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Autore: Kimmy_90    14/01/2016    1 recensioni
La Regio è salda da millenni, sostenuta da una forte e solida gerarchia meritocratica: in cima, i Philosophi, sotto, la Gens. In mezzo v'è la colla della Regio, i Custodes, a guida delle milizie. Vestiti di nero, hanno il volto scuro e le mani chiarissime. Puliti, alti, statuari.
I bambini li chiamano Ombre.
Le Ombre prendono i bambini.
E mentre la società rimane ferma, inamovibile, la tecnologia avanza – tanto lenta quanto inesorabile, fino al punto di non ritorno.
Il rinculo.
Ecco cosa significava davvero.
La spalla che sussulta. La presa che sembra sfuggire.
L’impulso.
Odore di bruciato, e di metallo rovente.
Saeb lasciò che lo guardassero, mentre si calmavano. Un rumore del genere non lo avevano mai sentito, se non durante un temporale. Ma quella era la natura.
Miran, invece, fra le mani serrava un oggetto puramente umano. Preciso e geometrico come solo l’ingegneria della Regio sapeva fare.
“Questo.” disse poi il Rector, facendosi sentire da ognuno di loro “Era uno sparo.”
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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1.   Nomen



Im’ahki Tsarji Hari Miran. 1

Chiuse forte gli occhi e se lo ripeté, ancora e ancora.

Im’ahki. Tsarji. Hari. Miran.

Continuavano a chiederlo. Da quando aveva messo piede in quella stanza, lo chiedevano a ognuno di loro.

Chi sei?

Im’ahki Tsarji Hari. Miran.

Qual è il tuo Nomen?

Non aveva mai usato il suo Nomen. 

Per un attimo aveva creduto di esserselo scordato. Poi una delle Ombre glielo aveva ricordato.

Miran. Il tuo Nomen è Miran.

E come aveva fatto con gli altri trenta bambini presenti nella stanza, aveva ripetuto con lui: Im’ahki Tsarji Hari Miran.

Chi è tua madre?

Im’ah.

Tuo padre?

Tsar.

A che gente afferisci?

Sono un Hari.

E qual è il tuo Nomen?

Miran.

Ricordatelo sempre molto bene, Miran.

Nessuno lo aveva chiamato Miran, sino ad allora.

Ma doveva metterselo bene in testa, perché la donna bionda chiamava per Nomen. Ogni volta che il rumore della maniglia che s’apriva giungeva alle orecchie dei bambini, i loro occhi si portavano sulla porta. Sulla donna. Neanche il tempo di metter piede fuori dalla stanza, e questa pronunciava un Nomen.

Era un sussultare generale - chi più quieto, chi più irrequieto. A chi toccava?

A chi toccava fare cosa, poi?

“Alir2!”

Alir sedeva esattamente di fronte a lui. Era una bambina dalla carnagione chiara e il volto rotondo, con i capelli scuri raccolti in una lunga treccia. Miran intercettò il suo sguardo, come già gli era capitato di fare da quando li avevano messi lì, a sedere.

Era terrorizzata.

Non sembrava nemmeno più respirare.

“Forza, Alir.” La chiamò nuovamente la donna bionda.

Non c’era intransigenza, né fretta, né calma, né accondiscendenza nella sua voce. Era il tono piatto e metodico a rendere ancor più tassativo quell’ultimatum: Alir scese rapidamente dalla sedia e s’incamminò verso la donna.

“Stai dritta, Alir.”

Alir si fermò. Cercò di raddrizzarsi, e proseguì.

“Brava.”

La porta si chiuse.


Im’ahki Tsarji Hari Miran non aveva la più pallida idea di quanto tempo fosse passato da quando lo avevano piazzato su quella sedia. Per quel che lo riguardava, il sole poteva benissimo essere tramontato e sorto una decina di volte: non ne poteva più.

Si sporgeva a destra e a sinistra, guardandosi attorno, scrutando, spiando, osservando. La stanza era candida, levigata, pulita. Emetteva luce. 

Era tutto bianco.

Beh, quasi. Le Ombre, per esempio. Le Ombre, come sempre, erano nere.

Ma il pavimento era bianco, le pareti erano bianche, il soffitto era bianco. E le porte. E le sedie.

