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Autore: Rox the Fox    08/01/2016    0 recensioni
[Dal primo capitolo]: Eravamo cacciatori di incubi. Aiutavamo le persone tormentate, dimenticandosi di noi stessi, ma traendo da queste azioni beneficio e, quando possibile, denaro. Il nostro problema era che, così facendo, rischiavamo di attirare su di noi le attenzioni del grande capo. Era una vita difficile, la nostra, eppure ci bastava davvero poco per essere sorridenti. Ma non in quel periodo. Il drago si stava avvicinando, per conquistare il trono del re.
In una terra ormai caduta nel caos, dove gli Incubi regnano sovrani e il terribile drago Ydonar minaccia la pace ormai fragile, Alexandra e Shinichi, due cacciatori di Incubi, decideranno di salvare la loro terra, non avendo più nulla da perdere.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II
Speranza

 
Le campane risuonavano cupe per le vie della città e mi trattenni dal sospirare, quasi come assecondare il loro andamento. Una folata di vento felido accarezzò i miei capelli, legati in una treccia per pura comodità. Gettai uno sguardo verso il cielo, ma quando sentii dei passi che si avvicinavano, trattenni il respiro, piena di paura com’ero. Se mi avessero trovata, per me sarebbe finita. Stavo fuggendo dalla città o, almeno, ci stavo provando. Ogni angolo, ogni vicolo, sembrava sorvegliato e cercavo di muovermi strategicamente, ascoltando i passi delle guardie e, seppur con dolore, le urla degli uomini che morivano e delle donne che venivano stuprate. Non volevo essere nei loro panni. Dovevo essere lucida. Il soldato passò accanto al muro dietro la quale mi stavo nascondendo e si fermò un attimo. Ero pietrificata. Sentivo perfettamente il suo respiro, stava annusando l’aria, seppur in modo strano.
Davvero devo morire così? Le guardie di Ydonar hanno un olfatto sviluppato. Mi troverà e mi scorticherà viva. O forse mi porterà di Ydonar come cibo, il tutto dopo aver intenerito la mia carne con le peggiori torture.” pensai, in preda al panico. Serrai gli occhi, la mia apnea non sarebbe durata per sempre.
« Eh… ehh… etciù! »
Sgranai le iridi di colpo, come se fossi tornata in quel momento alla realtà da un brutto sogno. Era raffreddato! Non ci potevo credere. Sentii che si stava allontanando, finalmente ed anche io feci altrettanto. Sgattaiolai in un altro vicolo buio e camminai per un tempo indefinito. Riuscivo ad orientarmi perfettamente, sentendo la puzza di piscio e morte che si faceva sempre più intensa e che contraddistingueva il quartiere dei malati e del crimine, dei rietti. Le mura della città non dovevano essere troppo lontane, me lo sentivo. Ormai ero rimasta sola. I miei genitori erano stati uccisi, mentre io e il mio fratellino guardavamo. Poi l’avevano portato via da me. Nessuno mi aveva ascoltato mentre li pregavo di farlo restare con me. Avrei fatto qualsiasi cosa. Eppure, l’unica risposta che mi diedero non fu affatto confortante.
 
« Zitta, puttana. Tanto farai comunque ciò che ti diremo. » aveva detto il più magro dei soldati, un tipo con una brutta cicatrice sul viso scarno e dalla pelle giallognola.  Si era calato le brache, tirandomi a sé, ma qualcuno l’aveva interrotto tempesteivamente.
« No, Forg, le fanciulle dagli occhi d’argento le vuole il capo. Portiamola dal comandante, così ci penserà lui. E poi è fin troppo carina per te. » rise il nuovo arrivato, mentre il compare si rimetteva a posto il membro. Indietreggiai, ma mi afferrarono, tirandomi via.
 
