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Autore: L0g1c1ta    13/01/2016    1 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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“…!”

“…”

“…sei tu…”

“Si, sono io”

“… sei venuto qui per vendicarti?”

 

Si sveglia affannato, il generale russo. Nonostante gli occhi impiastricciati dal sonno e le coperte avvinghiate a sé riesce a mettersi in piedi e ad uscire dalla stanza, con poca calma e tanta impazienza. Ha il passo pesante, si rigetta sul pavimento. È veloce, agitato, con tanta, tanta voglia di correre.

 

“Non sai quanto lo vorrei... Ma non posso”

“...oh. Allora perché sei qui? Cerchi qualcosa?”

“No, ma devi muoverti, in fretta!”

 

Svolta i corridoi, strugge i tappeti sotto i suoi piedi. Ha la mente sveglia, agile e vigile. È come trovarsi in guerra: si sente all’erta, col cuore gelido e la mente lucida. Ma questa volta non sadica. Deve solo cercare. Passa la camera dei Baltici. La porta è aperta, brutto segno. Tocca il muro con le dita, lo accarezza man a mano che prosegue il suo cammino. Immagina i piedi di Lituania, immagina i suoi passi stanchi. La sua depressione, il suo cuore rotto, la sua anima in pezzi.

 

“C-Cosa…? Piccolo demone, cosa vuoi da me?! Vattene tu! Vattene! Non mi toccare! Lasciami stare!”

“Russia… Russia! Ascoltami, non lo avrei mai fatto in vita mia, ma devi aiutarmi. Subito!”

 

Un altro corridoio svoltato. I passi accelerano, il fiato comincia ad abituarsi alla velocità, gli occhi guizzanti. Ha il volto di pietra, Russia. Sente la tensione dentro di sé, forte e palpabile. Ha paura, ma non se ne vergogna questa volta. Ha paura per l’anima di qualcuno. Ha paura delle ombre fuori dalle finestre. Ha paura dei fruscii, degli spifferi vicino alle sue caviglie. Ha paura dei soffitti alti e dei rumori dei suoi piedi.

 

“Russia, ti chiedo un favore. Te ne prego, una volta nella vita te lo voglio chiedere”

“…se lo faccio te ne andrai?”

“Si, subito. Non verrò mai più da te, mai più”

 

Terrore per la ricerca ancora a vuoto. Non trova ciò che sta cercando. Guarda ovunque l’occhio glielo permette. E di vista ed udito ne ha parecchio. Apre ogni camera, salone, stanzino. Non lo trova. Ogni stanza vuota è un grammo di panico che s’intensifica all’interno del suo cuore. Ha il passo ancora più pesante e i piedi più svelti. Svolta un altro corridoio, i piedi ora corrono, increduli di ciò che stanno vedendo. Non vogliono crederlo.

 

“C-cosa vuoi?”

“Devi salvarlo!”

“…chi?”

 

Lituania!” è un urlo disperato, il suo. Si rende conto di quel che ha fatto. D’istinto si serra la bocca con una mano, ricordandosi dei piccoli Baltici e delle sue sorelle. Continua a sigillare la sua bocca, ancora più chiassosa. Comincia a gemere di dolore. Là nel cuore, si è aperto una crepa. Già c’era, ma si è allargata molto più. Un coltello girato e rigirato nella stessa posizione. Con l’altra mano si prende i capelli. Gli tira e ne strappa delle ciocche, incurante del dolore. Lui vuole dolore su di sé, se lo merita.

Lituania è appeso all’alta porta del corridoio, con una cintura, la sua cintura, alla gola. Il corpo si muove leggermente. Volteggia ad una quindicina di centimetri da terra. La sedia gettata verso la finestra. Nota l’ondeggiamento del corpo. Gli nasce una speranza, ma molto piccola. Si avvicina al piccolo. La gola si serra, non riesce a respirare, gli occhi spalancati. La testa di Lituania cade verso terra, i capelli sono gettati sul volto, la bocca schiusa.

Russia è vicino al ragazzo. Gli tremano le mani, sente le lacrime sul punto di scendere giù come cascate. Non tenta nemmeno di fermarle. Questo ha fatto molto male. È la cosa più dolorosa che abbia mai provato. È certo che sia così. Non ha mai provato così tanto dolore per così tanto tempo. È la prova. È un mostro, una bestia, tanto da costringere un povero bambino a scappare, nel modo più disperato possibile. Era meglio se Lituania fosse scappato di casa, l’avrebbe potuto accettare. Avrebbe potuto ritrovarlo e riportarlo indietro. Si sarebbe arrabbiato molto, ma sarebbe stata solo rabbia, nulla di più. Questo è vero dolore. Gli paralizza i polmoni, non lo fa respirare. Lituania non lo vuole. Ma non solo questo, si voleva annullare completamente. Lituania non solo lo odia, ma ha il terrore di lui.

Russia si sente pesante, ha un macigno sulle spalle. Cadono a terra le ginocchia, si spaccano sul pavimento, vicino ai piedi del moro. Con un braccio si stringe la pancia, gonfia di angoscia. Russia sfiora con le dita i piedini da bambino del ragazzo, bianchi e cupi per il buio. Sono freddi come il marmo. Anche questo fa male. La gola e il cuore si lamentano all’insieme. Cercano di non farsi sentire, ancora terrorizzati dall’idea di farsi scoprire. Ma si sentono ugualmente troppo male per trattenersi. Anche l’altra mano si unisce allo stomaco. Si dondola sul posto, cerca di calmarsi, ma non ci riesce. Fa troppo male, è stato troppo doloroso. Per sbaglio un dito ha sfiorato un punto sensibile del piede del lituano. Le dita di questo si muovono un po’, ripristinate. La sua piccola speranza cresce, cresce come un campo di margherite in primavera.

“Oh, Cielo…” geme Russia, la speranza straripa dal suo cuore. Si alza in piedi, ignora il dolore delle ginocchia. Il cuore continua a straripare, è un fiume in piena, pieno di gioia e terrore misto in un immangiabile calderone. Tiene stretto a sé il corpo tiepido. Con una mano libera, maldestro e veloce, libera la cintura intrappolata nel funicolo della porta e così anche dalla gola del ragazzo.

Lo stende a terra, la testa e il petto fra le sue braccia. Le mani continuano a tremare, eccitate e paurose. Il collo di Lituania è un po’ più sottile, con strisce rosse e rosate che sfregiano la carne. Hanno stretto molto, le corde. Le dita maldestre provano ad accarezzare la tempia del ragazzo, ma per sbaglio la graffiano. Si odia per questo, singhiozza anche il suo corpo. Il busto e i piedi di Lituania si attorcigliano, come un insetto capovolto che tenta di ritornare in piedi. Russia nota le labbra schiuse del moro. Si aprono e si chiudono, come le labbra di un pesciolino. Raccolgono l’aria nelle guance, ma non riescono a portarla ai polmoni. La gola è ancora chiusa, non accetta aria. Il corpo continua ad agitarsi e Russia capisce che deve muoversi.

Anche lui non ha aria nei polmoni, ha la trachea bloccata per il dolore. Ma ne ha uno spiraglio e vorrebbe usarla ugualmente. Prende un grosso respiro, così la gola si riempie. China la testa e unisce le sue labbra gelide con le bollenti di Lituania. Porta tutta l’aria dei suoi polmoni a quelli chiusi del ragazzo. Continua così, molte volte. Nota che ora la gola si è liberata dalla morsa rossa e sta ritornando rosata com’era prima, senza segni. Smette quando le labbra di Lituania riescono a prendere ossigeno. Ora respira, il piccolo. È vivo e respira. E’ felice e terrorizzato allo stesso tempo. Le membra si attorcigliano fra di loro in una morsa, le lacrime sono ormai fiumi sulle sue guance. Sente gli occhi rossi pizzicare.

Lituania diventa semicosciente. Non riesce a vederlo, ha le palpebre abbassate, ma sente la sua ingombrante presenza grande e minacciosa, troppo vicina a lui. Il piccolo si agita, capisce che non riesce a muoversi e allora si lamenta e geme, disperato. Russia lo accompagna anche con la sua gola. È ritornata a serrarsi, la gola. Il cuore ritorna in subbuglio. Stringe al proprio petto il corpicino di Lituania. Poggia la sua testa nell’incavo del collo e lì si sfoga. Nessuno deve sentirlo, nessuno deve svegliarsi, nessuno deve vedere cosa ha cercato di fare il ragazzo.

“Non farlo mai più… Non farlo mai più… Non farlo mai più…” ripete come un disco rotto, il russo. Fa ancora molto male questa ferita. Continua a premere nel punto dolente, più e più volte. Lituania sente lo sfogo di Russia sulla sua pelle. Geme forte quanto lui stesso. Ritorna il terrore per il gigante. Non lo vuole così vicino e non vuole che gli mostri questa parte di sé. Russia capisce tutte queste cose. Il dolore aumenta, sente un’altra coltellata al suo cuore.

“Non farlo mai più, Lituania… Giuramelo che non lo farai mai più! Giuramelo!” ritorna per un attimo bambino, il generale. Per un attimo, un secondo, un piccolo istante, crede di poter migliorare le cose in questo modo. Vorrebbe ritornare bambino, stare con le sue sorelle, quando i problemi era facili da risolvere. Sentire le lacrime di Lituania scendere veloci fino alla gola lo fa ritornare coi piedi per terra.

Vorrebbe che Lituania stia meglio, ora, subito. Si rende conto, la sua parte adulta, che non sarà possibile, mai. Se ne rende conto e il coltello continua a girare nella crepa. Piange ancora e nasconde i suoi gemiti sulla pelle risanata di Lituania. La bacia e la copre di scongiuri. Vorrebbe che lo capisse, Santissimo Iddio Benedetto!, che gli vuole bene. Lo ama, come ama i suoi girasoli, come ama le sue sorelle, come un padre ama il suo bambino. Lo ama, lo ama con tutto sé stesso. Vederlo così lo uccide.

“Perdonami, Lituania… Perdonami…” si rende conto, pienamente, che questa è tutta opera delle sue mani. Hanno versato lo stesso sangue del ragazzo. Lo hanno abusato, sbattuto e violentato. Hanno distrutto il suo angelo. No, lui ha distrutto il suo angelo. Russia non vorrebbe nemmeno smettere. Il dolore è ancora dentro di sé e non prova a smettere. Si rende conto di dover fare qualcosa per il piccolo

angelo, prima che sia troppo tardi. Russia alza il volto, distrutto e umido. Trasale: le iridi di zaffiro sono spalancate, fredde, severe. Russia non comprende questa serietà. Il dolore, ad un certo punto, passa. Ma si è solo congelato dentro di sé, quindi c’è ancora.

“No, non ti perdonerò mai” questo dice Lituania e questo è un’altra coltellata nel cuore del gigante. Russia annuisce, continua a piangere. Lo ammette, Lituania non potrebbe mai accettare le sue preghiere. Lo ammette e lo accetta. Si chiede, in fin dei conti, come potrebbe perdonarlo, dopo tutto quel che gli ha fatto. Lo ammette, lo accetta e abbassa il capo. Continua a gemere e a gettare lacrime. Non gli importa della canna di pistola che preme sulla sua fronte. Non gli importa della sicura, nera, maligna, che scatta. Non gli importa e lo accetta. Annuisce ancora, il gigante. Merita di morire. Così Lituania sarà felice, pensa. E per questo accetta anche lo sparo. Accetta anche il buio. Tanto se lo merita. Tanto è per il bene di Lituania.

Russia si desta. Il corpo, non del tutto sveglio, si rialza sulle proprie gambe, senza aiuti o sostegni. Si volta, si agita, si muove per il suo studio. Urta gli scheletri delle bottiglie per terra, fa cadere i libri e i documenti, getta il suo corpo sulla sedia di pelle. Ma gli importa solo di Lituania, per questo non si agita troppo. È troppo sollevato di capire che è stato solo un sogno per pensare ad altro. Ma poi ricorda che è di nuovo nella sua casa e il suo angelo è ancora malato, allora ritorna il dolore.

Ritornano le lacrime.

Ritornano i gemiti.

Ritorna la consapevolezza di essere un mostro.

 

 

 

 

 

Pianto sommesso, spalle spezzate in avanti, orecchie coperte, fronte sudata, passi troppo veloci per lui. E’ tutto ciò che comprende Lettonia nell’inseguire Estonia, posato e alto in suo confronto. L’estone ha le orecchie sorde. Sente solo un fischio, irritante ed insistente. Non lo lascia andare e questa cosa lo fa arrabbiare ancora di più.