E luce, ovunque luce. Liscio. Tutto era liscio, liscissimo, come il ghiaccio del lago d’inverno: però non faceva freddo, e quindi, concludeva Miran, non era ghiaccio. Il ghiaccio veniva solo col freddo. O forse no, forse quello era ghiaccio tiepido.

Anche lui e gli altri erano bianchi – almeno, vestiti di bianco. Gli avevano dato delle lunghe maglie, tutte uguali: ad alcuni arrivavano poco sopra le caviglie, ad altri nemmeno alle ginocchia. Scalzi, sedevano e aspettavano.

C’erano le Ombre. Tre Ombre, come sempre – sempre tre. Tre quando le vedeva al quartiere, tre quando gli avevano detto di seguirlo, tre durante il viaggio, tre in quella stanza.

Due uomini e una donna.

La donna stava in piedi e guardava, sulla porta. Non era la donna bionda, era un’altra donna: aveva occhi chiari e capelli corti e rossastri, sulla carnagione, ovviamente, scura. La sentiva parlare di rado. 

Gli altri due camminavano lentamente su e giù per la stanza, fermandosi ogni tanto a chiedere loro il Nomen.

Poi capitava che qualcuno si mettesse a piangere. Certo, era comprensibile.

Ma non puoi metterti a piangere davanti alle Ombre, si diceva Miran. Di tutti i problemi che lui aveva a star lì, fermo, seduto, ad attendere – l’ultimo era mettersi a piangere. Era troppo eccitato per mettersi a piangere. 

E poi non si era fatto male nessuno: che senso aveva?

Quando qualcuno degli altri cedeva, un’Ombra arrivava –si fletteva, accovacciandoglisi davanti, e spiegava: “Se piangi, dovrò riportarti indietro. Non piangere.”

Non tutti capivano. Ma i più si fermavano.

Già tre di loro erano stati portati via: l’Ombra li aveva presi in braccio, quando oramai singhiozzavano, e mentre quasi sembrava dondolare per calmarli oltrepassava assieme a loro una porta.

Non tornavano. 

Rientrava solo l’Ombra, chiudendosi l’uscio alle spalle, e ricominciando a muoversi lentamente lungo la stanza.

Miran aveva terrore di finire oltre la porta, oltre la porta sbagliata: lui voleva che la donna bionda lo chiamasse, per una buona volta. Non ne poteva più di aspettare.

Sempre più irrequieto, nel suo continuo fremere appoggiò un piede sul pavimento.

L’Ombra donna lo fulminò con lo sguardo. Miran non la stava direttamente guardando, mentre compiva quel gesto avventato: ma la coda dell’occhio gli era bastata per percepire il movimento, l’anomalia, il pericolo. Ora appoggiato a metà per terra e a metà alla sedia, portò lo sguardo verso di lei: lo fissava. Sembrava non essersi spostata – Miran era convinto che non si fosse spostata –, eppure era diventata improvvisamente una minaccia.

Si era solo piegata. Di un millimetro.

Aveva solo deflesso lo sguardo. Di un millimetro.

Bastava.

Miran ritornò a sedere, appoggiandosi con malagrazia, senza scostare gli occhi dall’Ombra. 

Ci volle un po’: lentamente la donna smise di fissarlo, ritornando a sorvegliare la stanza e tutti gli altri presenti.


Shi’ran3 si appoggiò alla maniglia, scorrendo i dati del candidato successivo. 

Come la maggior parte di loro, anche questo veniva da una Gens qualunque, gran produttrice di Bellatores e Agricolae. Erano geni duri, lavoratori ed energici. C’era stato qualche ammesso al Ludus, fra i precedenti – ma bastava un po’ di statistica per capire che il dato era irrilevante. 

Certo la Gens non era tutto. Un indicatore, al più: anche avere informazioni sulla seconda Gens, quella dell’altro genitore, non significava avere chiare le idee sul soggetto.

Nemmeno l’analisi del codice genetico poteva dirsi risolutiva.

No, erano tutte indicazioni. Suggerimenti. Possibilità.

Un gran marasma di potenziale da cui emergevano loro, i bambini – che poi sarebbero stati educati, temprati, istruiti, malleati. Se meritevoli. Se promettenti. O semplicemente interessanti.

