Film > The Avengers
Segui la storia  |       
Autore: Hermione Weasley    08/01/2016    2 recensioni
“Non siete il primo che è venuto a vedere la strega,” alluse, il sospetto vivissimo.
“Io non credo alle streghe,” non poté fare a meno di sottolineare, vagamente risentito dall'essere stato accomunato ai superstiziosi babbei del villaggio.
“Però siete venuto a vederla comunque,” la ragazza non voleva proprio mollare il colpo. Si sentì messo alle strette, innaturalmente indispettito.
“Ero curioso.”
“Quindi ci credete.”
“No, che non ci credo. Questo posto è piccolo e gli estranei sono sempre fonte di curiosità, non vi pare abbastanza?”
---
XVIII secolo. La vita di Clint Barton, figlio adottivo dell'eccentrico lord Phillip Coulson, cambia radicalmente quando una presunta strega viene ad abitare nel bosco vicino alla villa della famiglia. Clint dovrà fare i conti con la superstizione, gli obblighi, le responsabilità e forze in gioco molto più grandi di lui.
[1700 AU] [Clint/Natasha] [apparizioni di tutti gli Avengers + alcuni personaggi di Agents of Shield] [COMPLETA]
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 18
~

 

Tenne gli occhi fissi sul tavolo mentre i presenti si alzavano uno ad uno per abbandonare la sala consiliare. La riunione non era durata molto: il tempo stringeva e il piano per quella sera era già stato progettato nei minimi dettagli. Lady Carter si era limitata ad illustrarlo ancora, indirizzando ripetutamente lo sguardo verso il punto in cui sedevano lei e Clint, come per far capire loro che quell'ennesima spiegazione era più che altro a loro vantaggio.

Si era concentrata su di lei, sulla nobildonna che sembrava tenere in pugno le sorti di tutto lo Scudo con grazia e discrezione tali da non negare affatto la forza delle proprie intenzioni, la determinatezza dei propri obbiettivi. Natasha aveva capito subito che non si trattava solo di un capo fantoccio, una persona qualunque messa là nel mezzo per accontentare chissà chi senza però avere alcun potere decisionale. No. Aveva guardato un po' tutti, studiato le loro espressioni fingendo disinteresse – ignorando l'ostilità che le tributavano quando deviavano lo sguardo verso di lei – e non aveva faticato ad accorgersi dell'ammirazione, della stima e del rispetto di cui quella donna godeva.

Il rumore di sedie trascinate sul pavimento, il fruscio degli abiti delle signore e dei fogli recuperati dal tavolo, accompagnarono la silenziosa processione verso ed oltre l'uscita. Finché – secondo i suoi calcoli – non sarebbe dovuta essere... sola. Ma sapeva che Clint era rimasto seduto, giusto un posto di distanza dal punto in cui si trovava lei.

Finse interesse nel cartoncino che aveva ricevuto durante la riunione: un foglietto rettangolare su cui una mano ferma e decisa aveva vergato poche parole in un inchiostro sbiadito. Erano le istruzioni per il ruolo che avrebbe dovuto giocare quella sera, alla festa della corona. Si pentì di essersi concentrata su quello come diversivo, perché più lo guardava e più non capiva come diavolo fosse finita in quella stanza, con indosso abiti forniti dallo Scudo, dopo aver partecipato ad un consiglio su come salvare il re dalle grinfie dei suoi soldati ribelli.

Eppure, tra le due cose, era la presenza di Clint ad innervosirla maggiormente. Le dava fastidio il modo in cui aveva intercesso per lei, quello in cui si sincerava delle sue condizioni, quello indefinibile in cui la guardava. Lasciò andare il cartoncino e nascose le mani sotto al tavolo perché avevano preso a tremarle impercettibilmente e non voleva correre il rischio che lui se ne accorgesse.

“Scommetto che non ti hanno assegnato il ruolo della fornaia miracolosamente selezionata dal popolino per partecipare alla festa,” esordì lui, che – dopo aver finto di seguire l'uscita degli altri membri dello Scudo – non aveva potuto far altro che rivolgerlesi.

