Il disagio di
sentirsi circondato da
persone, le quali avevano cominciato da tempo ad affollare
l’ingresso della
chiesa, accompagnate dallo scalpiccio di passi e dal vociare, rumori
che creavano
una sorta di condensa, di alone tiepido intorno a Sherlock, il quale
attendeva
irrigidito e paziente accanto a uno dei due cancelli che cingeva la
scalinata,
era compensato dalla consapevolezza che nessuno degli individui che
attendeva
di prendere posto per la celebrazione della mezzanotte avesse la minima
idea di
chi fosse Sherlock Holmes. Sorrisi, volti arrossati dal freddo.
Scricchiolare
di scarponcini e stivali contro la neve, una miscellanea di parole in
inglese e
in italiano, lingua che Sherlock non conosceva, ma della quale riusciva
a
riconoscere i suoni.
Luci fioche,
sguardi fugaci. Cielo
d’inchiostro, stelle esili. Sherlock guardò
l’orologio una, due, tre volte.
Alla quarta, mentre
muoveva appena i
piedi nella neve per scaldarsi, intravide una figura fendere la folla
di fedeli
che si stava via via diradando man mano che tutti si dirigevano verso
l’entrata. Pur sentendosi ancora debole e istupidito dalla
delusione di non
aver incontrato John neanche quella sera, scrutò con
attenzione il volto e i
capelli della donna che gli si accostò con fare esitante e
domandò con un
sorriso: “Sherlock Holmes?”
Sherlock
annuì. “Laurine Gerthard, suppongo.” Indirizzo
email improponibile. Qualcosa che ha a che fare con i gatti, se non
ricordo male.
Lineamenti europei, ma non inglesi. Capelli tinti, aridi, occhi chiari.
Denti
regolari, sani. Pelle non troppo fresca, forse a causa
dell’abuso che questa
donna fa di prodotti cosmetici, come segnalano i residui di trucco
sulle
palpebre e sugli zigomi. Ha ritenuto opportuno struccarsi prima di
incontrare
me? Interessante. Incertezza come tratto caratteriale o eccessivo
egocentrismo?
Tu che ne dici, John? Cappotto e stivali di buona qualità.
Guanti morbidi,
trama fine, mani piccole e apparentemente ben curate. Per lavoro?
Probabile.
“Mi stava
aspettando da molto?”, chiese
la donna, scrutandolo in volto con sguardo limpido.
“Un tempo
sufficiente da indurmi ad
andare via. Ciononostante, lei è arrivata prima che potessi
mettere in atto i
miei propositi.”
La donna si
voltò verso l’ingresso della
chiesa, osservandolo per qualche istante. “Non va alla
funzione di
mezzanotte?”, chiese poi con un sorriso cordiale.
“Per
l’amor del cielo, certo che no”, fu
la risposta secca. “Vuole ora farmi la cortesia di spiegarmi
per quale ragione
ha inteso convocarmi qui in questo giorno, a quest’ora di
notte?”. Mentre lo
diceva, Sherlock provò un istintivo moto di gratitudine
verso la sconosciuta, a
dispetto del tono irritato e dell’occhiata severa che le
lanciò. Non credo che
avrei resistito un solo secondo in più, in quella maledetta
stanza. Laurine lo
osservava con gli occhi appena sgranati, un’espressione
colpevole a incurvarle
gli angoli della bocca.
“Ha
ragione, mi scusi”, replicò con voce
sottile. Gli occhi le si velarono, mentre proseguiva:
“Può immaginare il motivo
di questa convocazione, però. Desidero parlare con lei di
padre Jonathan.” Le
si incrinò appena la voce.
Sherlock la
osservò per qualche istante,
in silenzio. Poi affermò:
“C’è un bar nelle vicinanze. Andiamo
lì.”
Il locale in cui
presero posto qualche
minuto dopo era piccolo e riscaldato, con carta da parati giallo
canarino su
cui erano raffigurati fiori dai petali purpurei e tavoli in legno, con
vezzosi
centrini bianchi posati sugli stessi: tutti fattori che lasciavano
presagire un
certo senso di intimità in coloro che lo frequentavano. A
Sherlock, tuttavia,
l’illuminazione artificiale instillava una sensazione di
umida tristezza,
appiccicosa e annichilente. Scacciò quel pensiero e
osservò Laurine ordinare un
cappuccino.
“Ho un
paio di condizioni cui le chiedo
caldamente di sottostare”, esordì Sherlock dopo
qualche istante di silenzio.
Sedeva rigido, le mani affondate nelle tasche del cappotto, le gambe
incrociate
sotto il tavolo. La donna, perplessa, rispose: “Mi
dica.”
“Sia
rapida. Focalizzi gli elementi più
importanti per l’indagine e me li riferisca senza annoiarmi.
La avverto”,
proseguì Sherlock, implacabile “mi annoio molto
facilmente.”
Laurine
annuì, senza sorridere. Si sfilò
i guanti e incrociò le dita delle mani sul tavolo, premendo
con forza i palmi.
“Padre Jonathan era la persona migliore che
conoscessi”, bisbigliò con un filo
di voce. Sherlock osservò con attenzione la pelle screpolata
del dorso delle
mani della sua interlocutrice. “Aveva un grande cuore, era
umile, gentile.”
Sherlock la
interruppe. “Le suggerisco
di riservare questo genere di affermazioni per una commemorazione, non
per
un’indagine. C’è altro?”
Laurine lo
osservò, interdetta. “Volevo
solo… farle capire che tipo di uomo fosse padre Jonathan.
Conduceva una vita
molto riservata, ma la sua porta era sempre aperta per chiunque ne
avesse avuto
bisogno. Era una persona limpida, senza segreti…”
Sherlock
roteò gli occhi. “Ci risiamo.”
La donna gli
scoccò un’occhiata
rabbiosa. “Dovrebbe avere rispetto
del dolore altrui, signor Holmes.”
“Il
dolore di natura emotiva,
appartenendo alla sfera dei sentimenti e delle emozioni umane, non
costituisce
per me ambito di interesse alcuno.”
“Invece
dovrebbe, signor Holmes. Padre
Jonathan era il mio padre spirituale e ha significato molto per me.
Significa ancora
molto…” sussurrò Laurine,
estraendo un fazzoletto dalla tasca del cappotto. Nonostante tutto,
Sherlock ne
trovò il contegno estremamente ammirevole.
“Non
c’è bisogno di commemorazioni
strappalacrime, se mi ha consultato dovrebbe sapere che posso
comprendere in
pochissimo tempo ciò che lei intendeva dire.”
Laurine lo fissò come se avesse
visto un marziano. “Oh, no, non mi guardi così, lo
fate sempre tutti. Dunque. Quello
che lei vuole portare alla mia attenzione
è il fatto che il signor Jonathan fosse una sorta di santo,
o di creatura
angelica. Una persona pulita, destinata a morire comodamente nel
proprio letto
dopo una vita tranquilla.” Laurine, nonostante le lacrime
agli occhi, annuì con
rabbia. “Alla luce di ciò, la sua domanda
implicita, Laurine, è davvero
interessante: perché proprio lui?
Me
lo dica lei.”
“Io?”,
replicò, spiazzata, la donna.
“Perché pensa che io possa saperlo?”
“Lo ha
detto lei prima”, le labbra di
Sherlock si distesero in un vago sorriso. “Un uomo senza
segreti. Per fare
questa affermazione doveva conoscerlo davvero bene,
eppure…” il suo sguardo
incrociò per un attimo quello della sua interlocutrice,
soffermandosi per un
attimo sulle sue iridi bluastre, guardandola senza in realtà
vederla “c’è
qualcosa, ci dev’essere qualcosa
che
lei non si spiega. Dico bene?”
Laurine
sembrò illuminarsi in volto, ma
subito dopo la sua espressione tornò cupa. “Una
donna, signor Holmes.”
Sherlock congiunse
la punta delle dita.
“Ricorda quello che le ho appena detto?”
Con voce incolore,
Laurine replicò:
“Rapida, sintetica, essenziale.”
Il consulente
investigativo annuì. “La
ascolto.”
“A dire
la verità non so molto… padre
Jonathan non me ne ha mai parlato personalmente. Sono
soltanto… voci… sussurri…”,
esitò Laurine, torcendo il fazzoletto che aveva tra le mani.
“Una donna che lo
amava e che giurò di riprenderlo con sé, in un
modo o nell’altro…”
Sherlock
avvertì il fortissimo impulso
di sbuffare rumorosamente, ma riuscì a contenersi. Prima che
potesse
pronunciare una sola sillaba, Laurine alzò il volto rigato
di lacrime verso di
lui.
“La
trovi, signor Holmes”, boccheggiò,
scrutandolo con occhi supplichevoli. Sherlock avvertì una
sensazione sgradevole
alla bocca dello stomaco. “Io…”
“Ho
visto…” lo interruppe Laurine,
singhiozzando “io… ho…
letto… l’aconito… so cosa fa, come
riduce le persone… è
atroce… è perverso… e quella villa
abbandonata… lei voleva che non fosse mai
trovato, capisce? Voleva lasciarlo
lì… a marcire…”
Sherlock non
riuscì a parlare. Ecco cosa
significa, sussurrò Mycroft dalla sua poltrona accanto al
caminetto, mescolando
lo zucchero nella sua tazza di tè. Accavallò
appena le gambe e lo scrutò in
volto. Ecco cosa significa perdere qualcuno,
fratellino. Sta’ zitto, Mycroft. Il calore
dell’ufficio di Mycroft si dissolse,
e Sherlock si ritrovò scaraventato con violenza nel bar
anonimo del giorno di
Natale, mentre Laurine si preparava per fuggire, raccogliendo borsa e
guanti
con velocità sconnessa, ostacolata dal pianto. Evidentemente
non c’era più
nulla da dire, ma quel pensiero risultò curiosamente
insostenibile a Sherlock,
il quale, d’impulso, volle trattenerla: le afferrò
il polso piccolo e freddo,
meravigliandosene l’istante successivo. Laurine lo
scrutò con espressione
costernata, ma non tentò di divincolarsi.