Questo aveva imparato Shi’ran nell’ultima decina di anni, lavorando con i pedagoghi alle selezioni. Come spesso succedeva, le sue iniziali convinzioni erano state rapidamente demolite: in breve tempo aveva capito che c’erano più informazioni nascoste in un gesto, un passo o uno sguardo, di quelle che mai si sarebbero potute ottenere da un controllo medico completo.

Ciò non significava che l’uno escludesse l’altro: i controlli medici erano molto importanti, fondamentali – sia per gli individui che per la popolazione. Storicamente, si erano dimostrati vincenti.

Ma per lei, e per quello che era diventato il suo lavoro, erano solo un filtro a grana grossa da cui far passare tutti i candidati, per poi andare a scremare alla vecchia maniera: come il Ludus sempre aveva fatto e sempre faceva. Osservando. Studiando. E con una buona dose d’esercizio. Non era un caso che i pedagoghi fossero prevalentemente Custodes: erano mansioni dove contava più l’occhio che la teoria, più l’intuito e la sensazione che l’analisi quantitativa.

Nulla era quantitativo, nei bambini.

Dapprima aveva odiato questo aspetto delle selezioni. 

Poi, ci aveva fatto il callo.

Ora era pronta.

Sapeva esattamente cosa stava cercando.

Fece capolino dalla porta, chiamando l’ennesimo bambino: un’altra possibilità, un’altra storia, un altro mondo da esplorare, valutare e prendere in considerazione.

“Miran!”


Miran scattò. 

Corse più veloce di quanto mai avesse fatto, lanciato verso la donna bionda: solo a un metro dalla porta si rese conto che forse era il caso di fermarsi davanti a lei, invece di oltrepassare la soglia.

Si arrestò malamente, rischiando d’impattare contro le ginocchia dell’altra: quella lo squadrò dall’alto, aggrottando le sopracciglia.

“Dove pensi di andare?”

Miran tacque, la testa tutta reclinata all’indietro per poter almeno provare a guardarla negli occhi.

“Mi hai chiamato.” disse alla fine.

“Ma non ti ho detto di entrare.”

Miran tacque di nuovo, senza smettere di guardarla.

Silenzio.

Shi’ran fece passare uno, due, tre… molti secondi. Quando ebbe appurato che il bambino non avrebbe mai e poi mai abbassato lo sguardo, costasse quel che costasse, gli fece finalmente cenno di entrare. Mentre quello schizzava, come invasato, verso l’ambulatorio, lei levò gli occhi al soffitto: poi, trattenendo un sospiro, si richiuse la porta alle spalle.

Miran si arrestò in mezzo alla stanza, sorpreso nel vedere che c’erano altre quattro persone, lì dentro. Due di loro erano innegabilmente Ombre; gli altri due erano più simili alla donna bionda. A differenza delle Ombre, avevano carnagioni chiare e vestiti lunghi e bianchi.

“Siediti lì.”

Shi’ran indicò con il capo un ripiano alto almeno quanto il bambino. Osservò il piccolo scrutare l’oggetto, poi guardarsi attorno: dopo aver dato un’occhiata sommaria alla stanza, quello tornò a fissare il ripiano, meditabondo.

Erano molte le cose che i bambini potevano fare in quella situazione, creata non certo per caso: c’era chi chiedeva semplicemente aiuto, chi s’ingegnava, chi era abbastanza forte e agile per arrampicarsi da solo. Alcuni rimanevano immobili e muti davanti all’ostacolo. Altri si giravano e guardavano gli adulti, in cerca di un suggerimento di qualsiasi natura, o, più semplicemente, di una mano. Alcuni si mettevano sulle punte e cercavano di issarsi da soli, senza riuscirci. Certi senza nemmeno sforzarsi: si aspettavano palesemente di venire sollevati da un agente esterno.

I pedagoghi avevano ragione: era più importante il comportamento del bambino rispetto alle sue analisi del sangue. 

L’anemia si cura.

La psiche non sempre. 

È bene conoscerla a fondo prima di iniziare a martoriarla, impastarla, svilirla, modellarla e ricostruirla nella forma più solida ed efficiente che le sia possibile assumere.

Miran saltellò un paio di volte, provando ad aggrapparsi al ripiano: niente.

Si guardò nuovamente intorno, ben attento a non incrociare gli sguardi dei cinque adulti.

Appurato che non c’erano sedie, scale o affini con cui raggiungere la meta, riprovò a issarsi: niente.