No, il ruolo che le avevano assegnato era quello della nobildonna, ma che importanza poteva avere? Sapeva che Clint stava solo cercando una scusa per parlarle, perché gli eventi del giorno precedente erano stati troppo rapidi e convulsi perché avessero potuto metabolizzarli a dovere... ma il disagio che le cresceva alla bocca dello stomaco le impediva di prendere serenamente alcunché. Persino le accortezze dell'arciere con cui aveva trascorso gli ultimi mesi di quella sua vita insensata.

Non disse niente e si rimise in piedi, perché l'aria sembrava essersi fatta di cera, perché la sedia sembrava aver preso a bruciare sotto di lei, impedendole di trovare una posizione comoda. La ferita al fianco si era solo parzialmente riaperta durante lo scontro multiplo e adesso, dopo essere stata suturata di nuovo da uno degli infermieri dello Scudo, pizzicava fastidiosa.

In circostanze normali avrebbe saputo ignorare tutto e tutti, ma adesso, in quella sala così poco familiare, con le pareti che sembravano volersi restringere fino a schiacciarla nel loro fatale abbraccio, Natasha si sentì sopraffatta.

Afferrò il foglietto e l'accartocciò nel pugno chiuso, più che decisa ad andarsene, a fuggire da quel soffocante inferno.

“Dove vai?” Clint si era rialzato a sua volta, finendole davanti per impedirle di superarlo.

“Non lo so,” rispose sinceramente. Non aveva né la lucidità, né la forza per mentire in quel momento e tutta quella disattenzione la faceva imbestialire.

“Cosa c'è che non va?” Di nuovo quel suo tono comprensivo, un po' pigro e imbarazzato che di solito riusciva a farla sentire a suo agio, ma non adesso, non in quelle condizioni.

“Lasciami passare,” tagliò corto, accennando a scartare di lato per seminarlo. Clint fu più rapido di lei e riguadagnò la sua posizione, costringendola a farsi guardare.

Aveva ancora i segni del cuscino sulla faccia e i capelli spettinati. La camicia nera dello Scudo gli stava un po' troppo grande e sembrava mettergli in risalto le mani, quelle sue... stupide mani...

“Che ti passa per la testa?” Insisté col chiederle, pacato e fermo al tempo stesso.

“Non ho voglia di parlarne.”

“Ma hai voglia di esplodere quando avrai raggiunto il punto di non ritorno? Perché a me sembra che non manchi molto,” l'accusò a mezza voce. Avrebbe preferito esser presa a male parole: a quelle se non altro avrebbe saputo come rispondere. Senza contare che la semplice nozione che qualcuno si preoccupasse sinceramente per lei continuava a destarle uno straziante sospetto, un sospetto di cui non riusciva a liberarsi.

“Non ho voglia di niente, Barton. Levati di mezzo.”

“Ho detto di no.”

Non aveva preventivato di spingerlo con così tanta violenza, ma quando lo vide indietreggiare bruscamente seppe che era stata lei a scaraventarlo contro il muro. Avvampò di vergogna senza avere il tempo o la prontezza di cancellarne i segni dal proprio viso. Adesso sì che la necessità di andarsene si era fatta impellente, bruciante e incandescente nel suo stomaco.

Gli lanciò un'ultima, breve occhiata... o almeno credeva di averlo fatto. Stava quasi per varcare la soglia, quella soglia che le avrebbe permesso di rimandare il momento in cui avrebbe dovuto affrontare i propri demoni, quando due braccia sicure la trascinarono all'interno della sala.

Si sentì spingere contro un angolo, le dita di lui che le premevano sulle spalle senza farle male. Lo trovò insopportabile.

“Non farti venire in mente strane idee. Se non fai quello che dicono ti processeranno e giustizieranno,” parlò veloce, come per paura di vedersela scivolare tra le mani da un secondo all'altro.

“Che facciano quello che vogliono,” sibilò, dimenandosi per liberarsi dalla sua presa.

Non aveva potuto far altro che prendere due manciate della sua camicia e stringerla tra i pugni, mentre lui esercitava una pressione maggiore, trattenendola con più forza. A parità di condizione fisica, Clint era più forte di lei. Eppure non una sola volta si era avvalso di quel vantaggio per costringerla a fare qualcosa che non voleva... e forse era quello che le dava alla testa. Il fatto che ad ogni azione aveva sempre e comunque associato una reazione e adesso quell'uomo arrivava a sballarle tutto ciò che credeva di aver imparato dalla vita, tutte quelle poche, semplici e spietate regole che sottostavano all'ordine del mondo. O così almeno le avevano insegnato.