Ha una vena scoperta. La sente pulsare sotto la pelle, sulla tempia. Fa male questo pulsare. È un trapano impiccione. Estonia si massaggia quel punto. Lo affonda con le dita, cerca di farlo ritornare dov’era prima. Non ci riesce. La vena ritorna sempre a pulsare là sotto. La odia, quella vena. È dispettosa e il suo battito è insopportabile. Vorrebbe un coltello, così potrà togliersela immediatamente. Vorrebbe sentirla svuotare tutta, fino a che non avrà più alcun modo di pulsare. Quest’idea lo fa tirare un lungo e forzato respiro. No, la vena continua a martellare la parte laterale della fronte.

Dal vetro delle finestre vede il suo riflesso. L’unica cosa che nota è il rosso. Ha rosso ovunque: guance, tempie, fronte, mento, occhi. Già, ha anche occhi rossastri. Sembrano scintille di fuoco. Dimentica il colore che avevano prima. Sono sempre stati rossi, i suoi occhi. Così pensa e così si convince. Quel colore comincia a piacergli. Quel colore comincia a farlo arrabbiare. Quel colore è sangue. Il sangue è dolore. Il dolore è quello che prova. Trova ingiusto che sia solo lui a provare dolore. Trova ingiusto che sia l’unico che si senta male in quella casa. Vorrebbe che tutti avessero il suo stesso dolore, sarebbe una piccola rivincita. Ma non ha nemmeno quello. Probabilmente Lituania starà ridendo per quel che è successo. La vena sotto la carne pulsa ancora più forte. Estonia vorrebbe sinceramente un coltello.

Oltre al suo passo sperduto, c’è anche quello di Lettonia. Si chiede, con rabbia, perché lo segua. Si chiede perché pianga. Si chiede perché lui pianga sempre. Si chiede perché sia sempre così inutile. Odia Lettonia, perché non gli ha mai dato nulla. Aveva sperato tanto in lui, ma non gli ha mai restituito il favore. Lettonia piange sempre, è sempre il più fragile, colui che ha sempre bisogno della Santissima carità prima di loro due. Ma usa sempre la sua debolezza anche per non farsi toccare da nessuno. Lettonia non viene mai sfiorato da Russia, in confronto a Lituania. Ma nemmeno lui viene toccato da Russia, non come il ragazzo. Si chiede come abbia fatto Lituania a resistere per tutto questo con un parassita come Lettonia.

La sua voce la odia. È piccola, infantile, sempre piena di lacrime, sempre alla ricerca di protezione dove non c’è. Lui e Lituania non possono dargli sempre protezione. Lettonia è una zecca. Succhia tutto il sangue che hanno loro due, suoi fratelli, e vive sopra le loro disgrazie. Lettonia è codardo, non combatte mai, non usa altro che la voce e la usa sempre male. La usa per farli del male. La usa per provocare Russia. Come si può essere così idioti e dire cose così stupide al loro carceriere e torturatore? Ma Lettonia, lo sa, non è stupido. Quindi lo fa apposta. Ecco, ora ha capito, ora se ne rende conto. La vena graffia la pelle, vuole uscire, gridare e bestemmiare per il calore nel suo corpo. La riporta indietro con l’indice e il medio.

Anche ora la sua voce è piena di lacrime, la odia. Vuole avere qualcosa in mano, anche un foglio di carta. Vuole stringere e spezzare fra le dita qualcosa. Vuole avere qualcosa con cui condividere il dolore. Vuole far soffrire qualcosa. Dalla finestra, fuori, c’è il giardino di Russia, i fiori sono appassiti sotto la neve. Ci sono dei passerotti fuori, cinguettano, volano via. Estonia vede il rosso dei loro piccoli petti. I loro cuoricini battono troppo poco, secondo lui. Dovrebbero impazzire e pulsare forte, come la vena che sbatte contro la sua tempia. Vorrebbe avere un cardellino tra le mani. Ascoltare il piccolo cuore nel suo pugno. Sentire gli sbattiti d’ala e il beccuccio sibilante di paura e dolore. Avvertire le ossa delle zampette spezzarsi. Vedere le vertebre della gabbia toracica inclinarsi contro il cuoricino. Osservarlo, alla fine, gettato per terra. Vederlo soffrire e morire lentamente. Vede e sente queste cose di fronte a sé, tra le sue mani. La sua anima, colma di soddisfazione, esce un secondo dal suo corpo, libera. È una bella sensazione.

“Estonia…” l’anima ritorna nel corpo, gettata, gracchiante, ritorna tutto l’odio “…Lituania non voleva dire quelle cose. È solo molto stanco, sono sicuro che non voleva offenderti…” il cuore fa un battito più forte dei precedenti. Ha parlato di nuovo, il piccolo parassita. Estonia ferma i passi. Vede rosso ovunque. Anche il pavimento è rosso. Qualcosa è straripato e si è allagato. Sente liquido scarlatto sotto i suoi piedi. Scorre veloce, rimane statico per un attimo.

Estonia, calmo, calmati.

“Non dovreste litigare” questo tono sottomesso è irritante. La vena pulsa con più forza. Estonia ha male proprio lì “Lituania sta male, è molto stanco e confuso. Non c’è bisogno di arrabbiarsi” questa frase è una miccia crudele, che mangia la corda, fino a toccare la polvere da sparo, nel suo cervello. Estonia si rende conto solo ora di aver avuto i pugni chiusi fino a quel momento. Non riesce ad aprirli, sono bloccati. Le dita delle mani affondano ancor di più nella carne. Sente la pelle aprirsi e bruciare.

Estonia, stai calmo, non sta dicendo nulla di sbagliato.

“S-Sono certo che non voleva dire quelle cose. Ha solo bisogno di riposare. Non voleva dirti per davvero che ti odia…” uno spasmo violento, lo scuote fin all’interno delle membra. Ha gli occhi sbarrati, l’iride di fuoco s’intensifica. Sente i denti bloccati nella mascella, le labbra troppo sottili per trattenerli. Il cuore pulsa ancora in quella vena. Anche l’anima sente l’ira intensificarsi all’interno di essa.

È solo un idiota. Sta’ calmo, sta’ calmo.

“Lituania ti vuole bene, sta solo superando questo periodo difficile e lo sta facendo senza alcun aiuto, quindi è per questo che sta ancora più male” gli manca un battito, questo ha fatto male “Forse se avremmo potuto stargli accanto per più tempo, forse avremmo potuto fare qualcosa per lui…” il battito ritorna. Più forte, più aggressivo, più lacerante. Estonia sente le labbra piene di saliva. Dalla bocca esce un respiro affannato, bollente, surriscalda l’aria attorno a sé.

L’anima esce di nuovo dal corpo, lo lascia indietro, freddo, mentre questa è piena e bollente. La vede, Estonia, la propria anima. La vede in un alone vermiglio, soffocante, concentrato. La vede, Estonia, e non riesce a pensare. Sa solo che queste parole gli hanno fatto molto male. Il corpo senza anima è vuoto. L’anima scarlatta pulsa di forza, s’ingrossa, diventa un gigante, come Russia. Questa si volta, si getta su di lui. Entra subito dentro di sé. Lascia una scarica in tutto il corpo, percuotendolo. Questa forza è troppo grande, è troppo cresciuta. Si sente straripare. Ha caldo. Si sente bruciare. Le mani, le dita, le unghie prendono fuoco. Pizzicano, tremano, urlano di rabbia. La mente è soffocata dall’anima rossiccia. C’è troppo fumo, tanto, gli occhi non vedono più nulla. Il resto delle membra è semplice colla. Fa troppo caldo là dentro, per questo si scioglie tutto, ma non macchia nulla. Estonia è cieco, sordo e prende fuoco. Brucia troppo. Vorrebbe togliersi addosso tutto quel calore asfissiante. Si volta. Non ha il tempo di guardare Lettonia negli occhi. Gli tira un pugno, senza guardarlo in faccia. Il piccolo cade per terra. Trema, le lacrime agli occhi. Estonia sente male alle nocche, ma non gli importa.

“E-Estonia…?” si rende conto di odiare quella voce, quel tono piangente, quelle lacrime e quel piccolo corpicino troppo fragile per qualsiasi banalissima cosa. Anche per aiutare o difendere qualcuno. Estonia si rende conto di desiderare di non vedere più tutte queste cose. Vorrebbe che non esistesse più, questa piccola erbaccia.

L’anima s’ingrossa e rende sangue la sua coscienza. Fa uno scatto verso il piccolo che tenta di fuggire, meschino e vigliacco. Estonia è più forte, più grande e più furente. Riesce a bloccarlo, lo ferma per terra. Gli occhiali appena riparati cadono sul suo pancino tremante. Si rende conto di voler distruggere quel tremolio. Vorrebbe che non avesse niente, questo piccolo bastardo. Vorrebbe che sia vuoto, come lui. Riprende gli occhiali, li rimette in tasca. Non gli servono, tanto è già ceco. Gli tremano le mani nel fare ciò. Il lettone si sente schiacciato come un insetto. Non riesce a smettere di piangere.

“Estonia…?”

No, odio la tua voce. La odio. La odio. La odio.

“Sta’ zitto!”

Un colpo forte.

Un altro.

Un altro ancora. Nocche rosse.

“Non devi parlare mai più!”

Ti odio. Odio anche te. Lituania, mi vedi? Non odio solo te, bastardo.

“Smettila! Basta!”

“Sta’ zitto!!!”

Colpo, dopo colpo, dopo colpo. Sangue. Rosso. Gli piace il rosso.

Vedi, Lituania? Io sono forte. Non sono un coniglio. Sono forte, come te. Come Polonia. Vedi, Lituania? Io sono forte. Polonia è più debole di me. Io posso proteggerti. Sono forte. Sono ancora vivo. Polonia è morto. Ci sono io con te. Perché non lo vedi?!

“Estonia!” piange, piange, Lettonia. Gli fa male la mascella e il naso. Estonia getta una mano sul suo viso umido di rosso e lacrime. Il pollice stringe forte sotto la mascella, affonda nei tagli rossi, li apre ancor di più. Le altre dita tranciano il volto. Estonia ha il cuore fuori dalla carne. Batte forte, senza la vena sulla tempia, quietata, calma, sazia dal sangue. Piange, l’estone. Piange e si vergogna. È diventato come Russia, per questo si sente male. Lettonia vede il volto del fratello e smette di piangere. Le lacrime si bloccano d’un tratto, congelate. Vede il volto dell’occhialuto avvicinarsi al suo. Sente la confusione e il disagio addossati su di lui.

“Tu non devi più parlare. Devi tenere la bocca chiusa. Se ti sento di nuovo ti uccido, Lettonia. Ti uccido” la mano sul volto del ragazzino trema. Scorre troppo sangue là dentro e si sta surriscaldando. Lettonia si sente, ad un certo punto, libero. Qualcosa si è rotto in Estonia e capisce di aver aperto una porta dentro di lui. Però quel lucchetto era troppo pesante e il lettone non è riuscito ad aprirlo con una semplice chiave. Involontariamente ha fatto esplodere la serratura ed Estonia sente tutto il dolore di quella porta aperta. Lettonia annuisce freneticamente, senza lacrime, senza tremiti, senza alcuna volontà di fare qualcosa. Quella porta aperta ha rivelato uno sgabuzzino pieno di rancore ed odio.

Non accade nient’altro. Estonia si alza da terra, ritorna la rabbia, ma verso sé stesso. È diventato un mostro. Se ne rende conto. Non avrebbe mai fatto del male a qualcuno, se fosse stato a casa sua. Vede il volto sfregiato di Lettonia e si sente ancora più mostro. Ha altra rabbia, deve gettarla via il più in fretta possibile. Potrebbe scoppiare di nuovo se non fa qualcosa. Ma con la rabbia si è aggiunto anche il pentimento e le lacrime. Questi fermano il cuore iracondo.

Si volta, non guarda più Lettonia. Ha i passi pesanti, scuotono il pavimento, corrono sulle piastrelle. Lascia il piccolo così, ignorandolo, cercando di fingere di non aver mai visto nulla. Lettonia guarda il soffitto, senza vederlo veramente. L’unica cosa che sente è la porta che sbatte e un ruggito rabbioso fuori casa, nel giardino. Lettonia guarda il soffitto e si sente spezzato. Non ha il coraggio nemmeno di piangere. Non che abbia mai avuto molto coraggio in vita sua. Vorrebbe ricordarsi cosa gli è appena accaduto, ma non riesce a capacitarsene.

