rimetterli al loro posto prima dell'alba.
 C'era qualcosa che non la convinceva, in quelle cifre. I conteggi erano molto sommari, mancavano molte voci e in più punti erano state fatte correzioni che sembravano essere state messe lì solo al fine di confondere chi leggeva.
 Dubitava che Girolamo si fosse preso la briga di dare anche solo una rapida lettura a quelle pagine.
 No, era più comodo lasciarsi prendere dal panico e impegnare tutti i gioielli della famiglia per tirar su abbastanza danaro da pagare la macchina dello stato.
 “Troppa gente prende stipendi per far quasi nulla...” constatava a voce bassa Caterina, parlando da sola: “E troppi soldi vengono spesi per cose inutili...”
 Mentre il suo dito passava su quelle cifre minute, cominciò ad avvertire un fortissimo mal di testa.
 Tutta quella situazione era assurda. Lo stato andava a catafascio e Girolamo pensava solo a salvarsi da eventuali attentati alla sua vita. Bell'ipocrisia, per uno che aveva cercato un suicidio per procura.
 Da quella notte in cui per poco Caterina non aveva ucciso suo marito, egli aveva preso a frequentare di nuovo la sua camera, saltuariamente, ma comunque troppo spesso, per quello che la riguardava.
 Lo sopportava, come aveva fatto nei primi tempi del loro matrimonio, e non reagiva come avrebbe voluto perchè aveva giurato a se stessa che non l'avrebbe ucciso. Se avesse provato a contrastarlo, ne era certa, non sarebbe riuscita a fermarsi.
 L'unica cosa che si auspicava, era di non restare di nuovo incinta.
 
 “Se non avremo figli, a chi pensate che andrà il vostro prezioso castello di Zavattarello?” chiese Chiara, quasi in lacrime, oltraggiata dall'indifferenza che il marito le dimostrava.
 Pietro Dal Verme sospirò e disse, semplicemente: “Sono molto provato dal viaggio. Preferisco ritirarmi nelle mie stanze.”
 Chiara lo guardò uscire di fretta dalla sala da pranzo, la cena ancora fumante in tavola e i servi che occhieggiavano, in parte incuriositi e in parte preoccupati. Anche a loro, infatti, avrebbe fatto comodo un piccolo Dal Verme, perchè almeno avrebbero avuto la certezza di avere un lavoro anche negli anni a venire.
 “Portatemi dell'altro vino.” ordinò Chiara a un servo che stava impalato al suo fianco.
 Il giovani annuì e con solerzia le riempì il calice fino all'orlo. Chiara lo svuotò d'un fiato e se ne fece servire un altro, un altro e un altro ancora.
 Quando ormai la sua mente vagava nelle ombre e nei pensieri confusi degli ubriachi, Chiara lasciò la tavola e si diresse senza indugio verso l'uscita.
 Due guardie le sbarrarono la strada con le alabarde.
 “Sono la moglie di Pietro Dal Verme!” fece presente, la bocca impastata dal troppo vino: “Lasciatemi uscire!”
 “Vostro marito ci ha ordinato di non lasciarvi uscire dal castello, quando è notte.” disse con voce ferma una delle due guardie, restando impassibile perfino quando Chiara scoppiò a piangere.
 Non trovando altro da fare, la giovane andò fino alla sua stanza, rifiutò l'aiuto della serva, che voleva convincerla a cambiarsi per la notte, disse di voler essere lasciata sola e poi, finalmente, si gettò sul letto.
 Ancora vestita, ancora in lacrime, strinse a sé il cuscino, sentendosi in trappola. In mezzo al nulla, sul cucuzzolo di una collina acuminata come un pugnale, con un marito che non l'aveva mai desiderata.
 Sì, suo zio Ludovico aveva ragione e non c'era più tempo di aspettare. La decisione era presa.
 Però doveva stare attenta, doveva essere astuta e agire in modo accorto. Nessuno avrebbe dovuto sospettare di lei. Se avesse agito subito, quella notte stessa, tutti avrebbero capito. E così se avesse messo in atto il suo piano il giorno dopo, o la settimana seguente. Doveva avere pazienza. Come un ragno che tesse la tela. Doveva farlo cadere nella sua trappola e poi, quando Pietro si fosse finalmente sentito al sicuro, allora l'avrebbe divorato in un solo boccone.

   
 
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