“Natasha.”

“Sta' z-zitto,” smozzicò ancora, agitandosi con più violenza, senza riuscire a scostarsi di un solo millimetro dalla parete. L'unico modo per liberarsi sarebbe stato fargli del male... bastava l'idea a farle risalire la nausea su per la gola.

“Lo so che potresti andartene di qui ad occhi chiusi,” riprese lui, evidentemente a disagio eppure determinato a farsi ascoltare, “ma pensaci, va bene? Ti chiedo solo di pensarci.”

“C-Cosa credi che possa cambiare, ah?” Non voleva stare a sentirlo.

“Hai mai pensato a cosa fare una volta fuggita dalla Stanza Rossa?”

Fu costretta a guardarlo dritto in faccia, in quei suoi occhi grigi che aveva tentato di evitare fino a quel preciso istante. Le tornò in mente la conversazione avuta mentre ancora dovevano raggiungere l'abbazia, il modo in cui l'aveva tormentato su ciò che si era aspettato dalla fuga dal villaggio. Non le tornava perché l'avesse fatto, perché avesse voluto piantare tutto per... qualcosa di indefinito. E adesso eccolo lì, l'arciere confuso, che le riversava addosso lo stesso interrogativo, e lei che realizzava di non avere una risposta. Non aveva mai riflettuto sul dopo, non si era mai chiesta cosa o chi avrebbe potuto essere una volta archiviata la Stanza Rossa.

Neanche si accorse di aver smesso di protestare, di essersi appoggiata al muro affinché la sostenesse. Si sentiva svuotata e leggera mentre il panico le apriva una voragine in petto. Si può mentire tanto a lungo da non poter più distinguere la realtà dalla finzione? E che succede se a furia di indossare maschere non si riesce più a decidere quale fosse il volto originario? E se quel volto non esistesse affatto? Se fosse sparito sotto il peso di tutte quelle identità fittizie che l'avevano fatto sbiadire fino a cancellarlo definitivamente? E Clint... Clint si sarebbe accorto di quanto inconsistente e trasparente fosse in realtà? Magari tutte quelle maschere non avevano fatto altro che dare forma e concretezza ad un fantasma, magari senza di loro sarebbe stata solo il ricordo scolorito di qualcuno che non era mai realmente esistito.

“Respira,” la voce di Clint la richiamò da quel baratro oscuro in cui stava precipitando, il cuore impazzito in petto e le mani sudate ancora strette attorno alla stoffa della sua camicia. Non più con l'intenzione di respingerlo, però, ma con quella di aggrapparcisi quasi fosse l'unico appiglio che la teneva ancorata alla realtà.

“N-No...” scosse il capo. Provò un'irrefrenabile, rabbiosa voglia di piangere.

“E' di tempo che hai bisogno, Nat,” bisbigliò lui, colto in contropiede dalla sua reazione – se n'era accorta anche nel bel mezzo di quell'attacco d'ansia – ma pur sempre immobile e deciso. “Di capire quello che vuoi... cosa sei.”

“Non s-sono niente,” biascicò, odiandosi profondamente perché tutto quello che avrebbe dovuto fare era stare zitta. Tacere, trincerarsi in un silenzio ostinato e confortante insieme.

“Puoi decidere quello che vuoi essere invece.”

“H-Hai detto che non credi nel r-reinventarsi.”

“Non è di reinventarti che hai bisogno... ma di... inventarti, credo.”

Adesso si stava arrampicando sugli specchi pur di convincerla a restare. La verità era che non aveva mai pensato a cosa sarebbe venuto dopo la Stanza Rossa, perché una parte di lei era sempre stata convinta che non ci sarebbe stato proprio niente ad aspettarla. Prima o poi l'avrebbero trovata e uccisa comunque, perché non erano le materiali pareti gelide del monastero arroccato sulle montagne la vera prigione, ma quelle che aveva in testa. Avrebbe potuto rimuovere se stessa dalla Stanza Rossa, ma la verità era come una ferita che le era stata inferta anni e anni prima, uno squarcio rosso sulla carne viva che non si sarebbe mai rimarginata: non avrebbe mai saputo come rimuovere la Stanza Rossa da se stessa.