Sente il naso gocciolare verso le labbra. Passa lì la lingua. Sente un sapore ferroso che squarcia le papille gustative. Ci sono dei passi vicino a lui. Li sente, ma non vuole vederli, sa di chi sono. Si sente come in un sogno. Si vede volteggiare nel cielo e guardare il suo corpo gettato lì. Non sa nemmeno com’è la sua faccia. Dev’essere come un foglio di carta spiegazzato. Russia getta il lembo della sciarpa dietro le spalle. Si china verso la testa del ragazzino. Lettonia vede il suo volto scuro e gli occhi viola, vivaci fiammelle. Forse è arrabbiato. Per la prima volta, a Lettonia questo non importa. Con le ginocchia al petto, il russo abbassa la testa verso il più piccolo.

“Stai bene?” Lettonia schiude le labbra, non sente alcun pericolo in Russia, quindi vorrebbe parlare. Si ricorda, si blocca. Non deve parlare. Ad Estonia non farà piacere. Per questo chiude di nuovo la bocca. Annuisce, semplicemente, senza tremare. Lo sguardo di fuoco di Russia non sembra rivolto a lui, sembrano invece guardare oltre il corpicino rotto del ragazzino, attratte da altro. Per Lettonia questo è un sollievo. Il gigante fa scivolare le mani sotto le sue spalle e lo solleva. Ha aria sotto i piedi, ma per poco. Russia poggia i piedini sulle mattonelle. Stranamente, riesce a tenere l’equilibrio.

“Vieni, ti curo” dice, senza aggiungere altro. Gli prende la mano e col braccio dolce e solido, lo porta con sé. Russia non ha il sorriso, non l’ha avuto per tutta la mattina. Lettonia vede ancora fiamme violacee nelle iridi. Ciò, paradossalmente, lo fa sentire sicuro e calmo. Non riesce a ricordare i pugni di Estonia. Vede la realtà esattamente così com’è, di fronte ai suoi occhi. Vede il corridoio che percorrono, vede la luce bianca del sole sulla neve che filtra dalla finestra, sente uno squittio di grida fuori dalla casa. Vede una porta, vede che entrano in un bagno. Vede Russia che lo fa sedere sul bordo della vasca da bagno. Lo vede afferrare una scatola di legno e tirare fuori medicine e batuffoli di cotone.

Non trova strano tutto questo, è come se il cervello lo avesse accettato da sempre, che Russia possa, come uccidere, anche far guarire qualcuno. È stupido, ma gran parte di sé lo accetta. Invece, non riesce a vedere né i cerotti, né i tamponi. Vede solo gli occhi infossati e violacei del russo. Per qualche strana ragione non ha paura di loro. Russia è arrabbiato, ma fa il contrario del dolore. Si sente bene, in un certo senso. Russia è gentile e si sta prendendo cura di lui. La stessa Nazione che l’ha invaso e ha bruciato la sua bandiera. Ma, per una volta, qualcuno sembra interessarsi a lui.

Il gigante smette di curarlo, ha finito. Si rende conto di avere un batuffolo nella narice sinistra, un cerotto tra il mento e la mandibola, poi un altro sulla fronte, più grande, con un tampone addossato. In effetti, quel punto gli fa molto male. Il tempo si ferma. Lettonia si rende conto di quanto siano vicini gli occhi di Russia ai suoi. Per quel poco tempo, pensa che siano anche tristi. Il tempo ricomincia a scorrere. Russia fa un lungo ed infelice sospiro. Lettonia sente vodka nella sua gola e suoi denti. Tantissimo alcool. Questo è strano: Russia beve solo nelle occasioni speciali e alle feste.

“Estonia non può dirti quando parlare oppure no” questa frase lo attraversa come un fiumiciattolo che non lascia nulla dietro di sé. È ancora freddo, Lettonia. Russia ha paura che abbia spezzato anche lui. No, capisce che non è così. Il ragazzino incurva gentilmente le labbra verso l’alto. Gli occhi sono lucidi, ma non vogliono gettare niente sulle ciglia.

“Non fa niente, signor Russia, tanto ci sono abituato” qualcosa dentro il generale si scuote e ritorna statico, cupo “E poi, aveva ragione Estonia: io parlo troppo. Devo stare zitto più spesso” così conclude, come se quel che abbia detto sia giusto. Russia si rende conto di molte cose. Ritorna alto e grande. Porge la mano ad un Lettonia ancora sorridente. Il ragazzino non esita, afferra la grande mano e Russia lo porta lontano da lì. Chiude la porta dietro di sé, il russo. Le grida fuori si sono intensificate. Nessuno dei due comprende nemmeno una parola.

Avvicinati alla finestra, capiscono che si tratta di una lingua a loro sconosciuta. Fuori c’è Estonia. Lettonia capisce solo che sta urlando e che le sue mani sono rosse ed umide. Capisce anche che sta prendendo a pugni la parete di pietra sotto di loro. Capisce anche che ha pianto, oltre che collera, la sua voce. Lettonia lo guarda come si guarda un vecchio amico quasi dimenticato. Sono malinconia e dolore i suoi occhi. Le fiammelle nelle iridi di Russia sono spente. Non ha il coraggio di punire Estonia per quel che ha fatto al suo fratellino. Guardano, senza vedere, il povero estone. Lettonia si sente deluso. Estonia, si rende conto Russia, si sta punendo da solo.

“Secondo te perché ti ha picchiato?” ecco, Russia ha dato una parola a quel che è successo tra loro due. Lettonia non vorrebbe chiamarlo così. Suona troppo… pesante. Suona come una cosa troppo negativa. Non sente di essere stato picchiato. Estonia non sa picchiare, quindi quello non era picchiare. Ma non vuole contraddire Russia come fa sempre. Non vuole far passare dei guai ai suoi fratelli. Non vuole sentirsi colpevole come sempre, quando qualcuno di loro viene punito per colpa sua.

“Perché Estonia si sente male dato che Lituania non è ancora guarito” Russia s’incupisce, ma Lettonia non lo nota “E… anche per colpa mia” il russo getta un occhio sul più piccolo. Di solito non parla così poco, il lettone. Ha sempre la lingua lunga, ricorda. Per questo, alle volte, anche lui ha voglia di sgozzarlo. Attende altri secondi, paziente. Il ragazzino continua a non parlare. Un grido più acuto degli altri fa alzare gli occhi ad entrambi: Estonia ha iniziato a tirare calci alla pietra. L'uno e l'altro gli prestano poca attenzione, ancora più delusi.

“Cosa vuoi dire?” Lettonia sbatte le palpebre.

“S-Signore…?” ritorna un breve tremolio. Ma vedere lo sguardo del generale, sconfortato, perso oltre la finestra, lo fa calmare.

“Perché è colpa tua?” Lettonia ha un attimo di esitazione. È solo un’esitazione triste, non perché sia colto di sorpresa o perché abbia paura di questa domanda. Ritorna con gli occhi a guardare Estonia. Si sentono distratte le sue iridi, non vedono bene il fratello.

“Perché parlo sempre, signore” lo stomaco di Russia diventa duro come la pietra “Io… non ho mai la lingua al suo posto. Parlo troppo e dico sempre delle cose brutte o… cose poco simpatiche o maleducate o… cose che qualcuno non vorrebbe sentire. Mi faccio sempre male così. Ma da quando vivo qui, Lituania si è sempre messo di fronte a me” tira su il naso, non è bello raccontare una verità amara e schietta “Mi ha sempre protetto quando non tenevo la bocca chiusa. Lui si faceva del male al posto mio e si faceva punire perché non so come parlare bene e…” le gote diventano rosse, non per l’imbarazzo, le labbra cadono all’ingiù “Estonia si è sempre arrabbiato con me per questa cosa, ma non riesco mai a stare zitto” un singhiozzo timido e gracile “E’ anche molto arrabbiato con me perché sono stato io ad iniziare tutto” dei deglutii, Russia vuole che ritorni a parlare, per questo continua a guardare fuori. Eppure, le lacrime salate del ragazzino, sulle guanciotte rosse, sono una calamita troppo potente per i suoi occhi “Io parlo troppo, Lituania si fa punire al mio posto. Si fa troppo male. Poi però è morto Polonia e… le cose sono peggiorate ancora di più” un attimo di esitazione “Ma ho iniziato io tutto, perché non mi sono ancora cucito la bocca. E-Estonia ha ragione di fare così tutte le volte” quest’ultima frase dà un senso di angoscia al russo.

“Da quanto tempo Estonia ti fa male?” Lettonia chiude gli occhi e si concentra per qualche secondo, non vuole piangere. Ad Estonia non farà piacere. Ma è debole, per questo fa il contrario di quel che dovrebbe fare.

“Da… da quando abbiamo chiuso Lituania nella nostra stanza perché non lasciava andare il corpo di Polonia…” Russia riflette per pochi secondi, ricordando. Le iridi violacee si restringono, piccole. Le palpebre si allargano. Deve forzare la mascella per non farla cadere. Sente la gola secca, così come la bocca. La spina dorsale fa fatica a ritornare elastica e flessibile.

“Lettonia, è passato quasi un anno” il ragazzino deglutisce, ha troppa saliva nella bocca. Almeno le lacrime si sono fermate “E per tutto questo tempo non hai fatto niente per impedirlo?” chiede con calma, ma con fiamme negli occhi. Il lettone non le nota: ha la testa china.

“Non serve, signore, mi sta bene. Estonia ha ragione. Forse così non dirò più cose stupide…” le labbra sottili di Russia si nascondono sotto la sciarpa, incredule. Si chiede se il piccolo sappia cosa stia dicendo. Si chiede se voglia bene almeno ad una parte di sé stesso, il piccolo. Lettonia, nota, nasconde le unghie sotto le maniche della divisa. La testa, timida ed infelice, continua a cadere all’ingiù. Si tocca le manine e le sfrega forte, incurante del dolore. Russia si sente colpito, un dardo di ghiaccio nel suo stomaco. Scuote la testa, il generale. Vorrebbe rimproverarlo, ma non ne ha il coraggio.

“Lettonia, non è così…” si trova senza parole e per questo cede lo sguardo dal vetro della finestra “Avresti potuto almeno parlarmene, così ti avrei potuto aiutare” spera che Lettonia non abbia parlato per davvero prima. Infatti è così. L’essere umano ha una natura codarda, Lettonia non si ritiene assolutamente il colpevole dello stato di Lituania. Appunto, sospira, fa cadere la testa per terra. I riccioli biondo scuri coprono il viso e gli occhi. Le labbra, d’istinto, si allargano. Trema, ma non ha paura.

“No, così Estonia e Lituania si sarebbero fatti del male per colpa mia e mi sarei sentito ancora più male perché sarebbero stati picchiati, visto che io avrei parlato troppo…” un attimo di silenzio per entrambi. Lettonia sente il russo irrigidirsi vicino a sé, come una statua di marmo. Ripensa a quel che ha detto e si rende conto di aver detto altre cose brutte. D’istinto trema e la bocca ritorna arida e secca. Ritorna ad aver paura. Sente Russia sciogliersi vicino a sé. Avverte una sua mano grande e forte avvicinarsi alla testa bionda. Smette di tremare, nella bocca ritorna la saliva. Anche lo stomaco smette di agitarsi. Pensa che sia giusto, pensa che una punizione da Russia sia quel che gli mancava.

Si meraviglia di sentire qualcosa di gradevole sulla sua testa. Non sente alcun pericolo, il suo sesto senso non gli dice nulla. Il suo cuoricino si svuota di tutta la paura. La mano senza guanto di Russia è così grande da riuscire a coprire tutta la sua testa. Si meraviglia anche che Russia sia senza guanti. Lui ha sempre i guanti, anche quando li fa del male. Le dita, prima ferme, ora dolci, fanno dei movimenti circolari. Si rende conto di cosa stia facendo Russia e ne rimane incantato. Alza timidamente la testa. Russia ha uno sguardo triste, nascoste le labbra nella sciarpa, ha occhi schiusi. Un bambino abbandonato nella neve. La carezza sulla sua testa è molto malinconica, ma Lettonia comincia ad amarla. Gli riempie molto il cuore. È incredulo, ma è un’incredulità felice, emozionata. Russia abbassa la testa, non riuscendo a concentrarsi su qualcosa là fuori dalla finestra. Guarda il lettone, ma non lo vede.

“Si, hai ragione” ammette, schietto, freddo, addolorato. Lettonia ignora le urla, ora disperate, di Estonia, fuori. Si concentra sul battito cardiaco della mano di Russia. Ricorda una cosa, un ricordo non molto lontano, ma facilmente dimenticabile. Russia ripeteva a loro tre che erano una famiglia, in quella casa. Era sempre molto felice quando lo diceva a loro. I Baltici fingevano di ammetterlo e gli sorridevano, sperando di dileguarsi subito dalla stanza. Vedere gli occhi umidi di Russia è una dolce pugnalata al cuore. Allora diceva sul serio, pensa. La coltellata affonda ancor di più, cominciando a dolere. Sente la delusione strisciare nel suo stomaco. Aver deluso qualcuno è orribile, anche se si tratta di Russia.

