Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    21/01/2016    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

~~
 'L'epidemia di peste che affligge la città sta ritardando i nostri piani. La donna continua a prodigarsi per i malati e questo rema contro le nostre intenzioni. Lui è in mano nostra, ancor più terrorizzato quanto più la moglie passa del tempo con gli appestati. Confidiamo in una rapida risoluzione della pestilenza al fine di riprendere i nostri lavori. Fedelmente, vostro indefesso servo, M. M.”
 Lorenzo Medici bruciò il messaggio, come ormai faceva sempre e prese carta e inchiostro.
 'Auguro che tutto finisca per il meglio. State riguardato. Se quel che dite è vero, la peste potrebbe occuparsi al posto nostro di quella donna ingombrante. Restate sempre con gli occhi ben aperti e la bocca chiusa. Vostro L.”
 Lorenzo rilesse le brevi righe che aveva stilato con grafia sicura e lineare.
 Quella donna cominciava a intrigarlo. Aveva sentito dire tante cose su di lei e più che mai avrebbe voluto poterla conoscere davvero, per sapere se oltre alle chiacchiere c'era qualcosa di realmente interessante su di lei.
 Forse, si disse, il tempo li avrebbe fatti incontrare. O forse no. Se il suo uomo aveva ragione, era più probabile che quel diavolo di donna finisse morta di peste prima della fine dell'anno.
 
 L'estate si faceva avanti a gran falcate e il caldo non si risparmiava.
 Forlì era coperta da una cappa di afa che non lasciava respirar nessuno, nemmeno chi cercava un po' di frescura nell'ombra della propria casa.
 Non solo la città, ma anche tutte le campagne limitrofe erano state colpite dalla peste che, però, in Forlì sembrava essere stranamente sotto controllo.
 Malgrado le iniziali lamentele del Conte, era stato istituito un regime quasi militare, riguardo alle norme igieniche di base da far rispettare. A ogni angolo c'erano guardie, bardate all'inverosimile, che facevano la ronda per assicurarsi che ogni cittadino facesse il suo dovere.
 I morti c'erano, com'era da aspettarsi, ma erano meno di quelli che avrebbero potuto essere.
 La Contessa Riario passava le sue giornate al seguito di questo o quel medico, aiutando personalmente nell'assistenza ai malati e recandosi di casa in casa a spiegare il perchè delle decisioni prese in merito alla conservazione dei cibi e delle bevande.
 Con grande scorno di Girolamo, Caterina aveva investito gran parte dei loro ultimi risparmi per comprare approvvigionamenti per la città e per richiamare dall'estero alcuni tra i medici più quotati.
 Il vero problema, però, restava il caldo.
 La siccità stava inaridendo i campi, che erano stati lasciati per lo più a se stessi dai contadini che si stavano ammalando uno dopo l'altro. Inoltre quel clima impietoso sfiancava anche i pochi sani, che in breve o si ammalavano a loro volta o erano tanto stremati da non poter fare altro che starsene coricati in attesa di eventi.
 Caterina aveva approntato alcune pomate e alcune misture che avevano dato qualche risultato, ma le persone che riuscivano a rimettersi completamente restavano poche. Il numero accettabile di caduti era da imputarsi più al mancato contagio che non alla guarigione dei malati.
 In quel periodo cominciò la singolare malattie di Girolamo Riario, fino a quel momento rimasta latente e sconosciuta ai più.
 Se fino a quella primavera il suo modo di fare era da imputarsi soprattutto al suo carattere instabile e al suo passato, nell'estate il suo comportamento si fece irrimediabilmente patologico.
 Sfuggiva il contatto con chiunque, eccezion fatta che per la sua famiglia e, occasionalmente, i suoi consiglieri più stretti.
 Non sopportava di dover parlare davanti a sconosciuti e rifuggiva ogni contatto con l'esterno, fosse anche solo sporgersi dalla finestra come invece era stato solito fare nei mesi addietro.
 Si chiudeva spesso in una stanza, magari anche per tutto il giorno, standosene al buio, in silenzio, a pensare a chissà cosa, rifiutando i cambi d'abito, il cibo e perfino il sonno.