“Ascolta,” Clint aveva ripreso a parlare. Le sembrava facesse fatica a farsi sentire al di sopra del battito furioso del suo cuore, mille tamburi che le riempivano le orecchie, assordanti. “Lo so che tutto questo non t'importa. Non t'importa del re, dello Scudo e di tutto quello che ne consegue.”

Natasha tentò di focalizzare sul suo viso, che adesso le appariva inspiegabilmente sfocato.

“Ma forse è l'occasione giusta per guadagnare tempo... e capire.”

“Scudo... S-Stanza Rossa... credi davvero che faccia tutta questa differenza?” Si sentì dire, la voce più ferma di quanto si era aspettata, ma bassa e quasi impalpabile.

“Non lo so e neanche tu lo sai,” le ritorse contro. “Forse potresti rimanere e scoprirlo da sola.”

“P-Perché t'importa tanto?”

“M'importa e basta,” aveva risposto seccamente, senza pensare.

“N-No, stai mentendo,” l'accusò. E adesso la rabbia e il fastidio erano tanto schiaccianti da rinvigorirle il corpo e la mente: la convinzione che la stesse giocando l'aiutò a recuperare lucidità, ad affidarsi a quella sensazione conosciuta. Il sospetto.

Si divincolò senza difficoltà dalla sua presa, sorprendendosi di quanto fredda fosse l'aria adesso che i loro corpi si erano separati. Realizzò con orrore che la mancanza non era affatto piacevole.

“Credi di potermi r-raggirare come f-fossi una principiante,” gli vomitò addosso. “Con i-il tuo stupido numero da uomo p-per bene.” Il petto le si alzava e abbassava in rapida sequenza. Tentò di aggrapparsi all'indignazione per evitare di sprofondare di nuovo nella voragine oscura che minacciava di prendere il sopravvento da un momento all'altro. “N-Non puoi,” scosse rabbiosamente il capo. “Non puoi,” ripeté.

Gli lanciò un'ultima, scottante occhiata e uscì dalla stanza prima di poter identificare nel morso gelido che sentiva nello stomaco, quello familiare del senso di colpa.

 

*

 

Non sapeva perché si fosse trascinata fuori dalla sua stanza. O forse lo sapeva, ma le implicazioni di quella decisione erano troppo gravi per poter essere anche solo prese in considerazione.

Sedeva ad uno dei tavoli di forme e fatture diverse assiepati nella stanza dal soffitto basso, in fissa della ciotola di zuppa che un ometto tarchiato le aveva servito quand'era arrivato il suo turno. L'unico motivo per cui era sicura che non ci avesse sputato dentro era che aveva seguito attentamente le sue mosse: non si era accorto che non era una di loro. Le aveva sorriso frettolosamente e aveva fatto cenno alla donna dietro di lei di farsi avanti.

Realizzò di essere affamata solo dopo la prima cucchiaiata, mentre il liquido pastoso scendeva a riscaldarle le viscere.

Le faceva male la testa e non riusciva a smettere di pensare a Clint, al modo in cui l'aveva trattato. Tentava di convincersi di aver agito secondo ragione, perché un comportamento come il suo era completamente illogico: ci doveva per forza essere qualcosa sotto. E comunque qual è la persona sana di mente che si sacrifica per l'incolumità di una perfetta sconosciuta? Aveva attraversato mezzo regno portandosela dietro, ferita e malconcia, quando avrebbe potuto semplicemente abbandonarla a se stessa. E poi c'erano state quelle tre notti che ancora le fluttuavano davanti agli occhi come un sogno sconnesso e disarticolato: perché non le aveva permesso di toccarlo? Sapeva di interessarlo in quel senso, eppure si era sottratto alle sue attenzioni... ripetutamente.

Si lambiccava il cervello nel tentativo di ricollegare i pezzi e convincersi che era tutto un complicato inganno per fregarla. Non c'erano alternative possibili a quella conclusione. O meglio... c'erano, ma anche solo riconoscerne l'esistenza avrebbe sconquassato e demolito il precario castello di convinzioni che Natasha si stava sforzando di erigere. Non le importava che le fondamenta di tutto quel ragionamento fossero tanto instabili, solo che il risultato le fosse familiare. Perché un pericolo conosciuto l'avrebbe potuto affrontare ad occhi chiusi; uno sconosciuto invece...