Fuori, Estonia smette di urlare. Si è spaccato a sufficienza corpo e gola. Si accascia con la schiena al muro che aveva picchiato. Si chiude in un bozzolo e lì piange. Lettonia si rende conto di molte cose. Questa pugnalata gli fa ricordare cose atroci. Loro tre non sono mai stati una famiglia. Sono sempre stati divisi, sia per le diversità e, soprattutto, dallo schema sociale creato da queste quattro mura. Lituania era il giocattolo di Russia, il ramo più emancipato, lui il bambino che il mostro amava spezzare il cuore, un ramo un po’ più grande, ed Estonia era il suo segretario, il ramo più alto dell’albero. Fino a quel momento loro due hanno escluso Lituania, un processo tanto lento da non essersene accorto nemmeno il moro. Questa consapevolezza fa male. Inizia a singhiozzare, si sente in colpa per questo. Ha deluso tutti. Ha deluso anche sé stesso e questo fa male, molto male. Si copre il viso con le mani, si vergogna. Russia abbassa un ginocchio e lo fa toccare per terra. Ora hanno la stessa altezza.

“Qualcosa cambierà, Lettonia” questo è una bomba nel suo cuore. Le catene di autocontrollo dentro di sé sono sempre state fragili, ma ora sente di non riuscire più a rimetterle in sesto. Russia gli prende le mani. Man a mano che lo fa avvicinare a sé, le scosta dagli occhi. Le braccine sottili del lettone le poggia dietro di sé, sulla sua schiena. La testa del ragazzino viene accoccolata sulla sua spalla. Abbassa anche l’altro ginocchio e Lettonia si accascia su di lui. Piange molto, per troppo tempo, il piccolo lettone. Russia guarda il soffitto e gli carezza la testa. Le parole sarebbero veleno e non conforto. Sente il suo cuore caldo e mortificato. Vorrebbe togliersi la sciarpa per sentire il suo respiro, anche se umido e debole. Lo culla e facendo questo si sente più caldo e dolce. Ma vorrebbe comunque accompagnare coi singhiozzi Lettonia. Si sente disperato, quasi quanto il piccolo. Entrambi non sanno cosa fare, per accettare il dolore, per eliminarlo, per aiutare Estonia, per aiutare Lituania.

Smette, Lettonia, non ha più lacrime e si sente vuoto. Russia continua tuttavia ad accarezzarlo. Ricorda come ha cullato Lituania e pensa che Lettonia sia molto più caldo e morbido del fratello. Si chiede se Lituania mangi qualcosa e si domanda come faccia a restare sveglio per così tanti giorni. Si chiede anche se non sia stato lui stesso a scavargli nel cranio la fobia del sonno. Ripensa alla casetta piena di sangue, alle bastonate allo stomaco. Si rifà la domanda e si dà la risposta. Questa risposta è dolorosa.

Decide che dev’esserci un cambiamento nel ragazzo, prima che sia troppo tardi. Non vuole che uccida definitivamente il suo angelo. Lo ama troppo per continuare a vederlo morire. Stacca gentilmente Lettonia dalla sua spalla. Sfogato e vergognoso, abbassa la testa di fronte al suo padrone. Russia sorride, meno triste. Passa le dita fra i suoi boccoli. Pensa che nessuno nella sua nazione abbia dei riccioli così belli e folti. Pensa che Lettonia sia dolce e si vergogna di non averlo notato fino ad oggi.

“Lettonia, vuoi che Lituania si senta meglio?” esita un attimo il piccolo, per la vergogna sulle guance. Ma annuisce, forte e deciso. Russia cercava solo questo. Lettonia vede il suo sorriso. Non è cattivo, non è crudele. Quel viola gli piace. Quel colore caldo gli riscalda lo stomaco. In qualche modo lo fa sentire meglio. Anche i pollici tiepidi sono gentili. Apprezza che gli tolgano le lacrime dalle guance. Apprezza tutto questo. Per una volta vuole bene a Russia.

“Potresti stargli vicino, per prima cosa. Non credo che Estonia possa fare qualcosa per lui ora. Tu sei il più adatto come fratello, in questo momento. Devi convincerlo a dormire, con dolcezza, solo come riesci tu” Lettonia alza gli occhi. Ha una speranza fra le dita. Vorrebbe prenderne il filo ed iniziare a tirarla “Credi di potercela fare?” il ragazzino alza la testa. Ha preso il filo, sta iniziando a tirare. Vuole vedere cosa c’è alla fine di questo piccolo filamento. Se c’è della speranza, è pronto a cercarla. Non importa se sia Russia a chiederglielo, l’avrebbe fatto anche se non ci fosse stato il gigante bianco.

Annuisce forte, deciso, quasi combattivo. Vuole indietro Lituania e vuole indietro la calma e la pacatezza di Estonia.

Avrebbe combattuto per riaverli indietro.

Per una volta sente di lottare per qualcosa di buono.

Per una volta si sente fiero di lottare per qualcosa.

 

 

 

 

 

“Sai, ieri sera ho trovato un libro, nella biblioteca di Russia. Parlava di noi, noi Nazioni. Era un vecchio libro, con pergamene gialle al posto della carta. Mi era interessato un capitolo, un capitolo speciale, che parlava della morte”

 

Il vento è freddo e ghiacciato. Tagliente e selvaggio. Forte ed aspro. Duro e pungente. Eppure, a Lituania piace. Si lascia trasportare da quella forza immonda. Pensa al contrario, il suo cervello è sbagliato. Il vento non è freddo e ghiacciato, è caldo e bollente. Non tagliente e selvaggio, ma benigno e cauto. Non forte ed aspro, ma mite e dolce. Non è nemmeno duro e pungente, è tenero e delicato. Ha il volto puntato verso il cielo. Si sente leggero, si trova nei sogni che ha dimenticato. Le mani si liberano e si abbandonano all’indietro. Aspira a pieni polmoni quell’aria, con un sorriso felice. Lituania si sente felice.

Polonia, poco più lontano da lui, ha il volto scuro, occhi lucenti, sopracciglia cadenti, come il collo e la schiena spaccata.

 

Diceva che una Nazione oppressa o psicologicamente esausta ha il diritto di chiedere la fine della sua vita. Ma questa deve avvenire in condizioni tali che il corpo non sia più in grado di trattenere la propria anima”

 

I fiocchi di neve, aghi di dolore, mutano in gocce bollenti. Pioviccica, nella testa di Lituania. La neve, bianca e crudele, si tramuta in verde. Bellissimi campi di trifogli. Il ragazzo si chiede se ci sia qualche quadrifoglio. Se lo trovasse, lo vorrebbe regalare a Polska. Spera che lo renda felice questo gesto. Gli ammassi di neve, si tramutano in montagnole di muschio fresco. Vorrebbe gettarsi sopra, è sempre divertente farlo. Anche a Polska piace tanto, potrebbero divertirsi insieme. Si stringe il petto tra le braccia, molto forte. Gli nasce un sorriso leggero. Il vento, caldo per lui, gli fa lacrimare gli occhi. Si lascia ondeggiare dalle onde bollenti.

Lituania si sente felice. Polonia ha i polmoni congelati.

 

“Sai cosa vuol dire? Possiamo ritornare a stare insieme! Possiamo di nuovo vivere felici. Polska, non sarebbe meraviglioso?”

 

Lo vede. Polonia vede ciò che vede Liet. Vede i prati verdi, i campi di trifogli, il sole caldo, il sorriso sbagliato di Liet. Il biondo si avvicina, timoroso e curvo, accanto all’amico. Guarda di sotto, più in là, lontano, giù, oltre il tetto dove il lituano l’ha portato. Vede due fantasmi, ridenti e felici. Lituania, vicino a lui, si stringe forte, il sorriso è più ampio, negli occhi c’è acqua marina. Vede lui, più piccolo e vivace, fantasma di un principe polacco. Vede Liet, più serioso, più timido, un piccolo cavaliere lituano. Legge un libro, delicato e cauto, il moro. L’altro, più birbante e briccone, gli si avvicina di soppiatto e si getta su di lui. Il libro vola via, sul campo di trifogli. Inizia una dolce lotta, per una volta il cavaliere lituano non si arrabbia col polacco. Il piccolo Polska è un po’ più forte, atterra il moro e lo abbraccia, in cerca di attenzioni. Liet, affianco a Polska, sospira. Inclina la testa e chiude gli occhi, gonfi e tremanti.

La scena cambia. I campi di trifogli diventano mosaici d’oro e bronzo. L’aria è chiusa su sé stessa, abbondante di profumi e odori . Il cielo è scuro, stellato, senza luna, ma comunque bello. C’è un ballo, dame coi loro cavalieri, musica polacca, aria di festa. Lituania, il piccolo cavaliere, ha lo sguardo basso, quasi colpevole, le guance rosse per l’imbarazzo. Non sapeva ancora ballare. Polonia, principe polacco, lo vede. Gli prende le mani, gli sorride, i denti scintillano con l’oro dei capelli. Lo accompagna in una sala, sgombra, buia, senza alcun anima indiscreta. Lo porta lì, al centro. Sorride ancora, il piccolo polacco, gli brillano gli occhi. Il lituano, anche se timoroso, si fida. Si fida dell’amico. Polska ignora il disagio del moro, ballano insieme, ci provano, sbagliano, ma sorridono. Lituania è un pezzo di legno, non ha mai ballato in vita sua, ma non gli importa. Si divertono, ridono, sono felici. Lacrime bollenti lasciano le iridi di zaffiro di Lituania ragazzo. Lituania è felice, eppure piange. Ha una fitta lì, al cuore. Non fa male, anzi, in qualche modo gli fa bene. È un male che lo riscalda e lo rende felice.

La scena cambia ancora. Il Congresso di Vienna. Lituania lo riconosce e il sorriso gli muore, così come una parte della sua felicità. Russia non c’è, lo ha lasciato nel corridoio, ad aspettarlo. Il lituano si guarda i piedi, i suoi occhi sono persi. Un leggero bussare di fianco a lui, sulla finestra. Vede occhi di smeraldo, malinconici e speranzosi. Capelli di grano, pelle di latte. Lituania non è sorpreso. Ha già visto prima Polska, ma non ha potuto parlargli, Russia non voleva. Il moro comprende, si alza, si avvicina, cerca di aprire la finestra, ma non ci riesce. Polska capisce e sembra abbattuto. Non possono parlarsi. Già da mesi non si vedevano, ma fa comunque male.

Lituania non si arrende. Ci riesce, la finestra si apre un po’. C’è un piccolo spiraglio, troppo piccolo per uscire fuori, per sussurrare parole. Polska non vuole parole, Liet non l’aveva intuito subito. Il biondo si china e fa scivolare dentro l’apertura le sue mani, abbastanza piccole. Lituania si china anche lui, gliele porge anche lui. Si sfiorano, si toccano, si stringono. Polonia sembra felice, chiude gli occhi e poggia la testa sul vetro. Lituania è triste, chiude gli occhi e anche lui poggia la testa sopra la sua. Nonostante tutto, nonostante il vetro che li separa, sente il calore di Polska. Le mani di bambino sono calde, perlacee. Le sue sono già tagliate e fredde. Russia è già stato crudele con lui.

Entrambi staccano le teste, confortati e sereni, Lituania ha apprezzato il gesto. Polonia sobbalza, ritira i palmi, cuore in gola. Vede occhi d’ametista, capelli di cenere, sguardo di mostro. Lituania lo vede anche lui, ritorna composto, con l’anima in allarme. Russia ha occhi solo su Polonia. È un gigante, lui un piccolo pulcino. Russia, feroce, afferra il polso del suo giocattolo, lo strattona lontano. Gli occhi di Polska seguono, timidi ma coraggiosi, i due. Lituania viene sbattuto dentro la porta. Russia deve entrare, ma non lo fa. Resta lì, immobile, antica pietra di odio. Le due ametiste trapassano gli smeraldi del polacco. Non cedono, ma si sentono deboli. Russia non sorride, non si muove, non si piega. Rimane lì, osserva rigido Polska, dietro la finestra. Lui stesso spezza il contatto, si volta e se ne va. Lascia Polonia da solo, triste, sa che quello era un avvertimento a non toccare Liet. Lituania, schiavo, triste e disgustato, molla un gran sospiro.