Di colpo prese a correre: si allontanò, verso la porta della stanza, finché invertì bruscamente la sua direzione. Forte della sua rincorsa saltò, si aggrappò, appeso scivolò, scalciò l’aria, e con un colpo di reni, finalmente, riuscì a portare il suo baricentro abbastanza in alto da issarsi definitivamente sul ripiano. 

Seduto, con le guance arrossate per lo sforzo, cercò allora – e solo allora – lo sguardo dei cinque adulti, con un largo sorriso stampato sul volto.

Shi’ran si mise a trafficare fra le sue scartoffie prima che Miran potesse ottenere un qualsiasi segnale di approvazione da parte sua: similmente fecero gli altri.

“Iniziamo con il prelievo.”


Nei giorni che seguirono Miran fu sottoposto a una quantità di prove tale da fargli perdere buona parte del senso del tempo. Sebbene mangiasse e dormisse a orari ben scanditi, iniziava a non capire più quanti giorni avesse trascorso in quel posto – lontano dal mondo in cui era cresciuto. Andava pian piano abituandosi, portato a credere di essere destinato a rimanere lì in eterno.

Le persone attorno a lui cambiavano costantemente volto, non una che fosse rimasta per più di un giorno: anche i sorveglianti del dormitorio non erano mai gli stessi. 

Fra un’attività e l’altra – molte delle quali venivano facilmente confuse, dai bambini, per ore di libertà e gioco – si intervallavano analisi mediche. 

Quando entrava in un ambulatorio, per lo meno, gli capitava di rivedere la donna bionda. 

Miran osservava incuriosito ogni ago che gli mettevano in corpo: scrutava interessato il suo sangue fluire nei tubicini e poi nelle provette, oppure s’incantava a studiare le siringhe trasparenti, il pistone, la sensazione strana che provava ogni volta che qualcosa di nuovo gli veniva iniettato nelle vene.

Col passare del tempo la quantità di bambini intorno a lui diminuiva. 

La sua nuova vita stava lentamente iniziando, l’idea di tornare a casa sempre più offuscata nella sua mente: era naturale, ormai, che lui stesse lì.

Quello era il suo posto. In fondo, non poteva essere altrimenti. 

Non riusciva più ad immaginarlo, un “altrimenti”. Non ne sentiva il bisogno.



***



La nuova vita, per Miran, era oramai diventata routine.

Lo svegliavano all’alba. Li portavano in palestra, a gruppi, e facevano far loro quelle che un bambino altro non avrebbe potuto definire che come cose. Anche se ancora intontito dal sonno, Miran si divertiva. Si divertiva sempre.

Si era abituato all’idea che ci fossero sempre nuovi adulti, insieme a loro; e sempre meno bambini insieme a lui. A un certo punto la cosa si era stabilizzata, e, nella continua routine, non si era accorto di iniziare ad aver più facilità nel riconoscere gli insegnanti dei suoi compagni. Accorgersene, però, non significava farci caso.

Era troppo impegnato a fare cose per far caso alle cose.

Dopo la prima ginnastica, la colazione. Sempre abbondante. 

Dapprima aveva pensato di non dover mangiare tutto, visto che nel suo piatto c’era cibo per un giorno intero: magari era una prova anche quella – chissà.

E invece no. La prova stava proprio nel mangiare tutto. Assolutamente tutto.

Non gli veniva difficile, per fortuna.

Dopo la colazione, altre cose in palestra. Ogni tanto gli davano in mano delle matite, e lo facevano scrivere. Contare.

Pranzo, anche quello notevolmente abbondante, e poi altra palestra. Riposo. Palestra. Cena leggermente più leggera – ma sempre molto di più di quanto non avesse usato mangiare nella sua precedente fetta di vita.

Altra palestra. 

A letto.

E visite in ambulatorio, senza un orario preciso: col tempo, comunque, si era abituato anche a quel po’ di casualità. Sulla soglia della palestra, senza preavviso, in un momento qualsiasi, appariva un Custos. Miran lo guardava, e, se il Custos lo stava fissando, doveva mollare tutto e seguirlo. Lo portava in ambulatorio, dove ogni tanto compariva la donna bionda, e il bambino vi restava per un tempo indefinito. A volte dormiva lì. A volte si svegliava lì senza nemmeno ricordarsi d’essersi addormentato.