Il cucchiaio di legno cozzò contro il fondo della ciotola e allora capì che aveva finito. Si riprese da quella sorta di trance in cui era sprofondata e rialzò lo sguardo per ritrovarsi ad osservare un uomo che la fissava da sopra in giù. Era arrabbiato e spaventato insieme, lo capì immediatamente dalla sua postura.

“Stuart Rollins,” pronunciò quello senza distogliere lo sguardo.

Natasha realizzò che stava facendo fatica a sostenere i suoi occhi, ma si ostinava comunque a puntarle i propri addosso, forse nella speranza di poterla strozzare solo con la forza del pensiero. Perché l'odio che gli illuminava il viso era fin troppo plateale perché Natasha non se ne accorgesse.

“Ti ricordi di lui?” Insisté, stringendo la ciotola vuota che teneva ancora tra le mani. Doveva aver deciso di affrontarla così, su due piedi, senza averlo realmente pianificato.

“Non te lo ricordi, non è vero?” Schiantò le stoviglie sul tavolo, facendo cadere a terra un cucchiaio.

Natasha restò immobile. Non le serviva guardarsi attorno per capire che tutti i presenti si erano zittiti e voltati a fissarli. Sembrava che qualcuno avesse risucchiato tutta l'aria della stanza, che il centro da cui si sprigionava quella forza oscura si trovasse proprio nel punto in cui era seduta.

“Come potresti?” L'uomo rise di una risata priva di gusto in cui non credeva neanche lui. “Quanti di noi hai rispedito al Creatore, ah? Scommetto che hai perso il conto.”

Il cuore le si era riassestato su quel ritmo impossibile che minacciava di sfondarle il petto.

“Partner per dieci anni prima che arrivassi tu a disegnargli un bel sorriso rosso sulla gola,” continuò imperterrito, gli occhi lucidi e il pomo d'Adamo che gli tremava sotto il mento. “A-Aveva moglie, lo sai?” Adesso anche la voce l'aveva tradito, ma la rabbia era sempre lì, a deformargli il volto in una smorfia disgustata. “E figli.” Deglutì rumorosamente. “Ma che importa ad una come te?”

Non mosse un muscolo finché non fu sicura di potersi controllare, di non essere sul punto di vomitargli il pranzo sulle scarpe. Avrebbe voluto dirgli qualcosa... qualsiasi cosa. Avrebbe voluto avere il coraggio di affrontarlo, di prenderlo a male parole magari, ma sapeva già che non era possibile. Che non ci sarebbe riuscita.

Perché era vero, Stuart Rollins non lo ricordava. Ricordava con chiarezza le sue prime vittime, i loro cadaveri, i loro ultimi spasmi prima di arrendersi all'inevitabilità della morte. Ma col passare del tempo e degli incarichi quelle facce avevano finito per confondersi le une con le altre. Adesso c'erano solo gli occhi vitrei di tutti quei morti che le toglievano il sonno, che animavano i suoi incubi e le impedivano di riposare davvero da troppo tempo.

Si rimise in piedi di scatto. Con la coda dell'occhio vide che alcuni membri dello Scudo seduti nelle vicinanze avevano fatto altrettanto, come temendo che il compagno venisse attaccato da un momento all'altro. Sarebbero accorsi ad aiutarlo, questo era certo e Natasha avrebbe potuto far fronte a quello scontro incrociato senza troppe difficoltà... ma non ne aveva voglia. E non sarebbe stato giusto. Forse lasciarsi riempire di botte l'avrebbe fatta sentire un po' meglio, ma tutto quello che desiderava davvero, in quel preciso istante, era andarsene.

Si chinò a raccogliere il cucchiaio che gli era caduto e lo rimise nella ciotola che aveva sbattuto sul tavolo, senza neppure registrare il proprio gesto.

Lo guardò solo per un attimo prima di decidere che non avrebbe resistito a lungo, che se non se ne fosse andata il più rapidamente possibile avrebbe dato spettacolo un'altra volta e non nello stesso modo della sera precedente.