“Già da allora gli dava fastidio…” ha qualcosa di severo e sdegnato, la voce di Liet. L’oro ritorna bianco, le gocce di pioggia si ghiacciano, il muschio muta in cumuli di neve, cadaveri per il bosco. I fantasmi di Liet mutano in aria e vento d’inverno. Polonia volta il capo verso l’amico. Ha occhi severi, sguardo incalcolabile. Il polacco non vuole comunque ascoltare nient’altro. Si sente pieno, una damigiana straripante di tristezza e di malinconia. I vecchi tempi con Liet non sono stati insignificanti ciottoli di pietra. Non vuole vedere né sentire nient’altro. Vorrebbe il bianco e il silenzio. Non vorrebbe avere paura degli occhi di Liet. Lo fissa con una domanda giacente nei polmoni, ma che non ha voglia né volontà di essere liberata.

“…gli dava fastidio che io ti cercassi” il mare tempestoso nelle iridi di Liet ritorna grigio “Non ero ancora morto all’epoca. Credevo che quel Congresso ci avrebbe liberato o che, almeno, mi portasse dalla tua parte o tu dalla mia. Volevo che fossi vicino a te. Mi mancavi” il cuore di Polonia si gonfia e allarga per tutto il petto, tanto è grande “Non mi arrendevo e Russia si arrabbiava per questo. Mi faceva tanto male, Polska. Non voleva sentire il tuo nome in casa. Non voleva che io vivessi più. Voleva che morissi qui dentro e che fossi incatenato in questa casa per sempre” forse vuole aggiungere qualcosa, ma non dice altro. Lituania ha raccontato tutto ciò come se fosse una vecchia storia irosa e stressante. Difficile da raccontare per l’odio represso in essa. Polonia ha orecchie aperte, sente tutto ciò. Gli occhi verdi tremano e si alzano, turbati. Le labbra di Lituania si arricciano verso l’alto, veloci, gli occhi ancora sbarrati e le iridi bagnate.

“Ma ora le cose cambieranno” Polonia ha le ossa congelate, bloccate sopra le tegole del tetto, imprigionate nell’aria ghiacciata d’autunno. Lituania si avvicina al bordo della tettoia. Il biondo ha un brivido di panico, per questo lo segue anche lui. Guarda in giù, il lituano. Vede bianco e grigio della pietra, non gli piace come posto, ma comunque non gli importa. Qualsiasi posto va più che bene. Sbuffa una risata, mascherata con un velo di fatica “Non sarò di nessuno, mai più. Non sarò di Russia, né di Estonia o di Lettonia. Sarò solo mio… insomma, di me stesso” inclina la testa di lato, con gli occhi sfiora la pelle perlacea di Polska. Si volta lento, ancora provato, ma felice. Sorride ancora, ingenuo e pazzo, mentre piega la gamba sinistra e fa scendere il corpo con essa. Lo sguardo incredulo, di pietra, di Polonia sembra quasi serio. Gli occhi smeraldini seguono le mani spaccate di Liet, le vede afferrare la sua, cortesi. Lituania china la testa sul dorso bianco e porge una mano al cuore.

“…oppure sarò tuo” le sopracciglia del polacco, lente, tristi, incredule, si abbassano, colpite al cuore. Un lampo, una saetta invisibile, colpisce Polonia. Fa centro, preme forte al cuore, sulla ferita ancora aperta e sanguinante. Questa saetta penetra nella carne, nel sangue, nelle vene e nelle arterie. Fa rivivere tutto il corpo: cuore, cervello, membra, ossa, diventano creta molliccia. Il biondo si scongela, ritorna caldo, bollente e debole. Il collo regge male la testa, cade all’ingiù, gli occhi s’incupiscono.

Si sente orribilmente confuso, ha vene di terrore pulsanti lungo la testa, sotto i capelli. Lituania si rialza. Con delicatezza angelica prende il volto di Polonia fra le dita. Poggia le labbra rotte sulla sua fronte bianca. Il polacco non sente nulla. Si sente bollente e debole, le orecchie sono sorde, occhi tristi. Le parole di Liet in qualche modo lo hanno rotto. Con fatica si rende conto che le labbra tagliate del moro si sono avvicinate al suo orecchio.

“…mi seguirai, vero?” Polonia ha bisogno di molti, troppi secondi per leggere ciò che ha detto Liet, nel suo cervello. Un’alta saetta, più veloce e distruttiva, si abbatte sul polacco, ma questa volta nella mente. Ritorna la compostezza, la ragione. La mente del ragazzo, da melma, ritorna alla forma originale. Anche il cuore si ricompone e si ricuce, esattamente come prima, vivo. Gli occhi di smeraldo ritornano a brillare, di panico. Sulla lingua, vicino al palato, corre e sbuffa una domanda, che pretende di essere liberata ed ascoltata. Quel ‘Cosa vuoi dire?’ rimane intrappolato tra i denti. Lituania non legge gli occhi. Ha le iridi di un bambino vivace, in cerca di attenzioni.

Polonia ha il cuore in allarme, una consapevolezza crudele sta serpeggiando sulla sua spina dorsale e a fatica cerca di raggiungere il cervello. Lituania, non se n’era accorto, gli ha di nuovo preso le mani. Un occhietto stanco si chiude, una fiacca ed esausta riproduzione di un occhiolino. Liet fa un altro passo all’indietro. Cade di sotto. Le mani di Polonia, prigioniere tra le sue, lo seguono e volano di sotto, a tre piani di altezza.

Polonia sente ogni battito, ogni supplica, ogni grido di terrore tranciare in due il corpo, ma non esce nulla di tutto ciò dalla sua bocca. Vede poche cose. Vede Liet cadere, si vede precipitare addosso a lui. Sente le vertigini urlare nelle sue orecchie, imitate dalla paura e dallo spavento. Il biondo sente la caduta, secca, senza intralci. Non si è fatto nulla, non sente dolore, ma gli occhi continuano comunque a pulsare, irrequieti. Passano diversi secondi e si accorge di essere caduto addosso a Liet, comprimendolo. Ricorda il libro, il terrore ritorna, più cattivo e tortuoso. Si rialza in piedi, traballa e respira male, singhiozzando. Vede Liet, sono caduti sopra ad un cumulo di neve. Il panico cala, il terrore non urla più, vede gli occhi dell’amico, ancora aperti, ancora vivi. Si porta una mano sulla bocca, non ha mai avuto così tanta paura come ora. Uno sbuffo, seccato, esce fuori dalle labbra di Liet.

“L’altra notte ha nevicato, giusto…” sembra un bimbo imbronciato. Polonia blocca il sospiro di sollievo: Liet è ancora malato e sbagliato. Il lituano, dopo millenni di attesa, si rimette in piedi, senza alcuna fatica. Con forti pacche, si scrolla la neve addosso a lui, anche i capelli ritornano mori, senza stelle bianche. Ha occhi corrucciati, Liet. Pare deluso, nota con orrore Polonia. Osserva i piedi scalzi, le spalle violacee dal freddo. Solo questi particolari lo fanno agitare. Non vuole che Liet stia male, non vuole che speri in qualcosa che probabilmente non sia nemmeno vero. Deglutisce, si avvicina all’amico. Vede ancora le labbra imbronciate, un bambino a cui è stato negato di giocare.

“Liet… torniamo a casa, fa troppo freddo…” il lituano non sembra averlo ascoltato, o forse non reputa molto importante ciò che ha detto. Polonia, tremante, gli porge la mano, tanto bianca da brillare di luce propria “Ti prego, Liet…” Lituania guarda quel palmo, ancora corrucciato. Una scena come questa gli pare di averla già vista. Non è il momento. Liet gli afferra, ancora deluso, la mano. Il panico svanisce del tutto dentro al biondo.

Entrano dentro casa, per il retro, nella cucina. È ora di pranzo, ma nessuno vuole mangiare. Infatti è deserta, fredda e buia. Polonia trascina l’amico verso una seconda porta, vuole che vada nella sua stanza, a dormire, che stia tranquillo e al caldo, soprattutto al caldo. I piedi di Liet diventano di ghiaccio, non vuole muoversi. Polonia si ferma anche lui. Ritorna, il cuore, pulsante, sconvolto, atterrito. Cade sullo stomaco, dolcemente, graffia la carne e le vene. A Liet ritorna il sorriso di bambino, ingenuo, estasiato, felice, sbagliato. Polonia si rende conto di aver paura. Scuote il capo, preoccupato, col cuore impazzito.

Liet non dice nulla, semplicemente sorride, più bambino di com’è.

 

 

 

 

 

Lettonia corre, corre, cerca, sbanda, corre ancora e trova.

Non si aspetta di trovare subito Lituania, lì, in cucina, a cercare qualcosa nei tiretti. Non bada a quel che sta facendo, rendendosi conto di aver poco coraggio di fare qualsiasi cosa. Si rende conto di non conoscere abbastanza suo fratello per sapere cosa fare per farlo stare meglio. La prima cosa che gli viene in mente è di parlargli. Ma non sa cosa dirgli. Non sa nemmeno come cominciare il discorso. Scarta subito l’idea, la sua conoscenza sul suo stato d’animo è troppo scarsa. Oltretutto, Lettonia è sempre stato un disastro nei dialoghi. Ricorda Estonia e si sente triste. Ma ricorda anche Russia e si sente speranzoso.

Pensa, quindi, di fare qualcosa. Gli viene in mente quel che aveva scritto a Raivis, tanto tempo fa. Pensa di andare lì ed abbracciarlo, di fingere di essere felice e di consolarlo. Pensa che sia una buona idea, anche se una parte del suo cervello gli dice di non fare cose troppo stupide. È un tira e molla nella sua testa. Vorrebbe osare, ma ha paura di sbagliare. Lituania, nel frattempo, continua a cercare e sussurra parole sconnesse.

 

“Liet… smettila, fermati…”

“Shh… tranquillo, Polska, andrà tutto bene…”

 

Lettonia spalanca la porta e si getta subito su di lui, senza che Lituania possa accorgersene in tempo.

“Lituania, eccoti qui!” dice tutto d’un fiato, stringendolo forte, troppo forte. Dalla bocca di Lituania escono fuori dei gemiti di dolore. Lettonia spalanca le iridi: ricorda le sue ferite alla schiena. Lituania lo spinge lontano. Ha occhi provati, increduli, tremoli sono le mani. Lettonia alza lo sguardo e vede un ragazzo terrorizzato. Lo guarda di sbieco, come se il piccolo avesse tentato di pugnalarlo. C’è un silenzio di ghiaccio, freddo e cupo, fra di loro. Lettonia deglutisce, si rende conto di aver sbagliato approccio. Di nuovo, dopo anni e anni. Ma non vuole arrendersi.

“Lituania, scusa. Volevo solo sapere come stavi…” mormora, con voce incrinata. Non si sente male, ma non si sente nemmeno bene, il lettone. Vuole solo che stia bene, Lituania. Il moro si riprende dallo choc iniziale. La testa di Lituania è alta, paralizzato è il collo. Solo gli occhi si abbassano all’altezza del più piccolo. Sono cupi, severi, straziati di rosso, il blu è scomparso e nascosto sotto un velo nero. Ha ancora occhi freddi, ghiacciati, il ragazzo. Lettonia abbassa lo sguardo, troppo freddo per lui, troppo diverso da come ricorda. Non sembra suo fratello, colui che lo sta guardando.

“Lituania, io… io non ti odio. Voglio che tu stia bene. Io ti voglio bene” ha un groppo alla gola, si sente male. Non ha mai detto a Lituania o ad Estonia che li vuole bene. Mai. Dirlo per la prima volta è difficile. Lituania sembra comprendere quel che dice. Gli occhi si scongelano, il velo nero svanisce e ritorna il blu. È un blu rotto, ma è pur sempre l’azzurro di Lituania. Rimane a pensarci su per un po’, perso in qualche pensiero. Lettonia è in fermento, l’attesa lo schiaccia e lo tormenta. Vorrebbe una risposta, vorrebbe sentire la sua voce, vorrebbe rivedere la vera anima di suo fratello. Lituania chiude un attimo gli occhi, quando gli riapre ha un sorriso sincero in volto. È un sorriso di bambino.

 

“Liet…”

 

Apre le braccia di fronte a sé, come un invito ad avvicinarsi. Lettonia è sorpreso ed ubbidisce, sollevato per essere stato compreso. Il bozzolo nella sua gola svanisce, il cuore è sollevato. Lettonia lo abbraccia, senza toccare troppo la schiena. Anche Lituania abbraccia il suo fratellino. Il moro, non lo vede, ha occhi persi verso altro, verso dei capelli di grano. Polonia vede ancora un sorriso, molto più fanciullesco, molto più dolce. È quasi crudele, quel sorriso. Il biondo scuote ancora la testa, non capisce e vuole capire subito. Lettonia si stacca da Lituania, sorride, lo guarda negli occhi, sinceramente lieto. Lituania gli accarezza la chioma bionda, forse un po’ goffamente per via del sonno, ma il piccolo comprende il messaggio dietro quel gesto.