Rabbrividii a quel ricordo recente. Ero riuscita a scappare nel cuore della notte, rubando la spada a Forg e piantandola nel suo cranio, non senza difficoltà. Avevo dovuto trattenere il vomito. Sentire l’arma attraversare tutti i muscoli, le ossa e gli organi di quell’uomo, mi aveva fatta sentire onnipotente solo per un istante, solo perché quella era stata la spada che aveva squarciato il ventre di mia madre e la gola di mio padre. Ero diventata un’assassina.
Presi i vestiti di Forg per cercare di coprire un minimo il mio odore e poter passare inosservata. Non sapevo più cosa fare, né dove andare. Non mi avvicinai neanche al tempio, immaginando che ormai lì non ci fosse più nessuno, se non morte e desolazione. Dovevo rassegnarmi. I miei genitori erano morti, così come il mio maestro, con tutto probabilità e mio fratello era stato portato via, il mio piccolo Nebel. L’unica cosa che mi era rimasta da fare era fuggire ed appendermi ad una flebile speranza: la resistenza. Con quell’idea in testa, finalmente, raggiunsi le mura della città. Poggiai una mano sul muro, pensierosa e, soprattutto, alla ricerca di un passaggio per poter sfuggire a morte certa. Le porte erano tutte sorvegliate, ovviamente, quindi era inutile persino provare ad andare da lì. Tastai attentamente ogni mattone e fu in basso, dietro un cespuglio che cresceva lì spontaneamente, che trovai un buco. Era stretto e basso. Un incubo.
Spero di non restare incastrata. Oh, quanto lo spero.” pensai, in preda allo sconforto più assoluto. Mi abbassai e cercai di entrare nel cunicolo. Cosa che, per mia fortuna, mi riuscii. Ora veniva la parte difficile, però: passare dall’altro lato per assaporare la tanto agognata libertà. Strisciai, cercando di ignorare la terra che mi strappava i pantaloni di lana che erano appartenuti a quel bastardo. Sentivo qualcosa che correva fra i miei capelli, sulle braccia e il collo. Tremai. Volevo piangere. Non potei fare altro che avanzare, tenendo le labbra serrate, per evitare l’intrusione di qualsiasi insetto o mostro in miniatura. Rimasi lì a struisciare per un’eternità o, almeno, ebbi quest’impressione. Quando misi la testa fuori, la prima cosa che notai fu… la pioggia. Stava piovendo. Mi alzai, facendo attenzione ad eventuali sgradite presenze. Non c’era nessuno nei paraggi, per mia fortuna, e poggiai la schiena contro il muro, godendomi le gocce di pioggia che mi bagnavano il viso. Fu solo qualche istante, però. Non potevo perdere tempo.
Mi spostai verso il bosco e mi arrampicai alla menopeggio su un albero, mentre sentivo i lupi in lontananza che ululavano.
Speriamo bene…
Proseguire in quelle condizioni non mi sembrava affatto sicuro, per cui decisi di riposare, o, almeno, provarci. Mi accoccolai meglio sul ramo, per quanto comodo potesse essere e tirai un sospiro.
Avevo sempre pensato di spaere qual fosse il futuro che mi aspettava: aiutare le persone povere, pregare e morire in una tranquilla casa in mezzo al nulla all’età di novantadue anni, con l’affetto di chi avevo aiutato durante la mia esistenza e delle mie consorelle. Ed invece tutto ciò era svanito in una sola notte. Adesso la mia vita era un’incognita. Mi riscossi dai miei pensieri, notando con la coda dell’occhio un debole bagliore rosso in lontananza. Poteva essere qualsiasi cosa, eppure, dentro di me, sapevo che peggio non poteva andare: decisi di controllare. Scesi goffamente dall’albero e seguii la direzione della misteriosa luce. La pioggia cadeva fitta e sentivo i miei piedi affondare nel fango con un suono che, probabilmente, in circostanze normali, avrei persino trovato divertente. Non avevo voglia di ridere, in quel momento; in compenso, l’ansia mi stava mangiando viva. Quando fui abbastanza vicina da comprendere di cosa si trattasse, non seppi se gioire o meno: era una grotta e dentro sembrava esserci un fuoco. Entrai con circospezione e mi fermai, sorpresa, notando poco lontani dal falò due figure strette tra loro, forse nel disperato tentativo di riscaldarsi. Erano un uomo e una ragazzina, sporchi, ma entrambi belli come il sole. Li scrutai e mi sembrò di riconoscere i loro capelli biondi e i lineamenti. Possibile…?
Non feci in tempo ad elaborare alcun pensiero, che mi ritrovai con la faccia contro il muro, letteralmente senza fiato, per via della botta presa. Qualcuno stava tenendo saldamente le mie mani contro il muro, anzi, mi stava proprio schiacciando con il corpo, per evitare ogni mio movimento. Mi aveva colta alla sprovvista: « Lasciami! » sbottai sottovoce, non volendo svegliare i due dormienti. Sentii il fiato di chi mi teneva sul collo: « Sei sola? O ci sono gli altri tuoi amici fuori? »
Era una voce maschile, non compresi il significato delle sue parole, ma, fortunatamente, il mio cervello mi aiutò tempestivamente.
« Aspetta! Se pensi che io sia un Incubo, ti stai sbagliando! » esclamai, con la guancia premuta sulla roccia ruvida. Sentii la presa allentare leggermente.
« Ah, no? Dovresti dimostrarlo. » sibilò l’uomo dietro di me, con tono glaciale, pieno di diffidenza. Come diamine potevo farlo? Sentivo già il sapore delle mie lacrime. Lacrime? Ebbi un lampo di genio e mi diedi della stupida per non averci pensato prima.
« I miei occhi! I miei occhi lo dimostreranno! » esclamai, con fin troppa foga, tant’è che lui mi strattonò, in modo poco delicato.
« Zitta, o sveglierai i miei fratelli. » disse a denti stretti e, senza darmi il tempo di replicare, mi girò con una facilità estrema e finalmente ci guardammo negli occhi. I suoi erano di un rosso cremisi talmente intenso da fare impressione. Mi stavano studiando per valutare le mie intenzioni. Nello stesso tempo, fui io a scrutare con attenzione ogni suo particolare. Aveva capelli biondi che gli incorniciavano il viso pallido, la barba era poca, incurata.
Storse le labbra in un’espressione dubbiosa, quasi sprezzante: « Una fanciulla d’argento? »
« Sì, esatto. » dissi, cercando di addolcire, per quanto possibile, la mia voce. Mi lasciò, finalmente, anche se l’evidente fastidio che provava nei miei confronti non scemò.
« Sei inutile, se non sai usare la magia. »
Restai basita. Come se fosse colpa mia! Da secoli, ormai, le bambine e i bambini nati con il colore degli occhi argentato, vengono promessi alle divinità, diventando così parte dei religiosi. Si diceva che fossero maledetti e che l’unico modo di redimersi fosse quello di dedicare la propria vita alla preghiera, rinunciando alla maledizione, ovvero la magia. Ne ero dotata, ma non sapevo usarla anzi, avrei rischiato di fare danni enormi.
« Posso essere comunque utile, anche se non capisco a cosa. » dissi, perplessa. Il ragazzo sbuffò sonoramente: « A sconfiggere gli Incubi, ecco a cosa. Sei solo una fanatica religiosa. Io e i miei fratelli non abbiamo bisogno di te. » disse, con evidente disprezzo. Mi lasciò, finalmente e lo guardai, scocciata: « Non te l’avevo neanche chiesto. »
« Leonard, tutto bene? » chiese una voce maschile, tra uno sbadiglio e l’altro. Sgranai le iridi e ci voltammo entrambi verso l’altro ragazzo, che si era svegliato. Quando mi vide scattò in piedi: « Chi cazzo sei?! »
« Mi chiamo Omega, non sono vostra nemica. » dissi, ormai prossima all’esasperazione. Mi studiò, avvicinandosi: « Una fuggitiva come noi, eh? »
« Già… voi chi siete? » chiesi a questo punto, mentre il fuoco scoppiettava, anche se ormai era piuttosto debole.
« Non uscivi molto spesso, vero? » rise lui, trovando forse divertente il fatto che no, non riuscivo proprio a capire.
« Non esattamente… »
« Io sono Elliott Barma, lui è mio fratello Leonard e lei è Alina. » disse, sorridendo. Sembrava più allegro dell’altro biondo, nonostante la situazione. Era ottimista, probabilmente.
Improvvisamente una lampadina mi si accese nella mia mente e non potei non sorridere, piena di nuova speranza. La vedevo in loro tre.
« Voi siete i principi! »
Il sorriso di Elliott mi diede conforto e mi fece capire che nulla era perso.



Note dell'autrice.
Ecco a voi il secondo capitolo di questa "cosa". Spero sinceramente vi piaccia. Se ci sono errori, vi prego di segnalarmeli. Le critiche sono ben accette: vi prego solo di non offendermi. Al prossimo capitolo.

Rox

 
   
 
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