Si allontanò in fretta dalla sala refettorio, sentendosi addosso gli occhi dei presenti che sembravano bruciarla là dove le si posavano addosso. Riuscì a controllare il passo finché non si ritrovò nel corridoio deserto e solo allora accelerò, mettendosi praticamente a correre per raggiungere la sua stanza.

Si sentiva come se un mostro invisibile le stesse crescendo in corpo, così grande e imponente da rischiare di deformarla e squartarla pur di reclamare lo spazio che gli serviva per respirare. Trattenne il fiato fin quando il rumore sordo della porta che le si richiudeva alle spalle non andò ad amplificarsi nelle orecchie, mescolandosi al tonfo cupo del proprio cuore.

Si guardò febbrilmente attorno, il respiro affannato, alla disperata ricerca di qualcosa su cui scaricare la propria rabbia. Si scagliò contro il letto e lo disfece con furia, scaraventando il magro materasso contro la parete. Rovesciò il tavolino sgangherato, lo sgabello, li prese a calci quand'erano ormai a terra e poi, non contenta, si avventò contro il muro. Gli sferrò contro uno, due, tre pugni, lasciando che il dolore le si propagasse dalle nocche alle braccia, alle spalle, terribile e familiare insieme.

Fu la stessa, incosciente consapevolezza che l'aveva portata fuori di lì per mangiare che le impose di smetterla.

Una nobildonna non poteva sfoggiare mani piene di lividi.

Una nobildonna avrebbe avuto bisogno di tutte le energie possibili per sventare il colpo di stato organizzato ai danni di re Stark.

Natasha si lasciò scivolare sul pavimento mentre la realizzazione le si stagliava davanti agli occhi con l'inevitabilità delle cose già decise da tempo. Il mostro invisibile, però, continuava ad agitarlesi in corpo, a spingere e premere pur di uscire, di prendere il sopravvento, di trovare una qualsiasi via di sfogo.

Inorridì al suono che le sfuggì dalle labbra. Aveva fatto appena in tempo a riconoscervi un singhiozzo che ne seguì subito un altro. Provò a frenarli, ma capì ben presto che era tutto inutile, che era troppo spossata per fingere ancora una volta.

Si rannicchiò contro il muro e si coprì il viso con entrambe le mani mentre i sussulti del pianto le scuotevano le spalle e le braccia, mentre il sapore salato delle lacrime le inumidiva le labbra.

 

*

 

Sollevò il frammento di specchio che le avevano messo a disposizione, studiando l'acconciatura da più angolazioni. Solitamente avrebbe avuto un armamentario più adatto, ma il risultato non era poi così malvagio: la parrucca si era un tantino arruffata dopo averla trascinata in giro per il regno, ma faceva ancora il suo lavoro con quel suo rosso cupo.

Anche i trucchi se li era dovuti far bastare, ma si era arrangiata. Non sarebbe stata la prima, né l'ultima volta: un po' di nero sugli occhi, una tinta sanguigna sulle labbra..

I capelli le stavano gonfi al di sopra della fronte, mossi da lunghe onde che salivano verticalmente e circolarmente dietro la testa, fino a scendere in una ciocca di boccoli arrotolati che le giacevano vaporosi su una spalla.

Le era già capitato di dover interpretare il ruolo della nobildonna, persino di partecipare a certe feste esclusive che finivano immancabilmente col morto... o con qualche segreto d'importanza capitale ghermito con l'inganno tra lenzuola umide e colonne attorcigliate di pomposi letti a baldacchino.

Rabbrividì e provò disgusto per lo sguardo che lo specchio le rimandava. Lo ribaltò sul tavolo e si rimise in piedi per indossare l'abito che le avevano portato un'ora prima.

Aveva deciso di concentrarsi sulla prova imminente, di focalizzare sulla concretezza delle operazioni da svolgere per impedire che la mente divagasse, che il pensiero si fissasse su Clint o sull'episodio del refettorio. Non era ancora sicura che fosse quella, la decisione più adatta, ma sapeva di aver fatto una scelta e di non poter tornare indietro.

Rimanere là sotto – ovunque fossero di preciso – mentre fuori infuriava l'inferno sarebbe stato impensabile. L'inerzia era la nemica numero uno quando tentava soltanto di non pensare: restarsene con le mani in mano avrebbe finito per soffocarla in un vortice di interrogativi, dubbi e sospetti che ormai conosceva a memoria e che voleva soltanto allontanare per un po'.