“Ti voglio tanto bene, Lituania. Lo capisci?”

“Si…” annuisce forte il moro, continuando a sorridere. Lettonia, d’istinto, si alza sulle punte e lo bacia sotto al mento. È felice: Lituania sta già un po’ meglio. Il lituano giocherella con le dita minute del fratellino, ha ancora il sorriso infantile. Lettonia lo stringe un po’ più forte. Polonia sente ancora gli occhi serafici dell’amico su di lui. Scuote la testa con più forza, la paura sta per cedere il posto alla rabbia e al terrore.

 

“Cosa c’è, Liet? Cosa stai per fare?! Cos’hai in mente?!”

 

 Lettonia né vede né sente nulla, un agnellino fra le braccia di un lupo.

“Lituania, questa notte ti proteggerò io, va bene? Terrò lontani i mostri per te. Nessuno ti farà del male, capisci?” il ragazzo ci pensa su, ancora concentrato sulle mani del fratellino, ma annuisce, estasiato. Polonia ha saette negli occhi. Viaggiano veloci: Liet, Lettonia, Liet, Lettonia… Liet. Liet ha occhi scuri, gioiosi, anche un po’ pacati. Polonia continua a non capire, la rabbia sfuma del tutto, ora c’è solo terrore.

“Si…!” mormora, molto convinto. Lettonia è felice.

“Allora andiamo nella nostra stanza? Mi seguirai, vero?” Lituania annuisce più volte, sempre felice, sempre piccolo e immaturo. Il piccolo Lettonia non vede il pericolo, non vede il marcio. Polonia si chiede come faccia a non vederlo, tanto è ovvio, tanto è malato. Esce un sibilo dalla sua gola, non riesce a parlare, non riesce ad urlare. Si sente bloccato, in gabbia, di nuovo. Come nella casetta, come durante le torture di Russia. Non può fare nulla, né può farsi sentire. Il cuore batte forte, impazzito, anch’esso si trova in una gabbia troppo piccola.

“Va bene, vieni con me. Ti farò da guardia: così nessuno ti farà del male” lo prende per mano e lo accompagna verso la loro stanza. Lituania non protesta o scappa, né fa qualcosa di strano durante il tragitto. Lettonia è felice per questo. Polonia li segue, Liet lo guarda ancora. Sfiora con le dita la spalla dell’amico. Lui continua a guardarlo, forse un po’ più serio, forse più maturo, ma è ancora un bambino. Polonia scuote con più forza la spalla di Lituania. Non dice ancora nulla, il moro. Polonia si sente disperato.

 

“Liet, non vorrai fargli del male?!”

 

Queste parole, in qualche modo, scuotono il ragazzo. Il sorriso muore e le palpebre cadono leggermente, come se non comprendesse. Lituania scuote prontamente la testa, quasi indignato per il pensiero di Polska. Non farebbe mai del male a qualcuno più debole di lui, anche se si tratta di uno dei suoi falsi fratelli “No, Lettonia è un bravo bambino…” mormora, sincero. Polonia sospira rammaricato. Liet non sa mentire, per questo è calmo e si fida di lui. Ma ha ancora brividi di terrore lungo il corpo. Il cuore è ancora pazzo, dentro il petto di Polonia. Lettonia, sentito il suo nome, si volta. Gli occhi cerulei sono curiosi.

“Come, Lituania?” Liet inclina la testa, sposta gli occhi scavati verso i suoi. Chiude le palpebre, ritorna il sorriso.

“Sei un bravo bambino, Lettonia. Tanto bravo…” il più piccolo impiega un po’ più di tempo per comprendere la frase. Sbatte le ciglia, gli s’imporporano le guance. Si sente meglio, più felice. Con un cenno del capo, lo ringrazia. Anche Lituania si sente felice, pensa Lettonia. Nella pancia di Polonia c’è un serpente: serpeggia, sibila e morde. Sente il suo veleno entrare nella carne. Brucia e fa male. Si sente confuso, con una consapevolezza di morte.

Arrivati, Lettonia inizia a svestirsi. Lituania lo osserva, statico, quasi meravigliato. Il piccolo non si chiede niente, non vuole rovinare la serenità  fra i due. Tolti i vestiti, si getta sopra al lettone. Ci gattona sopra, con manine goffe. Al più grande sfugge una risata: gli ricorda un neonato. Lettonia non nota nulla e si struscia sotto le coperte. Si sdraiano entrambi dentro. Lettonia, d’istinto, si poggia a pancia in giù, come fa Lituania da diversi giorni. Gli prende la mano e la stringe forte. Sono ghiacciate, le dita di Lituania. Spera di dargli anche solo un po’ di calore. Le dita del moro si muovono tra le sue, lo ringraziano silenziosamente per il gesto.

“Dormiamo insieme?” parla come se il ragazzo fosse un bambino, con voce bassa e mielata. Russia gli ha detto di essere dolce, quindi lo farà. Anche perché vuole esserlo “Se qualcuno viene qui, lo prendo e lo sbatto fuori a pugni e a calci” lo dice con sincerità. Crede anche lui in quel che sta dicendo “Sarò molto coraggioso e ti proteggerò io” afferma con ancora più convinzione e forza. Vuole crederci anche lui, vuole essere più coraggioso e forte. Lituania sembra avere fiducia in ciò che dice, per Lettonia. Il piccolo strabuzza gli occhi: Lituania si è sporto verso di lui, ora è molto più vicino. Gli passa un braccio dietro le spalle e lo stringe al suo petto. Rimane interdetto, il più piccolo. Non si aspettava un gesto del genere. Nemmeno si aspettava il bacio sulla tempia. Si emoziona ancor di più, nessuno tra i Baltici gli ha mai mostrato troppo affetto. Abbozza un sorriso, felice anche per questo.

“Sei un bravo bambino, Lettonia…” lo dice con così tanto affetto che anche le orecchie del lettone diventano rosse. Si sente quasi in imbarazzo, ma è ancora felice. Polonia è seduto sul letto, irrequieto, con le gambe burrascose ed agitate.

“Ti voglio tanto bene, Lituania” dirlo ancora e ancora gli fa male, ma è un male positivo, perché è solo una cosa a cui non è abituato e non perché non lo pensi veramente. Lituania sembra apprezzare le parole e chiude gli occhietti scavati nella carne. Lettonia fa lo stesso, si accoccola nel suo petto. E’ freddo, ma al piccolo non importa, è pur sempre meraviglioso che Lituania si sia fidato di lui.

“Buonanotte, Lituania” sussurra, mentre sprofonda nel sonno.

“Addio, Lettonia…” sente un mormorio lontano, ma non lo ascolta, troppo assonnato, troppo preso dal sonno, dalla stanchezza. Anche dal bacio che Lituania gli lascia sulla fronte. È caldo e dolce, questo è una freccia risanatrice per il suo cuoricino.

 

 

 

 

 

“Liet! Fermati, Liet. Smettila!” è da tutto il pomeriggio che urla, Polonia. È stanco. È stanco di correre, è stanco di inseguire Liet, è stanco di stare lì, fuori, al freddo. E’ stanco di avere paura per Liet, per così tanto tempo. È stanco di corrergli dietro come un cagnolino. Anche il fisico è stanco e i polmoni bruciano e si lamentano. Il cuore protesta, sta correndo troppo. Lituania se ne accorge, si volta e lo raggiunge, ancora coi vestiti nuovi gettati sulle braccia.

“Scusami, Polska! È che… sono troppo felice. Scusami…” Polonia ha ancora il fiato corto, ma riesce a fare un segno di rinnego. Non è arrabbiato, assolutamente. Ma non capisce tutta questa fretta. Credeva che sarebbero andati nella casetta di Russia, ma stanno prendendo la strada inversa, in mezzo al bosco, al buio e al freddo. Non è come una delle sue foreste. Ha alberi neri, folti e selvaggi. La neve è una condanna, sono aghi di gelo, penetrano nella carne, anche nei polmoni e nello stomaco. Lo sente imbizzarrito, lo stomaco: pulsa e si dimena, fa male e si lamenta. La milza è una sorella viziata. Ha sollievo per essersi fermato. Lituania gli pettina i capelli con le dita, scompigliati per il vento. È perso nei fili d’oro, gli occhi stanchi carezzano la i fili aurei.

“Ora siamo abbastanza lontani. Possiamo fermarci anche qui” Polonia non fa come Liet, lo guarda negli occhi. Non riesce ad avere panico, sa solo che gli duole il cuore, batte troppo forte, si è affaticato molto. Fa respiri profondi, un vecchio metodo per eliminare la fatica. In poco tempo, ritorna caldo e concentrato. Anche Liet smette di aggiustarlo, non si era accorto ma anche la divisa si era spiegazzata. Gli occhi di Polonia cadono sull’abito nero che porta con sé. Non è ancora riuscito a chiedergli perché abbia deciso di vestirsi da festa. Semplicemente, molte cose non riesce a capire.

“Liet, perché ti vuoi vestire qua fuori? Cosa c’entrano questi vestiti?” non riesce a chiedere nient’altro, un po’ si vergogna per questo. Ma è un disagio passeggero, Liet lo distrugge tutto con una sua risata. Polonia non può fare a meno di pensare che il suo amico sembri un cadavere. La pelle del viso sembra ancora più grigia, toccata dai fiocchi di neve e dal freddo. Gli occhi sono pozze nere, petrolio sotto di essi, vene vermiglie. Lituania si stacca da Polska. Comincia ad indossare la camicia bianca. A casa si era già messo i pantaloni neri e le scarpe lucide.

“Per le occasioni speciali bisogna vestirsi bene, no?” dice, vago, infantile, con occhi luccicanti, elettrizzati. Polonia lancia gli occhi, discretamente, attorno a sé. Non c’è niente, non c’è nessuno. C’è il silenzio, strappato e maltrattato dal vento. Rabbrividisce, Polska, un pulcino gettato in un cumulo di neve. Lituania passa alla cravatta scura. Si getta i capelli all’indietro, per aiutarsi. Polonia si sente ancora più perso. Finito, indossa, alfine, la giacca nera. Se la stira addosso a sé e si lega i capelli con un elastico, anch’esso nero. Si volta, il moro, estasiato. Allarga le braccia, si vaneggia nei movimenti.

“Come sto?” gli occhi scintillanti vorrebbero, quasi pretendono un complimento. Il biondo lo guarda, confuso dall’ordine che ha preso questa situazione. È bello, Liet, pensa Polonia, è bello in un modo agghiacciante. Nota la cravatta sgualcita e le maniche spiegazzate. D’istinto si avvicina, con volto quasi indignato.

“Non sai ancora aggiustarti una cravatta da solo…” Lituania ride, è una battuta vecchia ma che non sente da anni. Lascia che l’amico lo aggiusti, che gli sistemi la cravatta, che gli aggiusti le maniche macchiate dai fiocchi bianchi. Lituania ricorda con piacere: era sempre Polska quello che lo vestiva, era sempre il più suscettibile, il più femminile, il perfezionista. Anche ora non è nient’altro che Polska, colui che ricorda, che gli manca, con cui passerà l’eternità per sempre. Sente che può farlo, stare con lui per sempre, in Paradiso. Il biondo, dopo un po’, si rende conto di quanto quello che stia facendo sia strano. Quello non dovrebbe farlo, quello non è normale. Si sente di nuovo confuso. Scioglie il broncio e ingoia l’istinto che lo aveva preso prima. Fa scivolare le mani sulle maniche. Gli occhi strabuzzano, sente qualcosa di pesante incastrato in una delle due estremità. Inclina la testa, perplesso, ma non riesce a vedere cosa sia. Gli occhi si alzano, verso i blu di Liet. Il sorriso diventa pacato. Ritorna subito bambino, con lo sbuffo di una risata.

“Ora faccio una magia” gli sussurra, ancora più vicino. Polonia cerca di non far trasparire la confusione e, lo ammette, anche la paura. Ha paura degli occhi sereni di Liet, del suo sorriso, del libro, quel maledetto ammasso di pergamene, abbandonato sotto l’albero vicino a loro. Ha paura della sua mano che gli sfiora i capelli, vicino l’orecchio. Non ha niente di confortante, quella mano. È ghiacciata, gli lascia brividi di freddo, lo terrorizza. Polonia aspetta con pazienza, con occhi di specchio, che mostrano il suo timore. Lituania lo legge e ritira lentamente la mano. L’occhio del biondo è vorace, scattante: s’imbizzarrisce nel notare un scintillio tra le dita dell’amico. La mano ritorna di fianco al proprietario, le dita reggono una lama. È il coltello di Estonia, Polonia lo riconosce. Liet glielo mostra, gioioso, giocoso.