A volte c’era qualcosa che faceva Bip con dei cavetti attaccati a lui, altre volte no. A volte la donna bionda gli chiedeva di fare qualcosa – saltare, correre, risolvere un gioco.

Quel che Miran adorava dell’ambulatorio era il ripiano in alto. Tutti gli ambulatori avevano un ripiano in alto, uguale a quello su cui si era arrampicato alla sua prima visita.

E lui, ormai, era più che capace di salire da solo e senza alcuna rincorsa sul ripiano in alto. Ergo, appena entrava in ambulatorio, saliva sul ripiano in alto. Che poi venisse sistematicamente richiamato a terra, era un altro discorso. Ma intanto c’era salito, per l’ennesima volta, con la sola spinta delle braccia e delle gambe, facendo sempre meno fatica, controllando sempre meglio il suo corpo.

Scendi.”

Divenne: “NON SALIRE!

Sempre, sempre ignorato.

Alla quinta volta Shi’ran dovette chiamare Isia4.


Miran sostenne senza fare una piega lo sguardo dell’uomo, nonostante gli occhi dell’altro si trovassero a quasi due metri dal pavimento. La sua altezza era ancora più evidente a causa del fisico asciutto e le spalle, in proporzione, strette. Le iridi, nere, sembravano aver la facoltà di emanare ombra. 

Il Custos, che sopra la divisa portava una larga maglia color rosso fuoco, dal lungo collo a V e ampie maniche che raggiungevano i gomiti, inquadrò rapidamente il bambino: leggermente più basso della media, zazzera bionda oltremodo disordinata, il volto tondo come una mela che cercava invano di dimostrarsi serio. Era una furia. Ogni singolo movimento che faceva era esageratamente ampio, teatrale, maldestro solo in apparenza. Miran aveva una sconsiderata coscienza del proprio corpo, ed era palese che lo sentisse in ogni sua singola fibra: il suo ego strabordava in ogni sua azione. Isia non aveva neanche bisogno di leggerne la scheda – a cui comunque gettò, si sa mai, un’occhiata – per capire il soggetto che aveva di fronte.

Ignorare Shi’ran per cinque – non tre, ma cinque volte – significava sfrontatezza intrinseca.

Ma Miran, sino ad allora, era stato abbastanza furbo e accorto da non sforare il limite.

Era ovvia la domanda che si stava ponendo il piccolo, in quel momento – sebbene inconscia. Isia l’aveva molto più chiara di lui. E aveva la risposta pronta.

“Seguimi.”

Miran non aprì bocca, resosi conto di aver passato il limite. Shi’ran lo vide sbiancare leggermente, le labbra strette, e abbassare il capo mentre usciva dalla porta dell’ambulatorio, tenutagli aperta dal Custos. Quando questa si chiuse, il bambino sussultò.

In quel momento Miran focalizzò la sua più grande paura: essere mandato via.

Era passato tanto di quel tempo da quando aveva visto i bambini in lacrime uscire dalle porte per non farvi ritorno, che si era completamente dimenticato di questa possibilità. Per lui i giochi erano fatti, lì era e lì sarebbe rimasto, qualsiasi cosa avesse voluto significare. Qualunque posto fosse.

Qualsiasi motivo lo avesse portato lì.

Quella era casa sua.

Si fermò di colpo. Con la fronte aggrottata e i pugni serrati lungo i fianchi, tornò a sollevare il mento per fissare l’uomo dalla maglia rossa dritto in faccia.

Isia si fermò a sua volta, temendo già di doverlo trascinare a forza.

Rimasero in silenzio, immobili nel corridoio.

“Non voglio andare via di qua!” urlò di colpo il bambino.

Isia levò un sopracciglio, divertito. Incrociò le braccia al petto e drizzò ulteriormente la schiena – come se già un Custos non camminasse abbastanza dritto.

“Non voglio!” ripeté il bambino.

L’uomo attendeva di vedere se quello si sarebbe messo a piangere o meno. Lasciò passare il tempo, senza dir nulla, in attesa del culmine della reazione del bambino.

Ma quello il culmine lo aveva già raggiunto, ed ora, tremante, Miran attendeva una qualsiasi forma di risposta.

No, non avrebbe pianto.

Non era il tipo che si mette a piangere con tanta facilità. Non doveva nemmeno sforzarsi nel trattenere le lacrime.

Isia iniziò a scuotere lentamente il capo.

“Sappi che, d’ora in poi, nessuno potrà mandarti via da qui.”

Miran si rilassò immediatamente, lasciandosi scappare un sorriso.

“Ma sappi anche che niente e nessuno t’impedisce di andartene. Ora seguimi.”

Di quante volte, in quanti modi, per quanti altri motivi avrebbe sentito negli anni successivi quel mantra, quel concetto, quella sfacciata libertà che gli avevano appena accordato, Miran non ne aveva idea.

Niente e nessuno poteva più nulla contro di lui – questo si ficcò in testa, con quelle parole. Era libero.

Completamente libero.

E al sicuro, perché sarebbe rimasto esattamente dove sarebbe voluto stare, e avrebbe fatto esattamente quel che avrebbe voluto fare. Per sempre.

Eccola, la mentalità del Ludus.

Ecco l’allievo, pronto a iniziare.

Isia aprì una porta completamente anonima. Fece entrare Miran in uno stanzino buio, senza alcuna finestra. Accese una piccola luce giallastra: pareti e pavimento erano di cemento, liscio e disadorno. C’era solo un armadio di metallo.

Il Custos levò il braccio, abbassandolo con un clangore: in mano reggeva una catena, alla cui estremità c’era un moschettone. Lasciò la catena a penzolare, di poco sopra la testa di Miran, per avvicinarsi all’armadio. Ne estrasse un oggetto che agli occhi del bambino dava tutta l’impressione di essere una corda. Nera e rilucente.

Isia si accovacciò di fronte a Miran: lo guardò fisso negli occhi grigiastri, dai quali ancora traspariva una mal celata arroganza mista a curiosità. Gli aveva appena dato in mano un enorme potere decisionale, e ora era del tutto intenzionato a metterlo alla prova.

Non era né il primo né l’ultimo. Uno fra molti. L’ennesimo.

A centinaia iniziavano il Ludus così.

“Visto il tuo comportamento, devi essere sottoposto a una punizione.” Scandì il Custos, continuando a fissare il bambino in volto. “Queste sono le regole del Ludus.”

Tacque, in attesa di una risposta da parte del piccolo. Miran annuì, mentre cercava nuovamente di assumere un’espressione seria e adulta.

“Come ti ho detto prima, sei libero di andare via quando preferisci. Ovviamente non puoi tornare.”

Miran annuì di nuovo.

“Quella che ho in mano è una frusta. Ne hai mai vista una?”

Il bambino abbassò lo sguardo: Isia aprì la frusta in tutta la sua lunghezza, lasciando che Miran la studiasse.

“Puoi toccarla, se vuoi.”

Non se lo fece ripetere due volte: la tastò in ogni modo a lui possibile, palpandola per capirne la consistenza.

Strana.

Non sempre erano così collaborativi, i bambini. Spesso bisognava usare la forza. Ma neanche un atteggiamento del genere era raro – garantiva, come minimo, che Miran sarebbe rimasto al Ludus per i primi tre anni. Solitamente, era così. Chi invece reagiva alla frusta urlando e tentando la fuga, aveva due opzioni: o implorava di tornare a casa, o avrebbe fatto di tutto per non dover essere mai più punito, mantenendo una condotta impeccabile.

La verità era che qualunque studente sarebbe passato per la frusta almeno tre o quattro volte nella sua vita, poiché molte regole del Ludus erano talmente implicite da sfuggire ai bambini più piccoli, poco avezzi a quel mondo. Essere puniti era parte integrante della loro formazione.

“Questa è molto morbida, Miran. E ti darò un solo colpo di frusta, alla schiena. Il minimo indispensabile. Ti farà comunque molto male.”

Il bambino annuì impercettibilmente.

“Più continui a disobbedire e comportarti in modo non consono, più forte diventa la frusta – più colpi, più code. Lo chiamano il gatto.”

Miran aveva capito. La sua faccia non cercava più di essere seria: era seria. Respirava più in fretta, ed iniziava a impallidire. Annuiva, quasi ritmico in quel movimento.

“Devi ricordati due cose, Miran.” In tutto questo, Isia continuava a guardare fisso il bambino, senza perdere una sola delle mille micro espressioni che avevano solcato il suo volto. “Prima cosa.”

Miran annuì.

“Si può morire di punizioni.”

Miran annuì.

“Seconda cosa.”

Miran annuì.

“Puoi andartene quando vuoi.”

Miran non si mosse.

Sarebbe andato via volentieri, in effetti.

Ma non con la prospettiva di non poter tornare mai più.

“Se lasci, lasci tutto. Questo deve entrarti immediatamente in testa.”

Miran annuì, per l’ennesima volta.

Alcuni cercavano di scappare, continuando a dire di voler restare. Molti mollavano lì.

Il difficile era braccare quelli che continuavano a dire di voler rimanere al Ludus. Fintanto che uno studente non diceva espressamente di voler andare via, non c’era verso che si risparmiasse una punizione.

E se anche avesse detto, nello stanzino, di voler mollare, gli avrebbero chiesto tre volte se era sicuro. Sicuro. Assolutamente sicuro.

Miran non era di quel genere. Miran aveva una sconsiderata curiosità che lo portava, prima di tutto, a voler sentire sulla sua stessa pelle cosa potesse fare di tanto malvagio quel misterioso gatto. Quella frusta. Quella striscia al tatto fra il molle e il solido, lunga e nera.

Isia si alzò. Dall’armadio estrasse due bracciali di metallo, della misura dei polsi di Miran: glieli mise, e poi li attaccò al moschettone della catena. Il bambino rimaneva immobile, lasciando fare al Custos. La paura gli montava in gola, ma sembrava non essere mai abbastanza da fargli dichiarare la resa.

Continuava a sbiancare, ogni secondo di più. Isia doveva stare attento: se fosse svenuto avrebbe rischiato di farsi male – slogarsi una spalla, cadere di testa. Cose che non erano previste e che, soprattutto per gli allievi dei primi anni, stava ai Custodes evitare che accadessero. Una frustata è una frustata. Una degenza comporta ben altro tipo di spese e problemi.

Con un lieve strattone alla catena sollevò Miran a qualche centimetro da terra, lasciandolo poi lì. Penzolante, il bambino attendeva.

Isia si curò che fosse ancora vigile: gli occhi chiusi, stretti, il volto completamente contratto, Miran faceva profondi e tremanti respiri.

Col tempo – si disse Isia, caricando il colpo – avrebbe imparato a contrarre i muscoli giusti, senza offrirgli una schiena completamente rilassata: c’era molto da imparare, sulle frustate. Specialmente da parte di quello che se ne stava appeso.


Camminò malamente per il resto del giorno.

Gli altri bambini, pur non vedendo il segno della frustata, riuscivano facilmente a intendere che c’era qualcosa che non andava: durante le sedute in palestra volgevano inevitabilmente gli occhi verso di lui, e verso i suoi movimenti strani. Fra tutti gli sguardi che raccoglieva, alcuni erano più intensi degli altri: erano quelli di bambini che sapevano perfettamente che cosa gli fosse successo.

C’erano già passati.

Non appena Miran intercettava il loro intenso fissare, quelli spostavano gli occhi, evitandolo, e dedicando un’anomala attenzione al Custos di turno.

Gli altri, senza quasi rendersene conto, continuavano a osservarlo.

Forse era successo anche a lui, prima, di fissare un bambino punito. Forse non aveva fatto attenzione. Forse.







[1] Pronuncia: Im-à-kì Tsarjï Harì Miràn ( dadadàn dadadàn dadadì dadàn , così dovrebbe suonare)

[2] Pronuncia: Alìr

[3] Pronuncia: Sci-ràn (breve stacco)

[4] Pronuncia: Isìa












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Nota dell’Autrice


Pubblico in rapidità il primo capitolo, per dare un po’ di struttura alla storia, ma vi avviso che non è questo il ritmo di pubblicazione previsto :) sarò più lenta.

Come avete notato già qui iniziamo con tematiche delicate, ma spero non siano di troppo turbamento, visto quel che può girare fra gli scaffali delle librerie. [Ok, in realtà non si vede niente, ma il concetto di base non è molto allegro e non è per nulla l'ultima volta che ne parlerò, anzi. Forse mi faccio troppi problemi, non lo so – però a qualcuno potrebbe dar fastidio. Si sappia che questa questione verrà largamente ampliata.]


Un ringraziamento a tutti quelli che sono passati e passeranno di qui


Pandi

   
 
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