Si chiese per quanto a lungo avrebbe potuto rimandare la resa dei conti, per quanto ancora avrebbe potuto ignorare i fantasmi che la tormentavano senza affrontarli a viso aperto. L'avrebbero schiacciata, di questo ormai era fin troppo consapevole.

Scacciò il pensiero a fatica – più tempo passava e più le risultava arduo – e uscì dalla stanza con il vestito sotto braccio e il corpetto aperto sulla schiena. Non c'era nessuno nel corridoio, ma anche nell'aria ferma dei cunicoli sotterranei risuonavano le voci dei membri dello Scudo in fervente preparazione per l'imminente entrata in scena.

Individuò una porta precisa e bussò un paio di volte prima che qualcuno non arrivasse ad aprire.

“Non possiamo fare a meno della parrucca?” La voce di Clint la raggiunse prima ancora che la porta si aprisse. “Mi sento un completo coglione,” decretò seccamente una volta che furono faccia a faccia.

Lo vide cambiare espressione quando realizzò che si era rivolto a lei e a nessun altro, ridimensionando di colpo l'entusiasmo per farsi più guardingo.

“Non stai poi così male,” si sforzò di rassicurarlo, “anche se le probabilità che ci viva una colonia di tarme, là in mezzo, sono... elevate.”

Le sembrò interdetto, ma durò solo per un attimo: il disagio gli si sciolse sul volto per cedere il posto ad una smorfia schifata.

“Grazie, adesso sì che mi sento meglio.” Rabbrividì teatralmente e si fece da parte per lasciarla entrare.

Indossava una divisa militare: la giamberga rossa coi polsini dorati, le ampie maniche da cui sbucavano le trine della camicia, i bottoni lucenti sul petto, le calze alte fino al ginocchio.

“Non fare commenti,” la mise in guardia, perché doveva essersi accorto dell'insistenza del suo sguardo. “Assomiglio a quel bellimbusto di Grant.”

“Niente arco?” Gli chiese.

“A dir la verità stavo per venire a cercarti,” le disse, adesso vagamente imbarazzato. Le mostrò l'arco e la piccola faretra sottile che erano appoggiati sul letto mentre accennava a scompigliarsi i capelli sulla nuca com'era solito fare quand'era nervoso, ottenendo soltanto di sbilanciarsi la parrucca – di cui si era sicuramente dimenticato – sulla fronte. “Per nasconderlo nella fodera della spada ci vorrebbe troppo tempo,” spiegò brevemente, “se avessi una sottana, invece...”

“Vuoi indossare una sottana o che nasconda l'arco sotto la mia?”

Clint le lanciò una rapida occhiata – Natasha si accorse che si stava sforzando di non guardarle il seno, parzialmente messo in mostra dal corpetto ancora allentato.

“A meno che tu non voglia fare a cambio... credo che quel copricapo di capelli mi starebbe particolarmente bene. Potrei nasconderci ogni ben di dio là dentro!”

“Ci ho già pensato io,” rivelò con tono di finto rimprovero. “Aiutami ad allacciare il corpetto,” soggiunse, voltandosi per mostrargli la schiena.

“Nel senso che hai nascosto un'arma là sotto?”

“Sarebbe stato stupido non farlo.” Tutto quello spazio sprecato... “Sai come allacciare un corpetto?”

“Certo che lo so. Dove credi che abbia vissuto fino ad ora?”

“So esattamente dove hai vissuto fino ad ora,” gli ricordò, mentre Clint stringeva i nastri e la morsa della stoffa rinforzata dalle stecche di balena si serrava progressivamente sul suo busto.

Rimasero in silenzio per un po', quel tanto che le bastò per accorgersi che l'aria sembrava essersi fatta di colpo più leggera. Non le importava più che fosse venuto a sapere o meno dell'episodio del refettorio.

“Mi dispiace per stamattina,” finì per dire senza averlo realmente preventivato.

“Non importa.” Aveva parlato a voce bassa, concentrato com'era sull'operazione in corso.

“Importa,” lo contraddisse debolmente.