Tadah!” esclama, facendo brillare la lama tra le pieghe di luce della luna tagliata a metà. Polonia è marmo, è ghiaccio, è pietra. Il corpo non si muove, non riesce a farlo. Al contrario, al suo interno vi è caos, urla, grida, strepiti, disperazione, paura, terrore, orrore. Orrore nel vedere Liet giocarci fra le dita, col coltello, come se fosse nulla. Polonia sente l’urlo di sgomento, il suo urlo, che s’innalza nel suo cuore, ma non riesce a raggiungere nemmeno i polmoni o la gola. Liet si tira le maniche del vestito. Gli occhi di entrambi viaggiano sulle vene del polso. Il grido riesce, finalmente, a toccare la gola, ma non la bocca, non è ancora libero.

“Visto? Non sono un disastro nei giochi, dopotutto” afferma, più calmo, più controllato, ma per poco. Sono avidi di sangue, gli occhi di Liet. Osservano con vorace ingordigia i suoi polsi. Polonia è ancora solido nel corpo, ma l’anima si strazia e si getta tra le pareti della sua carne, intrappolata e disperata. Non riesce ad uscire e per questo graffia le membra. Polonia non può farci nulla, può solo rimanere così, una falsa calma, mentre sente le unghie del suo spirito tranciare le pareti di carne, all’interno di sé. Non ha mai visto questi occhi, mai visti incastrati nel volto e tra i capelli di Liet. Polonia non riconosce Lituania.

“Oggi si festeggia, Polska: vivremo l’eternità insieme! Finalmente…!” afferma, chiude le palpebre rossastre. L’anima di Polonia, forte e disperata, strappa le pareti della sua cella e si libera. Polonia non è più marmo, né ghiaccio, né pietra: è ragazzo, è paura, è incredulità. Le iridi di smeraldo tremano, stravolte, piccole, scioccate. Liet non può volere questo, questo che vede non può essere Liet. Il brivido scende sulle gambe, le fa tremare. Anche le ginocchia vogliono urlare di orrore ed indignazione. Il tremiti si spostano verso la testa e le braccia. Le mani e le dita di Polonia desiderano muoversi. Ma non lo fanno: sono troppo sconcertate. Nessuno dovrebbe desiderare morire. Liet dovrebbe essere felice, non dovrebbe avvicinare il coltello ai suoi polsi. Ciò che vede è tutto sbagliato.

Sorde le orecchie, tremore la mascella: la lama del coltello è vicina alla vena principale. Un gemito strozzato sibila fra le labbra del polacco. Il cuore pulsa troppo forte e pretende più aria di quanto ne necessiti. Respira con affanno, il biondo, mentre osserva la lama muoversi incerta. Lituania sospira, deglutisce. Gira il coltello in un'altra angolazione, ma nulla: le sue dita sono bloccate, non vogliono muoversi. Tira un respiro più forte e disperato, si sente in trappola, senza motivo. Non è in trappola, anzi, sta per essere libero, per sempre. Gira di nuovo il coltello. Niente, le dita e la mano non vogliono muoversi. Non ne hanno il coraggio. Lituania non ne ha il coraggio. Uno sbuffo di risata viene liberato, ma soffocato dalle labbra.

“E’… più difficile di quel che pensavo” gli nasce un sorriso di autocommiserazione. Vuole la libertà, ma ha paura di averla. È semplicemente ridicolo. Ride tra sé e sé, il lituano. Polonia è bianco e instabile, nel corpo e nell’anima. Sente le ginocchia sul punto di cedere.

“Liet… non farlo” ha parole incastrate ed ammucchiate nei polmoni. Vorrebbe dirgli molte cose. Vorrebbe essere sconvolto: sente il cuore urlante nella cassa toracica. Vorrebbe essere arrabbiato: due arterie, dello stesso cuore, pompano più sangue del normale, iraconde. Vorrebbe essere indignato: uno spiffero di disgusto, troppo piccolo per avere molta importanza, striscia tra le sue costole. Vorrebbe avere almeno paura, ma non ci riesce. Ha qualcosa incastrato dentro di sé. L’incredulità è troppo forte e la paura è un masso pesante che gli blocca la lingua. Ha paura di Liet. Ha paura per Liet. Gli occhi blu si alzano, ritrovano la gioia. Veloce, scattante, la lama dal polso si sposta al collo. Polonia sobbalza, le gambe traballanti l’hanno fatto scattare sull’attenti. Lituania inclina la testa, sorride. I denti bianchi si scoprono e brillano d’argento, come la luna e il coltello.

“Se mi dai almeno una ragione, allora non mi taglio la gola, lo giuro!” strizza gli occhi, come quelli di una volpe che sa di aver ragione, di avere letteralmente il coltello dalla parte del manico. Polonia è impietrito, freddo, le gambe cessano di tremare, congelate come tutto di lui. Deve obbligare il suo corpo a muoversi, a far spostare le labbra, quel poco per formare una frase. Liet non può fare il bambino e torturarlo in questo modo.

“Smettila, questo non è un gioco” afferma con una voce patetica, ridotta ad un sussurro. Avrebbe voluto che suonasse più forte, più determinata. Lituania ritorna ragazzo. Il bambino si nasconde di nuovo e non si fa vedere, Polonia è rincuorato di ciò. Il moro incastra gli occhi rossi sulla figura del polacco. Vede e traspare tutta la serietà e la paura in lui. Il lituano ha la mente annebbiata. Il cuore deve mandare più sangue del normale lassù, nel cervello. Per questo sente il suo battito forte, terrorizzato anch’egli, ma non per paura, ma per la novità a cui andrà incontro. Vede Polonia e si chiede perché sia così restio. Deve aver paura anche lui, conclude. Ma tutto finirà, quando lo raggiungerà in Paradiso. Per questo ritorna ragazzo, per questo gli occhi di bambino svaniscono.

“Però devi pur sempre darmi una ragione” Polonia ha uno spasmo, involontario, che lo fa vacillare. Qualche fiocco di neve lo attraversa, lui non se ne accorge, troppo nervoso e messo alle strette. Ha la bocca arida, secca, la saliva scende giù per la gola e rallenta ancor di più il suo respiro, già di sé povero. Delle ciocche ribelli di Liet giocano col vento, si lasciano trasportare da esso, dimentiche del loro reale posto nella coda del lituano. Polonia non ha il coraggio di guardare negli occhi l’amico. Si sente piccolo ed insignificante. La lama del coltello brilla, gioca con i riflessi di luna. Lituania annuisce, come se avesse sentito una risposta “Esatto…” lo scatto di una lama si muove vicino al polso. Gli occhi smeraldini si alzano, irrequieti.

“Lettonia!” urla il nome, come se fosse una formula magica. Incredibilmente, come se fosse stato un vero incantesimo, Lituania ferma il coltello. Fissa le labbra dell’amico, freddo ed insensibile. A Polonia scappa un gemito “L’hai detto tu stesso: è un bravo bambino” deglutisce il nulla, Polonia, con la bocca ancora arida. Lituania è ancora freddo “Lui potrebbe aiutarti. Ora è cambiato, ora puoi dare fiducia in lui. E’ diventato buono e più coraggioso, Liet. E’ un bravissimo fratellino” dice tutto d’un fiato, ad intervalli brevi ma intensi. Si ritrova a cercare aria, con grandi boccate silenziose. Le labbra di porcellana si alzano all’insù, disperate, desiderose di una reazione dal moro. Lituania, da freddo, diventa un blocco di ghiaccio. I suoi occhi scuri trapassano i verdi di Polonia. Polska ha paura di quegli occhi. Secondi passati, altri secondi passati. Il tempo sembra fermo, non come la lama tra le dita del lituano, che si poggia sulla vena scoperta. Sembra più decisa di prima, preme forte.

“Non do la mia fiducia ad un parassita” le dita strette al coltello tremano, arrabbiate, inculcate tutte di ira che si concentra solo lì. Il resto del corpo è ancora ghiaccio, nemmeno il volto cambia espressione. Polonia si allarma: il coltello sta spingendo troppo forte, la lama sputa un fiumiciattolo rosso. Scende giù e si congiunge con la neve vicino ai piedi del lituano. Sono poche gocce, ma a Polonia pare un’intera cascata.

“No… lui non…”

“Si, Polska, lui lo è” il coltello si muove, il taglio si allarga, si forma un altro fiumiciattolo cremisi, così come si forma un altro sulla fronte del biondo, trasparente e gelido. Liet sbuffa, si è scoperta una vena di sdegno “Chi nasce parassita, muore parassita. Solo ora lo so…” un altro sospiro, il coltello addenta la carne marcia e fredda, affamato ed ingordo. Un’arteria, collegata al cuore s’ingrossa, dentro il polacco. Diventa troppo grande e continua a crescere, sul punto di scoppiare. Anche la testa sta per esplodere. È una bomba ad orologeria.

“E quel che è successo questa mattina? Come lo spieghi? Lui ti vuole bene, è per da-…” la risata che interrompe Polonia è aspra, maligna e sarcastica. Ha qualcosa di crudele, questa risata, di malato e atroce. Il cuore del biondo, così come l’arteria gonfia, si blocca. Assorbono tutto il male di questa voce straziata e ne rimangono orripilati e sconcertati. Inzuppatosi in questa melma disgustosa, straripano e si getta su tutto il corpo, la crudeltà della risata. Inghiotte ogni cosa, s’ingozza della carne del polacco, dei suoi organi. Divora anche il cervello freddo, lo rende tiepido e sordo. Anche le orecchie sono diventate sorde, rapite solamente dalla voce consumata del lituano. Smette, Lituania, non ha più risate. Anzi, ne ha ancora, ma non ne può sprecare per Lettonia. Preferisce usarle in futuro, per Polska.

“Già, proprio così. Oggi è mio fratello, ma domani ritorna sanguisuga” un’altra risata, molto più breve, lascia le labbra di Liet. Ha ancora più autocommiserazione, questa risata “Sai perché l’ha detto, Polska? Perché ha bisogno di me, in quella casa” il silenzio inghiotte la mente del polacco. Lo ascolta, ammagliato, rapito, nauseato. Gli occhi di Liet si stringono, da angelo diventa demone. Polonia ha un tremito sulla spina dorsale, non ha mai visto un demone in Liet. Mai in vita sua. Sono lucidi di astio, i due zaffiri “Lui è troppo debole per difendersi” la lama affonda ancor di più, trancia in due il polso. Polonia sussulta, trema, gli manca il fiato. Gli occhi di Liet sono concentrati su di lui, ma il biondo non riesce a guardarlo in faccia “Ha bisogno di qualcuno che possa farlo, qualcuno che possa sacrificarsi al posto suo, che le prenda per colpa della sua lingua da serpente” è un ringhio, la voce del moro. Polonia ha le iridi paralizzate sul polso, ora straripante di rosso “Ma Estonia non può difenderlo, lui è egoista, non pensa a nessun altro se non a lui. Allora ci sono io, l’unico che è riuscito a prendere in giro con la sua vocina tremolante” si forma un fiumiciattolo rosso ai loro piedi “E’ anche per colpa sua se noi tre veniamo chiamati il Trio Tremolante. Lo sai questo, Polska?” le dita grigiastre tremano, il polso si sta sgonfiando.

Il sangue fluisce veloce, bisognoso di correre al freddo. Felice, crea per sé un ruscello, rosso e nero. Le rive del fiume rosso baciano e bruciano la neve. La scioglie, desiderosa di unirsi a quel nuovo fluido vermiglio. Si lascia trasportare, la neve, ed entra dentro il sangue. Insieme si fondono e straripano, crescono, mangiano ogni cosa presente a riva. Toccano gli stivali del polacco. Gli lasciano un dolce bacio e continuano la loro avanzata. Il fiume continua a straripare, avendo troppe gocce scarlatte. Lituania respira affannosamente. Fa respiri profondi e lunghi. I piedi non riescono a reggere il peso, anche se poco. Eppure, nonostante si senta male, il moro sorride. E’ un segno positivo, dopotutto, il suo dolore. Polonia vede tutto ciò e balza in avanti. Calpesta il lago scarlatto, ma non si macchia. Sfiora il polso, quello sano, di Liet. Una vena di ansia si è ingrossata sulla sua tempia.

“Smettila, Liet!” Lituania si libera, getta la mano bianca, la intima a non avvicinarsi a lui. E’ un avvertimento brutale e disperato, Polonia lo sente e ne rimane incredulo. Il moro ringhia, un altro avvertimento.

“No, Polska” è sangue, è disperazione, è morte, la voce “Questa volta no, questa volta no…” per un attimo pare più umano. Si è sbagliato di nuovo. I denti bianchi di Lituania brillano come vero argento, i canini lunghi di un lupo, gli occhi scuri e cattivi. Polonia indietreggia, spaventato “Questa volta sarò io a vincere questo gioco!” spalanca le braccia, le gocce di sangue volano tra i fiocchi di neve, il naso gettato sulla luna, sorridente e calmo. Fluisce un fiumicello maligno anche dentro Polonia. Guarda Lituania e scuote la testa. Sa solo che ha paura “Questa volta non sarò il giocattolo di nessuno! Questa volta vinco io!” e ride, disperato, il piccolo lituano che ritorna bambino, infantile ed innocente. Traballa sulle proprie gambe, prive di vita. Il fiume ai loro piedi s’ingrossa e si muove lontano da loro. Gli occhi di zaffiro cadono all’ingiù, ritornano a sfiorare la pelle bianca di Polska “Non sei d'accordo?” e sorride, bambino e dolce.

Riapre gli occhi, scuote le palpebre stanche e le pupille esauste. Il sorriso muore, il bambino è stato ucciso. Le braccia tornano verso terra. Qualcosa si muove, dentro Lituania. Polonia ha le gambe troppo terrorizzate per accorgersene. Non prova nemmeno a farle restare calme, tanto sono impaurite. Vorrebbero scappare, se ne sono accorte anche loro: qualsiasi suo intervento, qualsiasi sua parola è maligna. Le dita pizzicano di ansia. Polonia si stringe le costole, i guanti percorsi da scariche potenti. Anche il capo è scattante. Vuole correre, vuole fuggire. Vuole chiamare aiuto. Non si accorge ancora di Liet, né dei suoi occhi che ritornano morti e tremoli. La mantella cade in avanti, ricevute troppe scosse dall’intero corpo. Anche questa desidera fuggire.

“Polska…?” è un sussurro, è di nuovo angelo, Liet. E’ il piccolo angelo che lui conosce. Scatta, la testa del biondo. Le ciocche dorate sono percosse dal vento, più forte, più arrabbiato. I zaffiri del moro sono persi, cercano e non trovano, la testa confusa e rapida. Dolore è quel che prova Lituania “Polska, dove sei?!” è fine e acuto, il suo grido. Le ginocchia cedono, questa volta. Si accascia di fronte al laghetto nero e rosso. L’abito elegante è funerario e sgualcito, i capelli pesanti per la neve, le mani grigie, senza sangue. Scorre ancora, il sangue, fuori dal polso del lituano.

“Polska…” lo chiama, lo cerca, non lo trova. Volta il capo: destra, sinistra, di fronte a sé. Polska è sparito, Polska non c’è. I suoi occhi sono uno specchio, Polonia vede le proprie iridi, smeraldine, pulsare di angoscia “Polska…!” si stringe il corpo con la mano sana, un bambino rinchiuso in una gabbia. Ha qualcosa di orribilmente famigliare ciò che sta vedendo. Lo ricorda, ricorda la neve, ricorda il piccolo Lituania, ricorda le sue lacrime, ricorda di averlo abbandonato lì, per un suo capriccio, non ricorda nemmeno quale. Si chiede perché siano ritornati indietro. Si chiede perché, in passato, sia stato così crudele. Il suo corpo si chiede perché non stia fuggendo “Polska!” un altro richiamo, un altro tuffo al cuore. Questo è un segnale di pericolo, questo è turbamento nel subconscio di Polonia. Vuole scappare, deve chiamare aiuto. Lui non può fare niente, Liet non vuole essere aiutato da lui. Indietreggia, il volto contratto in una smorfia di terrore. Battono i denti in una danza selvaggia. La piuma ha smesso di bruciare ed ora Lituania non lo vede. Si volta, fugge, i piedi sono autonomi, corrono via dalla voce dell’amico.

Polska!!!” un altro richiamo, un altro sparo nella notte. E’ una piccola lepre, Polonia, che tenta di fuggire dal proprio inseguitore. Gli stivali s’immergono nella neve. È uno sfregare tra la punta e i fiocchi bianchi. Il vento è iracondo, vuole tagliarlo in due, convincerlo a tornare indietro. Soffia in senso contrario, colpisce la sua carne. Inciampa, cade e sbatte. Ritorna in piedi, con gambe di lepre, saltellanti e veloci. Non vuole voltarsi, non vuole di nuovo incontrare gli occhi di Liet. Vuole solo allontanarsi, com’è vero che l’essere umano sia codardo. Polonia non è codardo, ma ha comunque paura di vedere quel demone in Liet. Non vuole sapere con chi abbia parlato, vuole solo che non lo tocchi più. Fugge ancora e diventa più veloce.

Paura. Mai stato così scattante e veloce. Vede il nero degli alberi, troppo diverso dal verde dei suoi boschi. I rami si gettano verso l’alto, ma alcuni cadono all’ingiù, graffiano il polacco. Vogliono fermare la sua corsa. Polonia non glielo concede: deve tornare nella villa, deve cercare aiuto. Strappano pezzi di pelle, li gettano nella neve, ghiotta della sua carne. Sono animali affamati, gli alberi, ostili e feroci. Vogliono anche il suo sangue, per questo rendono i propri rami più affilati, per questo le proprie cortecce si acuminano e lo urtano. Solo in parte ricevono quel che desiderano. Ma Polonia non può pensare a loro. Pensa solo a Liet, al sangue sui suoi polsi, al demone nel suo cuore, al desiderio di morte.

Panico. Non sente nulla, ma lo avverte chiaramente: c’è una forza oscura, più veloce di lui stesso, piccolo cerbiatto. Vuole prenderlo, vuole morderlo, vuole fargli del male. Polonia non vuole farsi prendere, non vuole farsi del male, per questo corre più forte. Sbatte contro le cortecce scure, contro i rami secchi, ma non gli importa. Quella cosa, qualsiasi cosa sia, non deve prenderlo. E deve trovare la strada. Deve raggiungere la villa. Deve chiedere aiuto. Parlando, non ha fatto altro che male. È stato dannoso, inutile. Si sente ancora inutile. Ma non è il momento. Se quel libro ha avuto ragione, se davvero una Nazione è in grado di morire, allora Liet ha solo pochi minuti di vita.

Terrore. Se ne accorge troppo tardi: non sa dove stia andando. Ferma i piedi, la presenza è dietro di sé, ma la ignora, troppo concentrato. C’è un ronzio di vespe nel suo cervello. Vorrebbe riflettere, ma non lo lascia pensare. Si volta, la presenza è sparita, ma costante. Continua ad ignorarla. Si è perso, non sa dove sia. Non sa cosa fare. Qui è anche panico, non solo terrore. Trema forte, il polacco. I piedi saltellano, desiderano continuare la fuga: quella creatura immonda lo sta ancora osservando, tra le sbarre di una gabbia. Polonia si sente in trappola, gli alberi le catene di una cella, la neve un giaciglio povero e malconcio. Si sente anche perso e si guarda attorno, dove potrebbe esserci una traccia. Non la trova, non può tornare indietro: non ha lasciato impronte, non ha idea di dove sia.

Corre ancora, la presenza oscura è più costante. Sente il suo gelo, la sua mano protendere verso il suo collo, affamata. I piedi si fermano, si rendono conto di non sapere dove andare. Ma sono ancora gonfi di panico. Vogliono ancora correre. Ma Polonia non può lasciarglielo fare. Ora inizia a pensare, ora la mente lo prende in inganno. Scorre ansia e fatica nelle vene. Gli sembra di avere una clessidra di fronte a sé. Vede la sabbia scendere lenta, straziante, indica la vita di Liet. Vede la sua vita scivolare via, rapida, come il sangue che scorreva dai suoi polsi. Vede e sente lo scorrere della sua vita. Vede anche sé stesso cadere in ginocchio: la creatura oscura lo ha preso, lo ha intrappolato. Piange, incapace, il biondo. Ricorda anche un altro particolare: ha finito le piume, non potrebbe chiedere aiuto anche se giungerebbe dentro la casa. Urla e si lamenta. La gabbia di rami si stringe più forte, lo soffoca e preme sui suoi polmoni. Getta il volto verso la luna, unico lume della notte.

“Aiuto!” è acuta, ma non patetica, la sua voce. Non vuole esserlo, anche se pensa a tutt’altro. Vuole solo salvare Liet. La vita dell’amico continua a scivolargli tra le mani. Cade e viene bruciata sotto i suoi piedi, come spazzatura. Polonia è incredulo. La vita di Liet non vale così poco. Le lacrime continuano a scorrere, veloci. Fa compassione al suo inseguitore oscuro. Quello lo lascia, si allontana e se ne va, lo lascia solo. Ritorna il freddo, non pungente, ma, in qualche modo, benefico. La clessidra è vicina allo zero, altro sangue e morte. Polonia non riesce a tornare in piedi. La foresta, anch’essa misericordiosa, smette di stringerlo in quella morsa. Lo lascia andare, gli ritorna il fiato e lo usa.

“Che qualcuno mi aiuti!” la foresta è muta, impietosita, il vento piange insieme a Polonia, grida insieme a lui, gli carezza i capelli, lo incoraggia a continuare. Magari qualcuno lo aiuterà per davvero. Polonia urla ancora, frasi sconnesse, turbate dal pianto. Il vento continua a singhiozzare, strepita nelle orecchie del biondo, ascolta il suo lamento. Polonia è disperato, sente altri frammenti di vita di Liet cadere nel nulla. Ritorna in piedi. Si volta e cerca. Non c’è nessuno, nessuno lo vuole aiutare. Polonia non capisce tutto ciò. Non si è mai sentito così in trappola, non si è mai sentito così inutile. È ancora più disperato, ancora più bisognoso di aiuto. Qualcuno deve aiutarlo. Qualcuno deve farlo.

Toris!!!” trovato! Ha trovato il nome che cercava. È stato difficile per lui, troppo orgoglioso, ma ha dovuto usarlo “Toris, aiutami!” è secca, la sua voce. Il vento, ascoltato il nome, si quieta, chiedendosi chi sia questo personaggio. La foresta è ancora più muta, versa lacrime in silenzio per il ragazzo spezzato “Toris, aiutami, ti prego!” il vento ricomincia ad urlare, indignato per non aver visto nessuno. I fiocchi di neve non lo sfregiano più. Si lasciano andare, lo sfiorano, gentili, e lo compatiscono. Tanto dolore in quella foresta non si era mai visto “Toris, te ne prego. Aiutami! È per Liet!” questo nome brucia sulla lingua del polacco “E’ per Liet! Questa volta è per lui!” il vento prende parte delle grida di Polonia e le getta in aria, in modo da farle ascoltare il più lontano possibile. Le lacrime si fermano, la clessidra sta per perdere tutta la sua sabbia “Liet sta per morire! Aiutami, Toris, ti prego!”

Occhi smeraldini, spalancati, biglie di vetro lucide e tonde. Un fischio di falco, un fischio di rimprovero, un fischio famigliare. Alza gli occhi, le braccia lasciano le costole indolenzite. Vicino, veloce, Toris si getta in picchiata. Le piume rossicce tagliano il vento, lo smorzano, acconsentono a lasciarlo passare. Il falcone lancia un altro fischio, atterra di fianco a Polonia. Sorpreso, si asciuga le lacrime. È felice, è salvo. Liet è salvo. Si avvicina zoppicante e col fiato corto. Non ricorda di aver mai sorriso con così tanto calore come in quella foresta. Ma pare che in quel luogo accadano solo novità, questa notte.

“E’ per Liet, per davvero” Toris ha occhi severi, ma pacati. Polonia lo vede muovere le ali e alzarsi da terra. Incredibilmente, i suoi artigli non graffiano la sua spalla quando si poggia su di lui. I suoi occhi neri sono ancora duri, quasi offesi. Passa il becco sul suo orecchio e lo tira un po’. Esce un’esclamazione di dolore e sdegno tra le labbra di Polonia, ma la rigetta subito nella gola: è solo un piccolo rimprovero, nulla di più. Toris è fiero ed elegante e pare che odi perdere tempo. Apre una delle sue ali e strappa una piuma, lunga e rossa, come il fiumiciattolo cremisi di Liet.

Brucia nel suo becco e scompaiono nel buio della foresta, rincuorata che il polacco abbia trovato qualcuno che lo possa aiutare.

 

  
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