 Se i benpensanti credevano che questi atteggiamenti fossero legati alla paura del contagio, Caterina era invece convinta che suo marito fosse impazzito una volta per tutte.
 Tuttavia, malgrado la sua compagnia fosse l'unica veramente ricercata dal marito, la Contessa lo evitava platealmente, dicendosi sempre o troppo impegnata o troppo stanca per stare ad ascoltarlo.
 Sapeva che così facendo lo stava gettando ancora di più nel baratro che si era creato da solo, ma non riusciva a provare altro che soddisfazione, per la disperazione che leggeva negli occhi di Girolamo.
 Solo qualche volta, quando restava sola di notte, tormentata dalla morsa del caldo che non la lasciava nemmeno nelle ore piccole, si chiedeva se quello che stava facendo a suo marito non fosse solo una forma di crudele vendetta.
 Anche quando arrivava a pensare che era così, non riusciva a sentirsi in colpa.
 Proprio per questa mancanza di trasporto, Caterina cominciava a temere di essere impazzita anche lei, condannata alla cattiveria più profonda da quell'uomo che l'aveva strappata alla sua casa molti anni addietro.
 
 “E così voi due avete deciso di andarvene.” disse Rodrigo Borja, guardando Vannozza con sguardo supplice.
 Vannozza gli accarezzò con lentezza la guancia, un lieve sorriso dipinto sul suo volto: “Sei stato tu a farmi sposare di nuovo. Sarei anche rimasta sola, ma non hai voluto. Ora devo ricominciare e per farlo voglio essere lontana da qui.”
 Rodrigo si morse le labbra. Certo che era stato lui. L'aveva voluta sposa non una, ma quattro volte. I primi tre mariti di Vannozza erano morti, tutti. Una maledizione sembrava aleggiare attorno a quella donna...
 Anche se lui per primo l'avrebbe voluta solo per sé, almeno per salvare le apparenze aveva voluto dare alla sua amante uno sposo degno di questo nome, qualcuno che fosse rispettato da tutti.
 E ora Vannozza era già al quarto matrimonio e tra loro, ormai, non era rimasto più nulla. La brama di potere di Rodrigo aveva rovinato tutto...
 “Carlo è un brav'uomo.” disse Vannozza, stringendosi le braccia attorno al petto: “Con lui non voglio essere una moglie a metà. Ormai per noi è tardi, Rodrigo...”
 Il Cardinale Borja aprì la bocca, senza trovare le parole. Non era da lui starsene muto, incapace di rispondere a tono.
 Sapeva che Vannozza aveva completamente ragione. Si era sposata da quasi un mese, l'8 Giugno per l'esattezza, con Carlo Canale, uomo scelto da lui in persona, ma le cose non erano andate come Rodrigo aveva previsto.
 Scegliendo quel damerino, uomo di cultura e non d'azione, aveva sperato di mettersi in casa l'ennesimo burattino da tener buono a suon di regalie e concessioni.
 Non aveva minimamente pensato che Vannozza avrebbe potuto provare qualcosa per quell'insulso letterato...
 “Carlo mi piace. E piace ai nostri figli.” disse infine Vannozza, mentre i suoi occhi si illuminavano di qualcosa che a Rodrigo pareva un senso di pace che mai le aveva visto in viso: “Starò bene con lui.”
 Rodrigò allungò una mano, come per fermarla. Vannozza la prese tra le sue e se la posò sulla guancia: “Non preoccuparti. Ci vedremo ancora. I miei figli sono anche i tuoi e questo non lo dimentico. E non lo dimenticano nemmeno loro. Ma la nostra storia finisce oggi.”
 Il Cardinale sentì gli occhi pungere, come se le lacrime, così a lungo represse, stessero per vincere ogni altra resistenza: “Abbi cura dei nostri figli. Soprattutto della mia Lucrezia...”
 Vannozza annuì in silenzio e, con leggerezza, diede un veloce bacio sulle labbra a Rodrigo. Un contatto tiepido, sfuggente, ma dolce, come quelle volte in cui un bacio del genere era solo un arrivederci che prometteva giorni interi trascorsi assieme a parlare di nulla e a immaginare il futuro.