Magari la stava davvero ingannando, magari era davvero tutto un complicato trucco per convincerla della sua buona fede. Aveva capito che avrebbe potuto scervellarsi per anni senza venire a capo di un bel niente. Forse tutto quello che doveva fare era fidarsi... ciecamente e stupidamente. La nozione stessa le risultava ancora completamente folle, ma era anche l'unica soluzione che aveva trovato. La fiducia era un po' come la fede religiosa: non esistevano prove tangibili su cui fare affidamento. Certo, i fatti aiutavano a colmare la distanza che separava il sospetto dalla fiducia, ma solo parzialmente: ci sarebbe sempre stato un breve tratto che avrebbe dovuto percorrere da sola... confidando in neanche lei sapeva cosa. Un volo di cui non avrebbe conosciuto gli esiti finché non l'avesse tentato.

“Fatto,” annunciò Clint, facendo un passo indietro per rimirare il suo operato.

Natasha dispiegò l'abito e ci si infilò dentro – le stringeva un po' sul petto ma avrebbe fatto il suo dovere.

“Non avevano nessun altro colore?” Le chiese mentre riavvicinava i due lembi che avrebbero dovuto chiuderlesi sulla schiena. “E perché diavolo ci sono così tanti bottoni?”

“Sono arrivata per ultima, quindi mi becco il vestito da vedova.” La coincidenza era paradossale e, in modo del tutto grottesco, la fece sorridere.

“Chissà se lo sanno...” mormorò Clint sovrappensiero, “che la spaventosa Vedova Nera russa nel sonno.”

“Non è vero!” Sbottò prima ancora di aver metabolizzato la stoccata.

“Oh, sì che è vero. Così placida e docile... finché non comincia a strombettare,” insisté.

“Sta' zitto!” Le veniva da ridere.

“Ma è vero!”

“Concentrati su quei bottoni e smettila.”

“Sissignora.”

Portò a termine il compito in completo silenzio, silenzio che era tornato confortevole, come alcuni di quelli che avevano condiviso durante il viaggio tutte le volte che Natasha si dimenticava di dover fingere. Non c'erano più tutti quei segreti ad appesantire l'aria, a frapporre tra di loro la distanza invalicabile che l'inganno le aveva imposto di stabilire.

Si stirò le grinze sulla pancia e si voltò facendo un passo indietro. La stoffa nera della gonna era morbida e lucente, striata di pizzi altrettanto scuri che le definivano la vita, la scollatura, le maniche lunghe fino ai polsi.

“Da cosa saresti mascherata?” Le chiese, osservandola con occhio fintamente critico.

Natasha sfilò un nastro di tulle dall'acconciatura e se lo sistemò sugli occhi a mo' di maschera.

“Da tuo peggior incubo.”

“Mi porterai l'arco, più che un incubo sarai... un aiuto provvidenziale.”

“Proprio. Diamoci una mossa,” lo esortò, assicurandosi le cinghie della faretra e dell'arco alle cosce ben nascoste dall'ampia sottana.

“Natasha...”

“Sì?”

“Cos'è che ti ha fatto cambiare idea?” La voce di lui le risuonò solo vagamente incerta.

“Se ti mando là in mezzo da solo, dio solo sa che combineresti.”

“Grazie per la fiducia,” stronfiò in risposta.

Si limitò a rivolgergli un rapido, spontaneo sorriso in risposta.

Si chiese se si fosse accorto della fiducia che gli aveva davvero accordato. Si chiese se comprendesse la capitale portata di quella scelta. Si chiese se sapesse quanto le era costata.

Decise che non le importava.








Note: primo capitolo del 2016 e già mi tocca scusarmi perché avevo promesso azione, ma mi ero dimenticata del capitolo allo Scudo dal POV di Natasha :P my bad... spero che vi sia piaciuto e che la delusione non sia esagerata! Dal prossimo entriamo davvero nel vivo dell'azione ;) (davvero davvero eh)
FYI, il look che Natasha sfoggerà alla festa della Corona è al 100% ispirato a quello del ballo in maschera di Marie Antoinette nell'omonimo film della Coppola.
Grazie a chi mi legge, commenta, segue, ché mi fa sempre piacere :3 e grazie alla sociabeta Eli per il sostegno morale e fandomistico ù_ù
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: Hermione Weasley