“Era…”
la voce gli uscì in un soffio. Fece
una pausa, poi ritentò. “Era sereno.”
Laurine
sembrò comprendere, e nuove
lacrime le spuntarono agli angoli degli occhi gonfi. Sembrava avesse
esaurito
tutto ciò che avrebbe voluto o potuto dire.
“Io ho
visto il suo corpo, l’ho
esaminato…” proseguì Sherlock,
goffamente. “Sembrava dormisse. Come se non
avesse sofferto.”
Laurine
annuì, piangendo. Sherlock, sconfitto,
ritrasse la mano. La donna gli porse la sua, con un bagliore di
gratitudine
annidato nello sguardo.
“Grazie,
signor Holmes.”
Sherlock
ricambiò la stretta, volgendo
gli occhi verso l’ampia vetrata del locale che dava sulla
strada. Doveva essere
molto tardi. Iniziava a nevicare. Sorrise con tristezza remota.
“Buon
Natale, Laurine.”
Rientrò
dopo qualche ora. La notte era
profonda, scura, sbiancata dalla neve farinosa: entrò
nell’appartamento
pensando freneticamente, nonostante l’ora tarda, allo scambio
avuto con
Laurine, rimproverandosi aspramente per
l’irrazionalità sgradevolmente emotiva con
la quale aveva condotto il colloquio. Che mi sta succedendo? Si chiese.
Non ho
mai avuto in simpatia le festività, né le donne
che piangono. Ciononostante,
quanto mi ha suggerito potrebbe essere fondamentale. Avvelenamento,
molto
poetico, molto femminile. Movente passionale, il cerchio si
chiuderebbe. Per ora,
in ogni caso, questa donna ha le fattezze di un fantasma, considerando
che non
ha lasciato tracce di alcun tipo. Dovrò esaminare
personalmente tutti gli
effetti personali e i documenti di padre Jonathan…
“Signor
Holmes?”, la voce,
sgradevolmente familiare, alterò per un attimo il delicato
equilibrio dei suoi
pensieri.
“Cosa?”,
sbottò in risposta. Helvia,
orrendamente seduta nella poltrona di John, – la poltrona di
John! – si alzò
con aria colpevole, come se sapesse. Senza la felpa e i jeans
strappati, senza trucco
e piercing, infagottata in un anonimo pigiama di flanella, sembrava
ancora più
insignificante della prima volta in cui Sherlock l’aveva
vista.
“L’ho
aspettata per chiederle scusa”,
sussurrò la ragazza, torcendosi le mani. “Per
essere piombata in questo modo in
casa sua, senza preavviso… Sono a Londra solo da qualche
mese e avevo bisogno
di un posto dove stare per poter proseguire gli studi…
Martha è stata così
gentile da offrirmi questa soluzione per qualche mese, prima che io
trovi una
casa mia…”
Sherlock
sollevò una mano per
interromperla. “Potremmo andare avanti per tutta la notte in
questo modo, ed è
l’ultima cosa che desidero al mondo”, disse con
voce neutra. “La sua camera da
letto è al piano di sopra, come già sa,
considerando che durante la mia assenza
ha già sistemato le sue cose.” Si voltò
per andarsene.
“Mi
dispiace, signor Holmes”, rispose
Helvia in un bisbiglio triste che per un momento lo raggelò,
pur continuando a
dirigersi verso la sua stanza. “Mi dispiace per
tutto.”
Sherlock non
rispose. Continuò a
camminare come se nulla fosse e si chiuse la porta alle spalle,
chiudendo gli
occhi per un secondo. Il telefono, con un suono di cuore spezzato,
vibrò appena
nella tasca del cappotto. Un messaggio. Di John.
Sherlock dovette sedersi, il sistema
cardiocircolatorio in cortocircuito, le
mani sudate, la pelle sbiancata dalla paura, dall’emozione.
Io non ho emozioni,
si disse seccamente,
prima di ricadere nel deliquio. Il mio cuore, le mie vene. La notte
fuori dalla
finestra sembrava perfetta per accogliere il suo dolore, la sua
disperata
speranza, la sua vulnerabile, tenera dolcezza, la stessa che gli si
sprigionò
nelle viscere come un manto di velluto e seta dopo aver letto il testo
del
messaggio. Rimase a fissarlo per altro tempo, incalcolabile,
già dimentico di
qualsiasi cosa – Reichenbach, la rabbia, il matrimonio, la
solitudine, il
sacerdote, il palazzo mentale invaso d’acqua, dalle
fondamenta esili, debole,
il pianto di Laurine, il dolore di Laurine, così
insopportabilmente
rassomigliante al proprio.
Scusa
se non sono riuscito a passare.
Ho
avuto un po’ di problemi da risolvere.
Spero
tu stia bene.
Buon
Natale, Sherlock, a presto.
John