 Mentre Vannozza usciva dallo studiolo del Cardinale Borja, Rodrigo sentì un vuoto abissale farsi strada nel suo petto. La donna della sua vita stava prendendo un'altra strada, lontana dalla sua.
 Sì, i figli che avano avuto li tenevano ancora legati l'uno all'altra, ma sarebbe stato tutto diverso.
 Incapace di trattenersi oltre, Rodrigo cominciò a piangere in silenzio e, per la prima volta dopo anni, pregò.

 “Se solo piovesse...” sussurrò Caterina, guardando il cielo scuro e nuvoloso sopra di sé.
 Era già settembre e il caldo non demordeva. Da anni l'inverno cominciava in anticipo e finiva in ritardo, mentre quella volta si faceva pregare.
 Qualche topo quittì in un angolo della strada, attirando l'attenzione della Contessa e del chirurgo che le stava accanto.
 “Andiamo, mia signora...” la invitò l'uomo, prendendola per un braccio e trascinandola dalla parte opposta agli squittii.
 Un paio di guardie scacciarono i ratti, ma non riuscirono ad ucciderli. Quei grandi roditori non facevano altro che infilarsi in ogni angolo, rosicchiando tutto quello che trovavano e spargendo le loro pulci ovunque. Vivevano nel buio, sfuggivano dalla luce e alcuni di loro sembrava completamente allucinati, come se avessero perso il senno.
 In una qualche misura, a Caterina ricordavano Girolamo.
 “La pioggia sarebbe un grande aiuto.” confermò il chirurgo, mentre si avventuravano nelle vie secondarie della città: “E prima o poi pioverà. La siccità non può durare per sempre.”
 Caterina era d'accordo, anche se da giorni il cielo era grigio, ma non lasciava cadere nemmeno una goccia di pioggia.
 Visitarono un paio di case e controllarono altrettanti malati. Caterina consegnò un paio di boccettine con unguenti curativi e consolò una vedova e un padre, ma non poté fare molto altro.
 Stavano tenendo l'epidemia sotto controllo, questo era vero. Sapeva che per l'Italia si stava diffondendo la diceria che in Forlì moriva meno gente per la peste, rispetto alle città vicine.
 Peccato che in molti ritenessero questo traguardo il risultato della stregoneria messa in pratica dalla signora della città. Per fortuna nessuno aveva osato accusarla apertamente, altrimenti avrebbe dovuto difendersi. Finché restavano solo chiacchiere da paese, Caterina poteva scherzarci sopra.
 Quando quella sera tornò a palazzo, stanca come sempre, ma ormai abituata alle giornata interminabili passate tra i miasmi della morte e le lacrime dei suoi cittadini, si cambiò in fretta e si lavò come aveva preso a fare fin da subito, per evitare di portare con sé la malattia e attaccarla ai figli.
 Trascorse qualche momento coi bambini, soprattutto con Ottaviano, che più di tutti richiamava la sua attenzione. Girolamo era andato con loro, ma era rimasto per poco. Appena Caterina aveva cominciato a raccontare ai piccoli le storie di Bianca Maria Visconti e di Francesco Sforza, Girolamo aveva fatto un'espressione indecifrabile e se n'era tornato nelle sue stanze a rimuginare.
 Una volta rimasta sola, Caterina si gettò sul letto, senza nemmeno spostare le coperte, esausta.
 Stava per addormentarsi, quando un rumore strano attrasse la sua attenzione.
 Drizzò le orecchie e aprì un occhio, incredula. Era un ticchettio costante. Debole, ma continuo.
 Con un entusiasmo che non conosceva da tempo, si buttò giù dal letto e corse alla finestra.
 Stava piovendo.
 Piano, timidamente, ma stava piovendo.
 Caterina sorrise, mentre qualche lacrima di sollievo cominciava a bagnarle le guance.
 Andando avanti così, quell'acqua avrebbe lavato via ogni cosa, salvando la città.
 Continuando a piangere di gioia, Caterina tornò a coricarsi e si addormentò con ancora il sorriso impresso sulle labbra, cullata dal rumore un po' ripetitivo, ma molto rassicurante, di quella sospirata pioggia di settembre.
 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas